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Autore: Chara    31/01/2014    17 recensioni
Quando mio padre morì, avevo solo cinque anni.
Era il 12 settembre del 1928, nel pieno del Proibizionismo per antonomasia, che segnò l’area metropolitana di New York come poche altre cose poterono fare, che segnarono me – anche se ero troppo piccolo per esserne già consapevole – in modo tale da farmi invocare la morte più volte, in futuro, senza però mai veder esaudito il mio desiderio.
Ad oggi, non so ancora decidere se sia stato un bene. Forse, se fossi morto, non avrei potuto vivere ciò che sto vivendo ora, che, nella sua piccolezza, è qualcosa che mi scalda il cuore e mi ricorda la mia famiglia prima che venisse distrutta, seppure sia per certi versi completamente diverso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I am my father’s son

 

 

 

Quando mio padre morì, avevo solo cinque anni.

Era il 12 settembre del 1928, nel pieno del Proibizionismo per antonomasia, che segnò l’area metropolitana di New York come poche altre cose poterono fare; che segnarono me – anche se ero troppo piccolo per esserne già consapevole – in modo tale da farmi invocare la morte più volte, in futuro, senza però mai veder esaudito il mio desiderio.

Ad oggi, non so ancora decidere se sia stato un bene. Forse, se fossi morto, non avrei potuto vivere ciò che sto vivendo ora, che, nella sua piccolezza, è qualcosa che mi scalda il cuore e mi ricorda la mia famiglia prima che venisse distrutta, seppure sia per certi versi completamente diverso.

Ricordo il suo funerale, così grigio e spento e palesemente disinteressato, gremito di uomini in abito elegante e baffetti disegnati che discutevano sottovoce con costosi sigari tra le labbra, come se si stessero spartendo delle vincite al Monopoly. Quelle di mio padre.

Mi chiesi perché fossero lì, se per cordoglio o se per vedere quel corpo freddo che nemmeno riuscivo a toccare, accertandosi che fosse davvero lui, che non fosse uno scherzo mal riuscito. Per cosa, lo capii solamente dopo.

Ero troppo piccolo per realizzare che quell’emozione dipinta sui loro volti era davvero malcelata soddisfazione, che quando guardavano attraverso me vedevano lui e ciò che mai più avrebbe creato loro problemi. Li avevo sentiti mentre sentenziavano che un moccioso con quell’espressione da coniglio non sarebbe mai stato in grado di seguire le orme di suo padre, senza neppure curarsi di abbassare la voce in modo tale che non sentissi.

Avevo solo cinque anni, ma mi fu da subito impossibile non domandarmi perché il futuro mi proibisse di fare il banchiere. Non credevo di essere così stupido, tanto più che sapevo contare anche prima di iniziare le scuole. Solo dopo capii davvero, ma non lo accettai fino a quando non morì anche mia madre, lasciandomi quella lettera, portando con sé nella morte anche l’ultimo riferimento della mia sgretolata vita.

Ricordo lei, mia madre, aggrappata alle spalle di mia sorella maggiore senza la facoltà di stare in piedi sulle sue stesse gambe, con l’odio per quegli uomini d’affari affogato in troppe lacrime che i suoi occhi non riuscivano a contenere, affogato in una disperazione insanabile dalla profondità di un baratro.

Quelle stesse lacrime, però, sua figlia non le versava.

Impiegai anni a capire perché Beck non sembrasse essere così disperata, ma, quando maturò quella consapevolezza da sempre palese davanti al mio sguardo inconsapevole, l’odio per quella figura paterna che mi ero abituato a non avere si era già radicato nelle mie ossa per ben altri motivi, che stranamente – non pensavo che sarei mai arrivato ad ammetterlo – non consideravo nemmeno imputabili alle sue azioni.

O forse, invece, lo erano comunque. Tutto, indirettamente, era il pegno che noi avevamo pagato per lui, che aveva preferito morire piuttosto che affrontare le sue colpe. Il suo nome, attraverso me, suo unico figlio maschio, continuava a vivere e non avemmo mai pace, almeno fino a quando tutto andò in frantumi di nuovo, definitivamente. Per me in modo assolutamente devastante.

