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Autore: AnnabethJackson    28/01/2014    13 recensioni
| Percabeth | AU |
---------------------------TRAMA---------------------------
Annabeth ha 18 anni quando viene violentata. Subisce un trauma così profondo che non riesce più a sorridere, a ridere,a vivere. Nessuno è in grado di aiutarla ad uscire da quella bolla di indifferenza in cui è intrappolata.
Due anni dopo Annabeth non è diversa da quella maledetta sera, e il padre, l'unico uomo di cui lei si fidi ancora, non riesce più a vederla riversa in quello stato. Così convince la figlia a partire per il Brasile in veste di insegnante, ed è così che la ragazza fa una promessa a sé stessa: nulla avrebbe dovuto rinvangare il suo passato.
Annabeth però non sa che la scintilla perduta è proprio dietro l'angolo della bella Rio, mascherata da un ragazzo da cui deve stare lontana, dei bambini che amano la vita, e un amore inaspettato, per nulla voluto, ma in grado di innescare il processo di rinascita inevitabile.
------------------------DAL TESTO------------------------
«Non voglio spaventarti, non voglio allarmarti e sopratutto non voglio metterti fretta. Accettalo e basta. È importante che tu ti prenda tutto il tempo necessario, ma ho l'urgenza di dirti che...» mormorò.
E poi accadde, senza alcun preavviso. «Ti amo, Annabeth.»
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nico di Angelo, Percy/Annabeth
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love the way you live - La raccolta'
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
 

Capitolo 1
 

__________________________

New York, 12 Luglio
_____________________

Fermiamoci un momento a pensare, un tempo abbastanza lungo da poter osservare con attenzione alcuni particolari dell'esistenza di ogni essere umano: esistono dei fattori, suddivisibili a loro volta in tre grandi categorie, che condizionano la nostra vita fin dalla nascita. Come, ad esempio, le esperienze belle, quel genere di vicende che ci rendono euforici, talmente felici da pensare di aver raggiunto l'obiettivo di tutta una vita. Qualcuno in questo momento starà pensando alla nascita di proprio figlio; oppure uno studente starà immaginando se stesso mentre impugna il foglio bianco della laurea.
Ovviamente, come qualsiasi altra cosa al mondo, esiste anche l'opposto, la nemesi di quegli istanti di felicità più assoluta: immaginatevi dunque l'esperienza più brutta che abbiate mai vissuto, quel momento talmente destabilizzante da avervi fatto quasi cadere in depressione. La morte di una persona cara? Lo scoprire che il fidanzato vi tradisce? Insomma, avete capito.
Certo, il mondo non è solo bianco e nero, non si passa dall'essere felici al venire schiacciati dalla tristezza in un battito di ciglia. Se così fosse, i muscoli del nostro viso conoscerebbero solamente due modi di tendersi: sorrisi luminosi e rughe di preoccupazione sulla fronte. Esistono dunque svariate sfumature di grigio – e, no, non mi riferisco di certo a quel libro. Il grigio più tenue che riempie le nostre giornate di noia o di aspettativa: riordinare la stanza, bere una buona tazza di tè ai mirtilli, scambiare due chiacchiere con la propria migliore amica mentre il professore spiega.
Ci muoviamo nello spazio, avvicinandoci o allontanandoci dalle persone; entriamo in relazione con esse, creando dei rapporti, coltivandoli finché questi non diventano più saldi oppure naufragano scomparendo definitivamente; viviamo, seguendo l'andamento della giornata che ci trascina in avanti, verso il nostro inevitabile destino.
Tutto ciò che decidiamo di fare, però, tutte le azioni che compiamo e a cui ci sottoponiamo, ciò che termina con delle ripercussioni sulla nostra persona, ha una prima volta, significativa o meno.
In diciotto anni di vita mai mi ero soffermata veramente a pensarci con coscienza, sviluppando una mia conclusione, ma ricordo ancora tutte le mie prime volte più importanti, una per una, come se le avessi vissute solo ieri. Non sono un genio, ma ho una buona memoria.
Per esempio, ricordo – o meglio, ho una foto – di quando a cinque anni mi cadde il primo dente e corsi da mio padre a mostrarglielo, fiera, anche se una piccola parte di me era leggermente terrorizzata dal sangue.
Poi ci fu quella volta a sette anni, quando caddi a terra nel cortile della scuola ferendomi il ginocchio e un certo Tom Dawkins mi tenne compagnia fino all'arrivo della maestra. Per ringraziarlo, gli diedi un bacio sulla guancia e lui divenne tutto rosso, anche se l'anno dopo non ci siamo nemmeno più rivolti la parola.
La mia prima vera cotta si chiamava Austin Nillson. Aveva lo spazio tra i denti davanti e le orecchie a punta, tanto che quasi assomigliava a un piccolo folletto.
Gli anni passavano e, mano a mano che invecchiavo, per così dire, le prime volte diventavano sempre meno: eppure continuavo a sperimentarne di nuove. Tuttavia, malgrado l'infinità di prime volte che possono esistere – lanciarsi da un deltaplano rientrava in quelle, e anche il baciare una persona del proprio sesso – quelle veramente significative, che ti cambiano la vita, che la condizionano, si possono contare sulle dita delle mani. E, secondo gli ultimi calcoli, a diciotto anni a me ne rimanevano appena una manciata.
Ma quella notte, una mi venne rubata.


 
||


«Allora, dolcezza, hai adocchiato qualche bel maschione?» Guardai Piper mentre alzava e abbassava le sopracciglia nel chiaro intento di ammiccare nella mia direzione. Ero così abituata a quel gesto nell'ultimo periodo che nemmeno ci facevo più caso.
Luci verdi, bianche, rosse e gialle si univano in un vortice indistinto seguendo il tempo della musica alta, amplificata dalle due casse all'angolo destro della sala, creando quello che io chiamavo rozzamente un grande casino. Il dj se ne stava tranquillo dietro agli amplificatori, con una mano premuta sulle cuffie attorno al collo e l'altra a schiacciare in successione diversi tasti del monitor che aveva davanti a sé, apparentemente immune al martellante ritmo di quella – scadente – musica pop.
Le maggior parte delle persone se ne stavano stipate al centro della pista, talmente vicine da creare un'unica massa informe di cui non si riusciva a capire dove finisse il braccio di uno e dove iniziasse l'altro. Sudore, paillettes, tacchi alti, drink dagli improbabili colori fluorescenti, minigonne fin troppo mini, top attillati, fumo di sigarette a intasare l'aria già di per sé putrida della stanza... C'era da perderci veramente la testa. E io non comprendevo il motivo dell'euforia che sembrava regnare indisturbata quella sera.
Piper spostò i suoi indomabili capelli dietro a un orecchio con un gesto fluido, portandosi poi il bicchiere alla bocca e bevendo un lungo sorso del drink rosa shocking. Le sue scapole erano imperlate di sudore già da diverse ore; sembrava quasi la rugiada che ogni mattina trovavo sulle foglie del gladiolo fuori dalla finestra della mia camera da letto. Non che avessi un grande pollice verde, ma mi piaceva pensare che invece fosse così.
Senza aspettare una risposta da parte mia – che comunque non sarebbe mai arrivata – indicò ciò che tenevo, inconsciamente, ancora in mano.
«Non è il miglior drink che tu abbia mai assaggiato?»
Abbassai lo sguardo sul bicchiere contenente lo stesso liquido rosa che prima c'era anche nel suo e feci una smorfia. Poche ore prima ero riuscita pure a trovare il coraggio di assaggiarne un goccio per pentirmene l'istante successivo. Il gusto di alcool mi aveva bruciato la gola e per i miei gusti da quasi-astemia era già fin troppo oltre il limite della serata.
«Quanti bicchieri ti sei fatta stasera, Piper?» domandai a un certo punto, aggrottando le sopracciglia. La mia domanda era assolutamente lecita visto il modo in cui Piper già strascicava le parole e l'espressione ebete che compariva sul suo viso ogni volta che sorrideva.
«Due o tre... o quattro. Credo. Penso» disse, parlando più a se stessa che a me, come se il suo cervello fosse stato troppo annebbiato per poter accedere con chiarezza alla sezione “ricordi”. «Il ragazzo del bar me ne ha offerto uno poco fa, ma Jason l'ha sentito. Credo se ne sia pentito» aggiunse poi mettendosi a ridacchiare, mentre si mascherava la bocca con una mano dallo smalto curato in modo maniacale.
Sospirai, consapevole che quel gesto significava che il suo limite di inibizione era già stato, purtroppo, superato.
«Non ne dubito» mormorai, spostando lo sguardo altrove, domandandomi quanto tempo avrebbe impiegato per superare anche la soglia dell'ubriachezza, passando direttamente a compiere gesti folli.
Non ero infastidita, certo che no: dopotutto, Piper era la mia migliore amica e quella non era di certo la prima volta che le facevo da spalla. A lei piaceva divertirsi e io preferivo avere sempre la situazione sotto controllo. Da un certo punto di vista, ci completavamo.
Che ci facevo dunque in quel posto? Dopotutto, in seguito a ciò che era successo con Ethan il mese prima, avevo giurato a me stessa di non prendere mai più parte ad eventi in cui fossero stati presenti anche i miei compagni di scuola. Nemmeno se fossi stata minacciata con una pistola.
Ma Jason compiva i fatidici diciotto anni proprio quel giorno e Piper aveva insistito molto perché uscissi di casa dopo un mese di reclusione auto-imposta. Secondo lei, dovevo smetterla di farmi paranoie alla pari di una zitella depressa e uscire fuori dal mio guscio, per vivere al meglio quelli che secondo lei erano i migliori anni di tutta una vita.
Jason aveva affittato uno dei locali di New York più in voga in quel periodo, invitando tutti i suoi amici e conoscenti, non escludendo proprio nessuno: quando si trattava di organizzare una festa, lui era il migliore. Inutile dire che era uno dei ragazzi più popolari della scuola proprio per questo motivo – e anche perché ricopriva il ruolo di quarterback nella squadra della scuola – e questo, ovviamente, andava a significare che quella sera c'era praticamente tutta la mia, finalmente vecchia, scuola.
Che ci facevo alla festa di uno dei ragazzi più popolari della scuola se nemmeno mi importava di parteciparvi? Beh, malgrado le ovvie conclusioni a cui qualcuno potrebbe arrivare, io e Jason eravamo diventati amici da quando Piper e lui avevano cominciato ad uscire insieme l'anno precedente. Prima d'allora lo vedevo solo durante le ore di biologia avanzata che entrambi frequentavamo, ma non ci eravamo mai rivolti la parola se non in un paio di occasioni in cui era stato strettamente necessario per fini esclusivamente scolastici. Jason impersonava il tipico ragazzo popolare americano: capelli biondi e occhi azzurri, corpo allenato e un sorriso scintillante. Insomma, era il genere di adolescente dietro il cui puntualmente le ragazze corrono dietro.
La mia amicizia con Piper, invece, risaliva ai tempi del primo anno di scuola media, quando lei era ancora una ragazzina bassa con gli occhiali, tutta pelle e ossa. Un giorno, in sala mensa, dopo aver fatto la fila per il pranzo, era inciampata nello zaino di qualche spiritoso ed era caduta a terra portando con sé il vassoio e tutto il cibo. Nessuno l'aveva aiutata ad alzarsi; anzi, quelli che se ne stavano ai tavoli avevano riso di lei.