 

Dalla sua morte, mia madre iniziò a sfiorire lentamente, ma inesorabilmente. Per i primi due o tre anni furono solo segni violacei sotto gli occhi, poi giunsero i capelli bianchi e le ossa sporgenti, segni lampanti di chi si fa forza per negare la difficoltà di proseguire con lo stesso ritmo del prima. Forse, la stanchezza per quella vita senza soddisfazioni la stava privando della determinazione, della stessa voglia di vivere. O forse la mancanza dell’uomo che amava nonostante tutto era troppo dilaniante per permetterle di continuare a essere una buona madre, o anche solo per continuare a essere se stessa. I suoi figli non erano abbastanza per lei, e faceva male saperlo. Niente, nella mia vita, fu mai alienante come quella consapevolezza. Nemmeno guardarla morire senza poter fare nulla mi portò mai una disperazione tale come la provai di fronte quell’evidenza, lì stazionaria davanti ai miei occhi ogni singolo giorno dalla morte di mio padre.

Iniziò a prendere pillole, lasciando a Beck tutta la responsabilità della casa e a me, mai abbastanza grande per essere un uomo e mai abbastanza piccolo per fuggire dall’angoscia, il compito peggiore di fingere che andasse tutto bene. Mia sorella ebbe quindi anche la responsabilità della mia presenza.

Uno dei miei rimpianti più grandi è di non averle mai chiesto nulla, pensando che il mio affetto fosse sufficiente a colmare le delusioni che le infliggevo quotidianamente, con il mio semplice comportamento da ragazzino disadattato.

Per quei tredici anni che separarono la morte di mio padre da quella di mia madre, io dovetti fingere, e impegnarmi a farlo, che le lettere anonime scritte con i ritagli di giornale che trovavamo con cadenza settimanale nella casella postale fossero solo degli scherzi di cattivo gusto; che gli appostamenti dall’altra parte della strada fossero casualità; che i colpi di pistola così vicini alle nostre finestre, di notte, fossero solo delle liti a noi estranee dovute alla vicinanza con i confini di Harlem. Mi chiesi perché non andammo mai alla polizia, ma non osai domandare ad alta voce. In fondo, forse, sapevo.

Beck, tra le altre cose, aveva preso una strana abitudine… niente di grave, ad ogni modo era parecchio strano ai miei occhi di adolescente. Ogni giorno, in un portagioie, nascondeva un foglietto stropicciato, spesso macchiato di caffè o di qualunque altra cosa che significasse che lei, la sua vita, non se la viveva più perché non ne aveva la possibilità, china sui fornelli o su uno scopettone per riassettare qualche stanza. I suoi compagni l’avevano sempre chiamata Cenerentola, prima che fosse costretta a ritirarsi da scuola per via delle difficoltà a casa.

Su quei pezzi di carta, strappati dai vecchi quaderni della scuola elementare che a volte usavamo per alimentare il fuoco del camino, scriveva le emozioni della giornata, ciò che l’aveva colpita o ciò che le si rivoltava nello stomaco fino a farle perdere quel sorriso già raro, quello che aveva solo per me e solo quando le portavo a casa dei fiori raccolti di nascosto a Central Park.

Credo che sapesse che ogni giorno – mentre lei si ritagliava il suo spazio personale nella vasca da bagno con i sali profumati che, da sempre, le regalavo per natale – io frugavo nel suo portagioie alla ricerca delle sue emozioni. Ero avido di conoscenza: volevo che le sue gioie, ma soprattutto i suoi dolori, passassero attraverso me; volevo che mia sorella, attraverso degli stropicciati pezzi di carta, si confidasse con quel ragazzino troppo grande per ignorare quel profondo senso di angoscia, ma troppo piccolo per poter portare sulle spalle il peso che portava Beck. Volevo che mia sorella smettesse di fingere una forza che, in realtà, di notte veniva a mancare, quando la sentivo piangere con i singhiozzi soffocati nel cuscino. Non volevo che diventasse come nostra madre, anche se non seppi mai come impedirlo.

Fortunatamente, ci riuscì da sola.

Forse, mia madre avrebbe potuto spifferare che mi facevo i fatti suoi, di Beck intendo, ma la verità era che non aveva tempo per nulla che non fosse la sua scatola di pillole, che passava ore a rimirare senza vedere davvero.