Io avevo osservato tutta la scena dal fondo della fila e devo ammettere che in quel momento avevo provato un po' di pena per lei: dopotutto, era la ragazza nuova, quella senza amici, con una voce strana e l'apparecchio ai denti. Ma mi faceva pena anche per un altro motivo: anch'io non avevo molti amici e sapevo cosa volesse dire trovarsi al centro dell'attenzione senza desiderarlo. Non era un'esperienza che si ricordava con piacere. Perciò, spinta da un senso di determinazione e dalla volontà di salvarla dall'umiliazione, avevo lasciato la fila, chinandomi accanto a lei e allungando una mano. C'era stato un momento di esitazione nei suoi occhi quando li aveva alzati per guardarmi, come se non fosse stata sicura di potersi fidare, ma poi qualcosa nel mio sguardo doveva averla convinta, così aveva stretto la mia mano con la sua, suggellando metaforicamente l'amicizia che tutt'ora ci legava.
D'allora avevamo imparato a non farci sopraffare, coprendoci le spalle a vicenda. E poi, non molti anni dopo, lei era cresciuta tutta d'un colpo, sia in autostima che in bellezza, diventando la ragazza che ora tutti guardavano con invidia dal loro armadietto la mattina, che salutavano ogni qualvolta la incontravano nei corridoi. Tutto ciò mi rendeva molto orgogliosa, come se fosse stato tutto merito mio, cosa che in realtà era assolutamente falso. Dopotutto, era diventata quel che era contando solamente sulle proprie forze. Al massimo, io l'avevo sostenuta, incoraggiandola ad aprirsi: era nata per essere una di quelle persone che tutti apprezzano senza un motivo preciso.
«Non credere di averla scampata, mia cara. Posso anche aver bevuto un po', ma tu non hai risposto alla mia domanda, signorina: hai puntato qualcuno di carino tra la folla?» domandò, questa volta accompagnando la domanda con un sorrisetto sghembo.
Scossi la testa, esasperata.
«No, e lo sai che non sono qui per questo. Non mi sento ancora pronta per pensare a qualcun altro, Piper... Per un po' non voglio più sentir parlare di ragazzi, okay?» Alzai un braccio, portando il bicchiere alle labbra per bere un lungo sorso del drink. Il sapore amaro non era di certo cambiato magicamente da quando l'avevo assaggiato prima, ma non mi importava.
All'improvviso sentivo l'urgente bisogno di dimenticare.
Per due anni avevo avuto una cotta assurda per un ragazzo che frequentava il mio stesso corso di matematica, un certo Ethan. Non so esattamente cosa fosse stato in lui ad attirarmi. Ripensandoci ora, non era nemmeno troppo bello: con il naso lungo e il mento a punta, il presunto fascino di cui ero caduta in fallo perdeva tutto il suo potere. Ovviamente, come tutte le peggiori e banali storie adolescenziali, lui non ricambiava i miei sentimenti.
Nel corso del tempo, avevo provato in svariati modi a farglielo capire, accettando i suggerimenti di Piper – la quale non sbagliava mai in campo amoroso – ma lui, da perfetto coglione quale si era rivelato essere, era troppo impegnato a correre dietro a quella serie di ragazze con la minigonna e i tacchi. Insomma, un vero e proprio cliché. Inutile dire che poi mi ero sentita la ragazza più stupida del mondo: dalla studentessa migliore del mio anno, non mi sarei mai aspettata un passo falso di proporzioni così epiche.
L'ultimo giorno di scuola superiore in assoluto, tipicamente descritto come il più bello e commovente eccetera eccetera, era per me stato un vero e proprio incubo. La giornata si era svolta con la solita routine, ad esclusione delle lacrime che vedevo sul viso di molti del quinto anno tra un cambio dell'ora e l'altro, finché non avevo deciso di dichiararmi davanti ad un numero non indifferente di persone, così, di punto in bianco. Ethan ovviamente si era messo a ridere, dandomi della stupida e della secchiona.
Che ci fossi rimasta molto male, beh, era scontato.
Piper annuì, consapevole che la mia era una richiesta sincera.
«Va bene, Annabeth. Comunque credo sia mia dovere, in quanto tua migliore amica, avvertirti che un ragazzo molto carino ti sta fissando da un bel po' di tempo» disse sogghignando, per poi accennare con il capo verso qualcuno alla mie spalle.
In tutta risposta sospirai rassegnata. Era evidente che Piper stesse bluffando per cercare di alleggerire la tensione che sicuramente emanavo, ma decisi di girarmi ugualmente, giusto per darle corda.
Con mia grandissima sorpresa, qualcuno mi stava guardando davvero.
Il ragazzo era alto e, malgrado la difficoltà di distinguere un colore a causa della luce nel locale, aveva i capelli di un biondo paglia, non molto lunghi. Se ne stava appoggiato al muro, fissandomi intensamente negli occhi. Indossava dei vestiti scuri, jeans e maglietta, e in mano teneva un bicchiere trasparente, uguale al mio. Malgrado fossi abbastanza brava ad estrapolare i pensieri della gente solo leggendo la loro espressione facciale, il suo volto era una maschera indecifrabile e imperturbabile.
Presi a fissarlo a mia volta, convinta che prima o poi avrebbe distolto lo sguardo a disagio – esattamente come faceva la maggior parte delle persone quando si trovava nella stessa situazione – e, invece, lui fece un cenno con il capo nella mia direzione.
«Pip, chi è quel tipo?» domandai incuriosita, dando una leggera gomitata alla mia amica.
Lei, che prevedibilmente aveva seguito tutta la scena, mi sorrise complice, alzando le spalle.
«È il vicino di casa di Jason. Si chiama Luke, ha venticinque anni e...» Ammiccò. «È single.»
Istintivamente, feci una smorfia di disgusto, consapevole che difficilmente avrebbe mollato il metaforico osso ora che aveva iniziato.
«Pip, te l'ho già detto. Non sono in cerca di un ragazzo. E poi è troppo vecchio!»
Lei non sembrò affatto convinta.
«Se non ricordo male, qualche giorno dopo la fine della scuola hai chiaramente detto di voler qualcuno di più maturo.» Alzò un sopracciglio perfettamente curato, cercando di sottolineare ulteriormente la sua affermazione.