Ho sempre amato mia madre, per questo vederla sfiorire e impazzire giorno dopo giorno non fece altro che accrescere l’odio per quel padre che avevo avuto per pochi anni, ma che comunque mi erano bastati perché facesse vivere, attraverso me, la sua condanna. Sapevo che anche per Beck era lo stesso, che il peso che inevitabilmente finiva sulle mie spalle non diminuiva dalle sue. Lo capii con concretezza quando, dopo che mia madre tentò per la prima volta di togliersi la vita, da quel portagioie non sparì mai il biglietto che più mi aveva sconvolto, quello che diceva:

 

“Posso sentire il tuo sangue scorrere nelle mie vene,

perché le menzogne, le truffe, il furto…

sono passati attraverso me.

A me, da te.”

 

Avevo quattordici anni quando trovai quel biglietto. Sentii qualcosa dentro di me andare in pezzi perché finalmente trovai l’evidenza che ricercavo da sempre, come il riflesso del lampadario nel quadro di una televisione che non potevamo più permetterci, perché non eravamo più ricchi. Ma quel sentimento angosciante e quella frenesia della ricerca non erano mai spariti dalla mia mente, ricollegandosi in modo inequivocabile a quel troppo che non sapevo di mio padre, a quel troppo che mi piombò davanti un pezzo per volta, ma comunque in modo così distruttivo da non farmi parlare per due giorni. Persino mia madre, persa nel suo dolore e in tutto ciò che non fosse legato alla vita presente, se ne accorse.

Mio padre era un impostore e mai – mai – potei giustificare una sola delle sue azioni, che scoprii in seguito, in quella lettera che mi scrisse mia madre poco prima della sua morte. Chissà, forse se lo sentiva che quella volta sarebbe stata l’ultima.

Ripensandoci ora, mi rendo conto che nella mia famiglia la carta è sempre stata fondamentale. Mia sorella scriveva le sue emozioni, le sue devastazioni, su fogli di carta, e mia madre impresse proprio sulla carta il suo ultimo barlume di lucidità. O forse la prova che non aveva mai perso se stessa.

Solo io non amavo scrivere, solo io preferivo frugare in quel portagioie con all’interno dei foglietti appallottolati perché era come se quell’oggetto mi parlasse, come se anche solo toccandolo tutta la disperazione di Beck potesse fluire dentro di me, attraverso me, per scaricarsi lontano. Ma, di fatto, dal mio corpo non uscì mai e, ancora più importante, non uscì mai dalla mia mente.

 

Mia madre morì il 4 luglio del 1941, tentando il suicidio per la terza volta… e riuscendoci. Fu una giornata di grande, immensa morte. Per tutti.

Giunse via radio, quasi nell’immediato, la notizia che i nazisti avevano distrutto un covo di scienziati con una brutalità disarmante, accrescendo il senso di perdita che sentivo dentro. A Beck non importava, lei aveva perso sua madre e un branco di sconosciuti non poteva di certo toccarla così in profondità. La capivo, per alcune ore anch’io la pensai così, guardando il volto finalmente rilassato di mia madre che, nella morte, si era ricongiunta all’uomo che l’aveva, in quegli anni, tormentata di sofferenze, ma che non aveva mai smesso di amare. Ma, dopo alcune ore, anche il massacro di quelle povere persone innocenti iniziò a vorticarmi dentro.

Quanti innocenti erano morti per colpa di mio padre?

Quando mia madre morì, trovammo il suo barattolo di Luminal completamente vuoto e privato di tutte le sue pillole, ma con all’interno qualcosa che ci fece ghiacciare il sangue nelle vene. Era un foglietto stropicciato, macchiato di caffè in modo da ricordare a Beck che non avrebbe più potuto scegliere come vivere la sua vita.

 

“Posso sentire il tuo sangue scorrere nelle mie vene,

perché le menzogne, le truffe, il furto…

sono passati attraverso me.

A me, da te.”

 

Mia sorella, con la mano ancorata al ventre, come a proteggerlo, corse verso il grande buffet del salotto, alla ricerca del suo portagioie. Lo trovò vuoto, perché nostra madre – non solo mia, nostra – lo aveva finalmente letto, in un impeto di interesse verso i suoi figli. Per mesi mi aveva guardato frugare in quel piccolo bauletto e leggere, ogni giorno, la stessa devastante frase; finalmente, forse per mettersi in pace la coscienza prima di tentare di uccidersi per quella che, forse se lo sentiva, era la volta buona, tentò di capire i suoi figli come mai in quei tredici anni aveva fatto.

Tentò di capire perché Beck ogni giorno aprisse quel portagioie, tentò di capire perché anch’io, ogni giorno, mentre Beck era in bagno, aprivo quel portagioie. Passammo ore a domandarci perché avesse deciso di morire con quel foglietto così vicino, confessai anche a mia sorella che la pedinavo da anni, e lei mi disse che lo sapeva. Mi disse che il mio più grande pregio e il mio più acuto difetto fossero proprio la curiosità, così ogni giorno aveva lasciato quei foglietti in modo che io potessi leggere dalla sua penna ciò che non aveva il coraggio di esprimermi con la voce.

Ho quest’immagine vivida di Beck che si tiene il ventre con la mano. Non mi confessò mai di essere in dolce attesa, perché forse credeva di non meritarselo, credeva che la sua gravidanza non sarebbe mai giunta alla fine, perché attraverso di noi fluivano le colpe di nostro padre. Da quel giorno, attraverso di noi fluì anche la sofferenza di nostra madre.

Non seppi mai quando scrisse la lettera che trovammo nel tostapane, se prima o dopo aver assunto quelle venti compresse di Luminal. Pensai comunque che avesse un gran senso dell’umorismo, o forse era semplicemente uscita completamente e definitivamente di senno, perché non ricordavo di aver mai più visto la mia bellissima madre, bella anche nella morte e forse ancora più eterea in quella condizione, sorridere. Non c’era umorismo in lei, non c’era divertimento. Aveva smesso di esserci da quando il suo grande amore era stato spazzato via da quell’incidente, da quella pallottola presa per sbaglio perché stavamo ai confini con Harlem. O così avevo sempre creduto.

In quel tostapane lasciò tutto ciò che aveva, tutto ciò che sapeva e che io e Beck avevamo solo potuto sospettare.

Ci disse che nostro padre del Proibizionismo fece la sua più grande fonte di reddito. Ci disse che era uno dei più grandi, che lo aveva amato nonostante questo e, ancora peggio, lo aveva sostenuto. Non se ne era mai pentita, e questo mi ferì profondamente. Ci disse che si era abituata a vivere nel lusso che quelle attività illecite portavano. Disse tante cose che non fecero altro che affossarci, dettagli cruenti e spietati, nomi… tanti nomi.

Beck era incinta, si sentì male. Non mi disse nulla, io continuai a fingere di non saperlo, ma un altro pregio che non aveva mai voluto menzionare era la mia capacità di osservazione. Io vedevo.

Fu devastante per lei comprendere fino a che punto il matrimonio con l’uomo che, nonostante tutto, l’amava fosse impossibile. Fu devastante anche comprendere che suo figlio non sarebbe stato esente da quel fardello di cui noi non eravamo riusciti a disfarci, da cui anche mia madre, come mio padre tredici anni prima di lei, era fuggita.

 

“Posso sentire il tuo sangue scorrere nelle mie vene,

perché le menzogne, le truffe, il furto…

sono passati attraverso me.

A me, da te.”

 

Ho quest’immagine vivida di mia sorella che corre verso il suo portagioie e lo trova vuoto, sigillando subito dopo quel consunto pezzo di carta all’interno, quel foglio svolazzante sporco della polvere lasciata indietro dalle pasticche di barbiturici che mia madre non aveva risparmiato.

Quell’oggetto mi chiama, nei sogni mi chiama anche oggi, dopo anni, ed è come se mi stesse guidando verso un luogo che non conosco, pur non avendolo più con me.

 

Decisi di arruolarmi nell’esercito. Volevo fuggire da tutto, fuggire in Europa, pagare finalmente per le colpe che erano passate in me attraverso mio padre e, in quel momento lo seppi, anche attraverso mia madre. Volevo avere la possibilità di salvare tante vite quante loro ne avevano distrutte e fu fondamentale, perché capii che l’alienazione che avevo provato in tutta la vita non fu nulla a confronto con ciò che vidi al di là dell’Atlantico.

Beck volle imitarmi, volle andarsene prima che per lei fosse troppo tardi. Finalmente mi confessò di aspettare un bambino da quel Charles che abitava dall’altra parte della strada, da quell’uomo con il destino segnato perché aveva solo visto troppe cose senza aver partecipato a nessuna di esse. Un po’ come noi.

Volle venire con me, seppure una donna in stato interessante non fosse per nulla adatta a un campo di battaglia. Decise allora di fuggire, ma non mi disse mai dove.