«Sì, l'ho detto, ma... Lascia perdere, è una battaglia già persa in principio con te» mi arresi, stanca di dover ribadire il mio punto di vista per l'ennesima volta. Sapevo che Piper stava solo scherzando: lei era consapevole del fatto che, quando dicevo una cosa, quella era e non c'era verso di farmi cambiare idea se non con delle pertinenti prove di quanto fossi in errore. Ma il motivo per cui mi ero fermata era in realtà un altro: lanciando uno sguardo a Luke con la coda dell'occhio, l'avevo trovato ancora a fissarmi, quasi non si fosse mosso di una virgola.
Eppure con la risposta al sua sguardo e una smorfia volontaria, ero abbastanza convinta di essere stata sufficientemente esplicita nel manifestare un certo fastidio nei confronti della sua ostinazione. Pensavo che, dopo non aver risposto al suo interesse nei miei confronti con qualche stupido sorrisetto o un invito concreto ad avvicinarsi a me, avrebbe finalmente perso interesse, ma così non era stato.
La cosa, oltre a mettermi un po' a disagio, influiva sui miei nervi che ora erano leggermente tesi.
Nel mentre, la musica continuava a propagarsi nella sala senza mai interrompersi; la massa di gente ballava – o meglio, si dimenava – su e giù al centro della pista. Senza troppa sorpresa, mi riscoprii stanca. Non solo di quella festa e del fatto che non mi stessi affatto divertendo: la spossatezza mi coinvolgeva a livello fisico e mentale.
Lanciai un'occhiata all'orologio d'argento che portavo al polso, il regalo di papà per il mio diciottesimo compleanno, e sospirai di sollievo. Segnava quasi la mezzanotte, quindi non era né troppo presto né troppo tardi per andarmene dalla festa, conferendo qualche scusa a Piper che, ne ero certa, se la sarebbe cavata anche senza di me.
«Ehi, Pipes. Senti, sono un po' stanca e comincio ad accusare le ore di sonno che ho perso negli ultimi giorni a causa del programma di preparazione per il college. Ti dispiace se vado a casa da sola?» domandai, abbastanza sicura che buona parte della mia stanchezza derivasse anche dall'intenso studio che aveva occupato le mie ultime giornate.
Ero arrivata a quella festa in compagnia di Piper, la quale mi era venuta a prendere con la sua auto ultra-equipaggiata, ultimo regalino di suo padre per farsi perdonare chissà quale altra assenza da divo di Hollywood. Quindi, anche se io fossi andata a casa a piedi, il problema rimaneva: Piper non si trovava esattamente nelle condizioni idonee per assicurare la sua incolumità nel caso in cui fosse ritornata a casa da sola. E, se fossi stata un'amica davvero molto fedele, probabilmente sarei rimasta al suo fianco fino alla fine della festa, ma quella strana stanchezza mi aveva travolto così all'improvviso e così intensamente che probabilmente gli occhi avrebbero cominciato a chiudersi nel giro di un paio d'ore. Inoltre, con sollievo, ricordai che quella dopotutto era la festa di Jason, il suo ragazzo. Non era forse anche suo il compito di badare a Piper quando lei non poteva farlo con autonomia?
Lei scrollò ancora una volta le spalle, svuotando il bicchiere prima di rispondermi.
«Certo, non ti preoccupare. Qui me la cavo benissimo da sola» disse distrattamente, aggrottando la fronte con lo sguardo rivolto sul fondo del bicchiere di plastica, come se non riuscisse a capacitarsi che il suo drink fosse finito.
Non ero sicura che avesse davvero capito ciò che le avevo detto, ma contai sul fatto che non aveva ancora iniziato a far ondeggiare il bacino a ritmo di musica, chiaro segno del superamento del tasso etilico consentito.
Andai a recuperare il mio maglione dal guardaroba e poi raggiunsi Jason, che era seduto su uno dei divanetti ai lati della pista parlando con un paio di ragazzi della squadra di rugby della scuola. Li ignorai bellamente, appoggiando una mano sul braccio di Jason in modo che si girasse.
«Ehi, Jason. Io sto per andare a casa. Riusciresti per caso ad assicurarti che Piper non torni a casa guidando? Ha bevuto un po' troppo, credo, e non penso sia saggio lasciarla guidare» urlai con la bocca vicina al suo orecchio, cercando di superare il volume della musica.
Lui annuì serio una volta, poi fece un cenno in direzione dei suoi amici e mi disse di fargli strada. Con sollievo, pensai che Jason fosse proprio un bravo ragazzo: Piper doveva ritenersi molto fortunata. Ero consapevole che pochi ragazzi, sopratutto quelli della mia età, avrebbero lasciato tutto e tutti solo per andare ad aiutare la propria ragazza. Dal modo in cui mi aveva guardato, serio e attento, era chiaro quanto tenesse alla mia migliore amica.
Eravamo a pochi passi da Piper, la quale ora si trovava al centro dell'attenzione di alcune ragazze del suo corso di spagnolo, quando incrociai lo sguardo di Luke, sempre fermo nella stessa posizione, il bicchiere stretto in mano e l'espressione imperturbabile. Alzò il suo drink nella mia direzione, sollevando un angolo della bocca in un modo che mi fece innervosire più di quanto non fossi già. In tutta risposta, distolsi lo sguardo, passandomi una mano sull'avambraccio per nascondere i brividi.
Che problemi aveva quel tipo?
Quando arrivammo da Piper, che stava ridacchiando, Jason la prese per un braccio, rivolgendo un sorriso di scuse alle altre ragazze le quali si dispersero, non prima di aver risposto al saluto con un eccessivo sbattimento di ciglia ricoperte da una quantità non quantificabile di mascara scadente.
«Ehi, tesoro. Come stai?» domandò Jason prestando la sua completa attenzione a Piper, mentre avvolgeva le braccia attorno alla figura slanciata di lei. Probabilmente, se non fosse stato per i riflessi pronti e i forti muscoli sviluppati di Jason, Piper sarebbe caduta a terra dopo essere inciampata nei suoi stessi passi.