«Prendi questo» mi disse il giorno della mia partenza, quando, con già il borsone in mano e le braccia non abbastanza muscolose per sostenerlo, attendevo il treno che mi avrebbe portato al porto. Chinai lo sguardo sulle sue mani screpolate dall’autunno imminente e trovai una bussola, che le avevo regalato quando era morto nostro padre. L’avevo trovata per strada, non puntava al nord, non sempre almeno.

«Beck, non funziona» le risposi. «Ed era un mio regalo.»

«Sei davvero sicuro che non funzioni? Ti riporterà a casa. Vivo

Ricordo che mi morsi la lingua a sangue per non ricordarle che non sarei potuto tornare a casa, perché non l’avremmo più avuta. Stavamo fuggendo proprio da quelle quattro mura al confine con Harlem che ci avevano provocato tanta sofferenza. E, forse, sarei morto in battaglia. Dopotutto, era quello che speravo. Ma quando guardai negli occhi di Beck, quegli occhi che per la prima volta mi ricordarono la dolce mamma che non avevo più da tredici anni, capii che lo sapeva anche lei e che non voleva altro che sentirmi dire che avrei provato a tornare.

Così l’abbracciai stretta e fu in quel momento che promisi a me stesso che non sarei andato in cerca della morte, avrei semplicemente continuato la mia vita in quel posto in cui morire era semplicemente molto più probabile di quanto non lo fosse a casa, a New York, nonostante tutto il nostro passato.

La guerra fu molto peggio di quanto non mi fossi mai aspettato e ogni giorno un pensiero mi tormentava, mi impediva di dormire.

Passa tutto attraverso me, non riesco a morire, non riesco a morire perché devo pagare per le colpe di mio padre.

Questo pensavo quando i colpi d’arma da fuoco atterravano i miei compagni, trapassando loro il petto, mentre io, pieno di quelle pasticche che chiamavano amfetamine, avevo il coraggio di morire, ma non ne avevo la fortuna, la casualità. Non ero abbastanza codardo da rompere la tacita promessa fatta a Beck per lanciarmi davanti a un fucile e salvare un commilitone mio fratello.

Lo capii quando vidi delle famiglie spaurite, una madre con una figlia maggiore e un fratellino più piccolo. Rividi la mia famiglia, senza padre – che probabilmente era morto in quella guerra – e bisognosa d’aiuto. E capii che avrei davvero accettato la morte solo se fosse venuta per me, non l’avrei rifuggita, l’avrei accolta, ma solo se fosse venuta esclusivamente per me, finalmente a dirmi che potevo smettere di pagare per le colpe di un padre che non ricordavo aver mai visto sorridermi come un bambino piccolo merita sempre.

 

La morte non mi ha mai voluto – mai – in quattro anni di guerra. Giorno dopo giorno lo annotavo su quel quaderno che avevo nell’accampamento, pensando a Beck e a dove potesse essere, con Charles e il bambino che avevano avuto, perché ero certo che mia sorella fosse riuscita a portare a termine la gravidanza. Avevo sempre visto nei suoi occhi quella luce determinata a sperare in tutto: credeva che non fosse giusto pagare per delle colpe che non avevamo commesso, ma che ci erano semplicemente scivolate attraverso le azioni di due genitori sbagliati, che a loro modo – forse – avevano saputo amarci quanto li avevamo amati noi.

Ogni tanto, forse una volta a settimana, riportavo su un angolo del quaderno quella frase, quella che Beck aveva impresso nella mia mente, marchiandola a fuoco.

 

“Posso sentire il tuo sangue scorrere nelle mie vene,

perché le menzogne, le truffe, il furto…

sono passati attraverso me.

A me, da te.”

 

Poi strappavo la pagina e la buttavo nel falò che, ogni tanto, ci concedevamo il lusso di accendere, quando sapevamo che gli aerei tedeschi non ci avrebbero visti. Non capitava spesso e allora, quando non potevo farlo, rubavo l’accendino del mio compagno di tenda – anche se, purtroppo, si sono susseguiti tristemente e mai mi successe di avere sempre il solito amico per più di un mese – e ne bruciavo gli angoli fino a giungere alle parole, che poi annerivo con uno scatto rabbioso. Esorcizzavo le mie colpe, ciò che attraverso me continuava a passare come unica dote di mio padre. Erano quelle le parole che bruciavo per prime, ogni volta.