«Amoreee! Che hai fatto alla faccia? Sembra che qualcuno ti abbia cosparso di brillantini. Sei proprio buffo, lo sai?» Ridacchiando si avvicinò al volto del suo ragazzo e gli diede un sonoro bacio a stampo sulla bocca, prima che lui potesse fare qualsiasi altra cosa. Poi Jason mi rivolse uno sguardo seriamente preoccupato e io mi strinsi nelle spalle.
«Okay, prima di tutto dammi il bicchiere» disse Jason, cercando di rubarle il drink dalle mani. Ma Piper sembrava non volerglielo cedere, visto che lo strinse con più forza e se lo portò dietro la schiena, con un sorrisetto furbo. «Dai, cucciola! Se mi dai quel bicchiere ti regalerò un pony per il tuo compleanno, che ne dici?»
Pensavo fosse un tentativo un po' azzardato e parecchio bizzarro, quasi un insulto alla non poca intelligenza della mia amica, ma funzionò davvero: probabilmente Piper aveva davvero già superato il limite.
«Però non lo voglio rosa. Io odio il rosa. Solo le principesse cattive hanno un unicorno rosa. Io lo voglio con il manto arcobaleno» borbottò dopo qualche secondo, lasciando andare finalmente la presa sul bicchiere. Jason glielo prese con cautela, appoggiandolo sul ripiano del bar lì vicino, per poi avvolgere un braccio attorno alla vita della sua ragazza, la quale distese il viso in un lento, ma raggiante, sorriso in direzione di Jason. Lui si chinò per baciarla e io distolsi lo sguardo, per lasciar loro un po' di privacy anche se, ripensandoci, quella non era di certo la prima volta che si lasciavano andare a effusioni in pubblico: semplicemente, erano fatti così. Per quanto mi riguardava, ero felice che quei due si fossero trovati e che stessero bene insieme. Il resto non contava.
Lisciando distrattamente le pieghe del maglioncino sul mio braccio, alzai una mano per fare un gesto di saluto a Jason e Piper i quali, grazie al cielo, si separarono abbastanza a lungo da rivolgermi un sorriso e un cenno di rimando. Piper, inoltre, mi mandò un bacio metaforico e una strizzata d'occhio, chiaro segno che non ci stava più con la testa: odiava mandare baci all'aria in segno di saluto e congedo come le altre ragazze.
Voltai loro le spalle, uscendo dalla stanza tramite una porta a doppio battente, dietro la quale c'erano due uomini in giacca e cravatta che sorvegliavano l'afflusso di gente ubriaca che era uscita per chiacchierare o per fumare una sigaretta.
Dovevo aver percorso solo dieci metri, quando una strana sensazione mi strinse lo stomaco, come se mi fossi dimenticata qualcosa di importante all'interno del locale. Ma il cellulare l'avevo con me, così come le chiavi di casa, e Piper era là dentro al sicuro, perciò decisi di non badarci e di proseguire.
Di notte New York si trasformava completamente. Subiva una mutazione così radicale che era difficile immaginare che fosse la stessa città descritta nei film, con quella vista dall'alto in cui i grattacieli si confondevano fra loro e le persone correvano verso la loro destinazione senza badare ad altro se non al proprio telefono cellulare. Di notte, New York non era più la Grande Mela, la città del traffico e dei sogni idilliaci; no, era la città delle luci soffuse dei lampioni e del silenzio rumoroso. Il rumore delle macchine, dei clacson, delle ambulanze e della polizia era qualcosa di unico, indescrivibile: poteva essere talmente fastidioso da non riuscire a dormire, ma allo stesso tempo diventava la colonna sonora di tutti i sogni, belli e brutti. Tutto quel rumore entrava da un orecchio, ma dall'altro usciva il silenzio più assoluto, e non c'era bisogno nemmeno di troppa immaginazione. Era così e basta.
Le luci dei lampioni e delle insegne degli hotel illuminavano le strade principali, ma tutto ciò che non stava sui paralleli e sui meridiani principali era avvolto nel buio, come se qualcuno avesse deciso di tracciare la strada più corta e più sicura verso l'uscita da un labirinto.
New York era tutto questo, ma anche molto di più.
Quella sera aveva appena smesso di piovere dopo una settimana di continui acquazzoni e perciò le strade della città erano palesemente bagnate d'acqua piovana. Qua e là, dove l'asfalto del suolo si faceva irregolare, vi erano delle pozzanghere di piccole dimensioni, irregolari, che fungevano da specchio riflettente del cielo scuro. Adoravo inspirare l'odore della pioggia, in particolare negli istanti precedenti e successivi a questo fenomeno atmosferico: l'aria era carica di qualcosa, talmente satura da innescare in me una sensazione di familiarità e, allo stesso tempo, di tranquillità.
Abitavo a soli due isolati dal locale in cui si era tenuta la festa di Jason, una distanza molto ridotta rispetto alla casa di Piper, a Manhattan, ma voleva pur sempre dire camminare per venti minuti a passo spedito, mezzora se procedevo con calma.
Tirava un leggero venticello estivo, l'ultimo rimasuglio del temporale, che mi investiva e mi solleticava la pelle scoperta dai vestiti, quali braccia e buona parte delle gambe, ma ero quasi certa che non fosse quello a mettermi i brividi. C'era qualcos'altro... qualcosa a cui non riuscivo a dare una collocazione precisa, un'identità che mi metteva terribilmente a disagio. Perciò affrettai il passo d'istinto, procedendo alla massima velocità che la gonna corta e i tacchi alti mi permettevano di assumere.
Non era certo la prima volta che mi vestivo in quel modo: mi piaceva indossare qualcosa di prettamente femminile ogni tanto, soprattutto nelle occasioni speciali quali feste e incontri importanti, ma non mi ero mai trovata a rimpiangere la scelta fatta con così tanta intensità. Con un piccolo sospiro, ricordai a me stessa che, se non mi fossi vestita in quel modo, probabilmente Piper non mi avrebbe nemmeno permesso di uscire di casa prima di avermi conciato per bene. I miei piedi imploravano pietà come un condannato messo al patibolo e già percepivo la pelle della parte posteriore della caviglia irritata dove il piede toccava il bordo della scarpa nuova, segno inconfondibile che il giorno seguente mi sarei trovata una vescica.
Stavo passando davanti all'edicola in cui ero solita comprare il giornale la domenica quando, all'improvviso, venni strattonata all'indietro: le paillettes cucite sopra la manica del mio maglioncino erano rimaste impigliate in un'irregolarità del muro frastagliato del palazzo alla mia destra, perciò mi fermai per districarlo e liberarmi.
Non ebbi nemmeno il tempo di accorgermi della sua presenza che sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla.
«Serve una mano?» domandò. La sua voce era bassa, ma talmente potente da entrarmi dentro fino alle ossa. Sobbalzai di riflesso e il mio cuore prese all'istante a battere, talmente forte che il paragone a un cavallo imbizzarrito calzava a pennello. I brividi che sentivo in tutto il corpo erano derivati da quella voce, non poteva essere altrimenti.
Alzai lo sguardo con uno scatto e incrocia due occhi azzurri, limpidi come il cielo malgrado l'oscurità di quella notte, ma inspiegabilmente freddi, tanto che il ghiaccio non sembrava niente a confronto. Ero sempre stata una persona molto loquace: alle parole preferivo gli sguardi. A causa della mia abitudine di osservare ciò che mi circondava e le persone con cui interagivo, con il tempo avevo imparato a cogliere quel qualcosa che molte volte può sfuggire quando si parla con qualcuno. Il comportamento del corpo, il modo in cui una persona si posiziona nello spazio, i gesti che fa, gli impercettibili cambiamenti nell'espressione erano diventati per me indicatori essenziali per comprendere le persone prima ancora che queste parlassero. Quando tutto questo mi era chiaro, le parole venivano in secondo piano. Perciò, quando i miei occhi rimasero incatenati ai suoi un attimo di troppo, riuscii con fin troppa facilità a cogliervi sofferenza e tanta rabbia repressa. Decisi senza alcuna esitazione che non mi piacevano.
La sua mano scorse dalla mia spalla fino al braccio, stringendo la presa impercettibilmente più forte di prima, ma abbastanza forte da fare in modo che io non potessi sfuggire a meno che non mi divincolassi. Aveva le dita lunghe e affusolate.
«No, ti ringrazio. Posso fare da sola, non ti preoccupare» risposi dopo un istante di esitazione, cercando di ritrarmi senza che se ne accorgesse.
Che cosa ci faceva lì? Perché non era alla festa? Oltre a Piper e a Jason, non avevo detto a nessuno che me ne sarei andata a casa, e con il fatto che alla festa c'erano così tante persone, era impossibile che lui mi avesse seguita con lo sguardo per tutto il tempo: ero sicura che non fosse difficile distinguersi tra la folla quindi la domanda sorgeva spontanea. Mi aveva forse seguita per tutto il tempo?
Dissi a me stessa di stare calma e di non partire subito a pensare sempre al peggio solo perché le possibilità che lui se ne fosse andato dalla festa in contemporanea e che dovesse andare nella mia stessa direzione erano davvero ridotte. E se anche la casa di Jason si trovava dalla parte opposta alla mia, poteva sempre essere che Luke avesse parcheggiato la macchina nelle vicinanze, a causa del numero ridotto di parcheggi vicino al locale della festa.
Sorrise arricciando gli angoli dalla bocca, ma quella parvenza di felicità non raggiunse i suoi occhi. Poi tolse la mano dal mio braccio, facendo ricadere il suo lungo il fianco come se si fosse accorto di aver mantenuto il contatto un po' troppo a lungo, ma ciò non tranquillizzò affatto il mio cuore.
«Ero alla festa poco fa, ricordi? Io sono Luke, un amico di Jason» disse porgendomi l'altra mano e attendendo che io facessi lo stesso per stringere la sua. Sul suo volto persisteva quel sorriso strano.
«Sì, mi ricordo... Io sono Annabeth» risposi, ritraendo velocemente la mano. Portai istintivamente un braccio a coprirmi la pancia, chiaro segno indicatore del disagio che stavo provando. «Beh... Ora devo andare. È stato un piacere, Luke.» Mi spostai verso sinistra per superarlo, in modo da poter procedere nella direzione di casa, ma proprio mentre gli passavo accanto, venni bloccata nuovamente dalla sua presa ferrea sul mio avambraccio. Repressi i brividi che sentivo sorgere dal punto in cui mi stava toccando.
«Aspetta. Ti va se ti tengo compagnia per un pezzo di strada? Per una bella ragazza come te, New York a quest'ora non è molto sicura, dovresti saperlo» disse con un'inflessione della voce mai sentita. Percepii la paura più pura prendere il comando del mio corpo testardamente: non riuscivo a capire se a scatenarla fosse stata la sua voce, il modo in cui mi fissava oppure entrambi. Con un sussulto, capii che, in realtà, tutto in lui suscitava in me quella sensazione.
Deglutii, mordendomi il labbro inferiore per cercare di fermare un tremito. Insomma, ero sempre stata una ragazza coraggiosa e diffidente, consapevole della realtà che mi circondava. Non avevo mai avuto problemi nel difendermi dagli altri, in particolare da coloro di cui mi fidavo. Conoscevo le procedure standard per sfuggire a qualsiasi pericolo: papà me le aveva insegnate il primo anno delle superiori, la prima volta che mi vennero le mestruazioni, in modo che potessi sempre difendere me stessa. Nella borsetta tenevo con me una bomboletta di spray al peperoncino e conoscevo anche le basi della difesa personale. E proprio mentre stavo pensando di ricorrere al primo strumento, ricordai che quella sera avevo lasciato volontariamente a casa la borsa, dato che riuscivo a tenere il cellulare e le chiavi di casa nella tasca della gonna.
Scossi mentalmente la testa, cercando di convincere me stessa che non c'era bisogno di pensare subito negativo: dopotutto, l'apparenza molte volte inganna e io lo sapevo bene. «In verità...» cominciai a dire, provando a sbarazzarmi di lui in maniera gentile. Non era giusto che lo giudicassi solo per una sensazione personale, ma preferivo sul serio continuare per la mia strada da sola.
«Dai, permettimi almeno di tenerti compagnia fino al prossimo incrocio! Ho parcheggiato la macchina nelle vicinanze, quindi devo comunque fare quella strada» continuò lui bloccando la mia protesta. Mi rivolse un altro sorriso a cui io risposti aggrottando la fronte, perplessa. Quindi avevo ragione nel pensare che avesse parcheggiato la macchina da qualche parte, ma il fatto che fosse uscito dalla festa proprio nel mio medesimo istante mi lasciava ancora qualche dubbio.
Luke dovette interpretare il mio temporeggiamento come un assenso perché mi sospinse in avanti, cominciando a camminare lungo la strada, fianco a fianco, il mio braccio ora libero.
Lo seguii più per una questione di logica che non perché ne avessi voglia: dopotutto, non avrebbe avuto senso procedere nella stessa direzione facendo finta di non conoscerci. Di certo, non potevo dire di aver sbagliato strada per poi tornare indietro: che figura di bugiarda ci avrei fatto? Perciò camminammo fianco a fianco per un paio di minuti nel più completo silenzio: percepivo il suo sguardo fisso sul mio volto, anche se, quando mi giravo, lui stava guardando davanti a sé. Che fossi davvero ossessionata inutilmente?
Poi, ad un certo punto, lui si fermò all'improvviso, dieci metri prima della fine dell'isolato e l'intersezione con la strada perpendicolare. Mi bloccai anch'io un passo più avanti, voltandomi a guardarlo confusa. Lui se ne stava lì in piedi, con gli occhi puntati su di me e il capo leggermente piegato di lato.
«Lo sai di essere bella, vero?» mormorò, un sorriso strano disegnato in volto e le palpebre pesanti.
Portai nuovamente il braccio a proteggermi lo stomaco e deglutii, non riuscendo a capire perché mi stesse facendo quella domanda così all'improvviso. Possibile che ci stesse provando? Che avessi ragione o no, Luke mi metteva letteralmente i brividi e l'ultima cosa che mi sentivo di fare era assecondarlo, perciò scossi il capo.
«Ma che stai dicendo?»
In tutta risposta lui mi si avvicinò, colmando quei pochi passi che ci separavano. D'istinto arretrai, ma lui non me lo permise perché mi afferrò per l'ennesima volta un braccio. Questa volta, però, la sua presa era più salda che mai, talmente stretta che mi era impossibile separarmi dal suo corpo. Quell'improvviso scatto, scatenò in me più paura di quanta non ne avessi provata fino a quel momento. L'istinto di urlare era talmente forte che dovetti mordermi la lingua per trattenermi.
«Lasciami andare» dissi, gli occhi spalancati e il fiato più corto.
Luke posò una mano sulla mia guancia, facendola scorrere su e giù un paio di volte in una sorta di carezza, poi si chinò e sussurrò al mio orecchio: «Vieni con me, dolcezza.»
Non potendo fare altro che seguirlo, lasciai che mi trascinasse con sé in una stradina laterale. Era una tipica via secondaria di New York, quella che sta tra un palazzo e un altro, non illuminata. Dava sulle scale antincendio delle varie strutture e faceva da riparo dal leggero venticello che tirava. Dalle scalinate di metallo che si estendevano fino al tetto, scendevano goccioline di pioggia che, cadendo, si andavano a raggruppare in una piccola pozza d'acqua sull'asfalto. Da un buco nel muro del palazzo a destra – probabilmente la cappa del gas – usciva del fumo bianco che andava a dissolversi nell'aria. In un brevissimo istante, presi coscienza del gatto ritto sulle zampe nascosto dietro a una massa indistinta a terra. La bestiola girò immediatamente il capo, fissandoci con quei suoi occhi gialli a forma di ellisse sensibili alla buio della notte. Con un agile passo felino, zampettò dietro a un cartone che, probabilmente, aveva funto da riparo per un senzatetto la notte precedente, ma che dopo la pioggia era diventato troppo zuppo e di conseguenza inutilizzabile.
«Che stai facendo?» esclamai istericamente non potendo fare altro: non riuscivo a muovere un singolo muscolo, come se fossi stata colpita da un incantesimo.
Con una forza decisamente superiore alla mia, Luke mi spinse contro la parete di muro che, a contatto con la mia schiena lasciata mezza scoperta dal top, fece da anestetizzante: il freddo che sentii avvolgermi tutta a partire da quel punto mi rese come insensibile a qualsiasi altra sensazione. Probabilmente fu un bene, oppure no. Quando inciampai nei tacchi e persi l'equilibrio, pensai per un brevissimo istante che le sue mani mi avrebbero lasciata andare e finalmente sarei stata libera. Ma, prima ancora che potessi vedere il terreno avvicinarsi al mio volto, Luke mi bloccò contro il muro nuovamente, questa volta assicurandosi che non gli sfuggissi stringendo il suo corpo contro il mio.
L'istante successivo, le sue labbra erano appoggiate alla base del mio collo e lì rimasero, posando un bacio umido che mi fece sentire sporca, sia fuori che dentro. Sentivo il punto in cui mi aveva toccato, sentivo la saliva che mi aveva lasciato il suo bacio a cui ne seguì un altro, e un altro ancora mentre il suo volto si spostava verso sud. Disegnò una scia di piccoli baci lungo la linea del mio collo, per poi tornare indietro, fermandosi dietro all'orecchio. Quando sfiorò quel punto, i brividi che avevo sentito prima non erano nulla in confronto a quelli che percepii dopo. Fu come se avesse toccato l'origine di tutti i miei nervi, il nucleo da cui si diramavano.
Le sue mani tenevano bloccate le mie lungo i fianchi, così, se anche avessi cercato di dimenarmi, non sarei riuscita a muovermi.
Ma quello era proprio il problema: io non stavo cercando di liberarmi.
Un singulto uscì dalla mia gola, dove era rimasto bloccato fino a quel momento, e rimbombò nell'aria, talmente forte che mi sembrò di udire lo sparo di una pistola, il botto dei fuochi d'artificio.
«Ti prego, smettila...» riuscii a dire sorprendendo me stessa, anche se la mia voce era fragile, rotta dalla paura che regnava in me. Il mio era un tentativo inutile, ne ero consapevole, ma non mi venne in mente altro. Volevo solo che mi lasciasse andare, che si allontanasse, che sparisse.
Luke accostò nuovamente la bocca al mio orecchio e cominciò a sussurrare in modo provocante le parole che non avrei mai più dimenticato, che avrebbero fatto da colonna sonora dei miei sogni, che sarebbero diventate il manifesto della mia vita.
«Shh... non dire nulla. Non ce n'è bisogno. Dopotutto lo vuoi anche tu, piccola, non è vero?»
Il mio petto si alzava e si abbassava velocemente, il battito del mio cuore aveva raggiunto la massima velocità e il respiro era sempre più corto mano a mano che il tempo passava. Ma io continuavo a non muovermi, lasciando il mio corpo in mano a lui. Non domandai mai a me stessa perché non mettessi in atto quelle poche basi di difesa personale che conoscevo, e nemmeno perché non avessi giù iniziato ad urlare. Quella era New York, una delle città più grandi del mondo: qualcuno doveva pure essere in giro malgrado l'ora tarda.
«Lasciami, ti prego...» sussurrai di nuovo.
Una lacrima scese lungo la guancia, fermandosi sulla sommità della mandibola. Di conseguenza serrai le palpebre, odiandomi per essermelo lasciata sfuggire: poteva essere una lacrima sola, ma rimaneva una di troppo.
E poi arrivarono altri bisbigli a suggellare la realtà in cui dovevo prendere coscienza di essere.
«Non piangere, piccola. Non te ne pentirai, te lo prometto.» Con gli occhi chiusi non potevo vederlo, ma quando sentii un suo dito percorrere il profilo del mio seno e del mio ventre, un'altro singulto scosse le mie spalle, prima che la sua mano si insinuasse nel mio top.
A quel punto presi a tremare.
«Ti prego» implorai per la terza volta. Tre preghiere erano uscite dalla mia bocca, tre suppliche spese al vuoto, al nulla. Non mi era rimasto nient'altro.
Le sue labbra tornarono più fameliche di prima a posarsi sulla mia guancia e poi, con gli occhi chiusi e il respiro caldo, insinuò la sua lingua nella mia bocca, diventando all'improvviso più irruento di quanto non lo fosse stato fino a quel momento. Mi era entrato dentro.
E io, ancora, non mi mossi.
Le sue mani vagavano nel mio reggiseno, il top ormai un insulso pezzo di stoffa arrotolato in vita. Non sapevo quando me lo avesse tolto, né quando avesse preso a mordicchiarmi il labbro inferiore, attutendo i singhiozzi che uscivano dalla mia bocca con la sua. Non avevo più forze nemmeno per tenere gli occhi chiusi o le unghie ancorate al muro.
Ero sua, un topolino nella tana del serpente, una mosca nella ragnatela dell'aracnoide. Dopotutto, mi aveva catturato, intrappolato e ora stava per mangiarmi.
Così non mi stupii quando fece quel che fece: il fatto che le mie gambe tremassero non gli impedì di alzarmi la gonna e abbassarmi gli slip quel tanto che bastava per violarmi. Non importava che io l'avessi custodita con tanta gelosia, né che andassi fiera di vantarne ancora il possesso. Non importava perché a lui non fregava un cazzo.
Tenni gli occhi chiusi per tutto il tempo, beandomi del freddo del muro per cercare di sfuggire a qualsiasi cosa sentissi.
Non avevo la forza di urlare, di oppormi e nemmeno di combattere. Quando non ti resta altro, che cosa puoi fare se non arrenderti?
E così feci.
Non so quando, non so come, ma poi tutto finì e io mi ritrovai in un vicolo buio, una delle tante strade secondarie di New York, un gatto che mi fissava da dietro a un cartone e il fumo acre che usciva dalla cappa di un ristorante. La mia bocca era vuota di qualsiasi suono avesse mai prodotto nell'arco di diciotto anni.
Potevo solo guardare il cielo sopra la mia testa che si estendeva all'infinito, qua e là vi erano delle stelle più o meno luccicanti.
E poi, con lo sguardo puntato su un punto imprecisato del suolo, un pensiero mi attraversò la mente: può essere palese, scontato, ma prestando un po' di attenzione ci accorgeremmo che passiamo metà della nostra vita cercando ciò che non abbiamo e l'altra metà ricordando quello che abbiamo perso, ciò che ci siamo lasciati alle spalle per sempre.
Eppure, malgrado il momento fosse davvero passato, io avrei preferito non ricordare.
Mai più.


 
CAPITOLO REVISIONATO IN DATA 07/02/2016


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Sera eroi! Lo ammetto, sono piuttosto eccitata nel pubblicare questo primo capitolo... è la mia prima long quindi spero di riuscire a portarla a termine.
Come potete leggere dall'introduzione tratterà alcune tematiche forti... quindi se siete deboli di cuore non leggete.
Sarà una storia un po' diversa dalle altre, non ci saranno né semidei né profezie, ma solo due persone normali che vivono i problemi della vita quotidiana come facciamo noi tutti i giorni. Ovvero una bella AU con i fiocchi.
Confesso che questa è la prima scena di “sesso” che scrivo e spero di non aver fatto un disastro.
Il prossimo capitolo credo arriverà presto... beh fatemi sapere cosa ne pensate!

Bacioni, Annie
  
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