 

La morte mi ha sempre rifiutato e oggi sono qui, cammino per questo marché aux puces alla periferia di una distratta e distrutta Parigi. Dopo quattro anni dalla fine di quella che hanno definito la Seconda Guerra Mondiale, porto ancora le ferite della morte che non mi ha mai voluto, ma che ha sempre aleggiato attorno a me, portando via ogni amico che abbia osato farmi durante il periodo del conflitto.

Ho sempre pensato che anche questo fosse un modo per farmela pagare, per far passare attraverso me dell’altra sofferenza.

Non sono tornato in Patria, forse mi è mancato il coraggio di farmi accogliere in un luogo dove mi avrebbero ricoperto di falsi sorrisi e onorificenze senza avere nessuno con cui condividerle. Avrei potuto dare tutta quella patina dorata in cambio di riavere indietro mia madre, perché la sofferenza che se l’era portata via non fosse mai esistita, ma non sarebbe mai stato possibile. E allora sono rimasto.

Sono rimasto forse per vedere il figlio di mia sorella, anche solo in fotografia, eppure in tre anni, quasi quattro, non ho mai trovato una traccia di Beck. Mi sarebbe piaciuto osservare il viso di suo figlio alla ricerca delle somiglianze con il padre che aveva la fortuna di avere accanto. Quelle somiglianze avrebbero cancellato per sempre quei marchi apparenti di tutto il male che ci passa attraverso senza pietà. Ma per espiare le colpe che non ho commesso, forse, sono destinato a non ricongiungermi mai con ciò che resta della mia famiglia.

Eppure sono rimasto, seguendo l’ago di questa bussola che, in tutti questi anni, non ha mai puntato al nord, ma che ha sempre puntato nella direzione migliore per me. Quando sono stato indeciso, ho sempre seguito quest’ago.

E ora giro per questo mercatino delle pulci e non so nemmeno perché si chiami così. Ho un vivido ricordo degli accampamenti, delle vere pulci nei nostri giacigli di fortuna, e non trovo nessuna somiglianza con ciò che vedo qui. Qui vedo voglia di ricominciare, voglia di ricostruire, voglia di non pensare a ciò che è stato e alle colpe che ogni essere umano si è assunto in questi anni di guerra.

Perché c’è chi può farlo, mentre io non riesco ancora oggi a togliermi dalla mente quegli uomini avvolti dal pastrano che passavano le ore sotto casa nostra?

Stringo la bussola tra le mani e svolto a sinistra, mentre i miei occhi sono catturati da un luccichio cupo, da un raggio di sole che colpisce una scatola di latta per puro caso, passando l’unico buco in questo tendone bianco sporco.

Quella scatola di latta sembra un portagioie e d’improvviso tutto ciò che non ho mai dimenticato si affaccia alla mia mente e mi travolge come un fiume in piena. Mi avvicino, sotto lo sguardo curioso di una bambina che ha qualcosa di familiare, anche se non riesco ad afferrare cosa sia.

Le chiedo di vedere il portagioie e lo apro, trovando dentro un foglietto ancora più familiare di quella bambina. Inspirando profondamente, insieme all’odore di muffa e umido, mi sembra ancora di sentire la polvere di barbiturici che, con quella puzza di asettico tipica dei medicinali, è un incredibile memoria di ciò che questo piccolo e insulso pezzo di carta ha passato. È appallottolato, lo apro e mi si inumidiscono gli occhi. Non ho mai pianto durante la guerra.

 

“Posso sentire il tuo sangue scorrere nelle mie vene,

perché le menzogne, le truffe, il furto…

sono passati attraverso me.

A me, da te.”

 

Ho passato quella fase, ciò che ho visto mi ha fatto crescere e in qualche modo so che anche per Beck è stato così, o non avrebbe mai trovato il coraggio di mettere sulla bancarella questo affare che per lei – per entrambi – ha significato così tanto.

Eppure, nonostante sia riuscito a lasciarmi tante cose alle spalle, se chiudo gli occhi posso ancora sentire tutta la colpa di mio padre che mi passa attraverso. Questa volta, però, non si ferma lì, ma passa e se ne va.

Stringo il foglietto tra le mani per un lungo istante, lasciandomi governare per un momento da tutto ciò che rappresenta, e poi lo rimetto all’interno del piccolo scrigno consunto dal tempo. Dico alla bambina, forse un po’ troppo grande per quella che effettivamente dovrebbe essere la sua età, che voglio quel bauletto di latta. In cambio, le lascio la bussola che non punta più al nord, la bussola che punta verso il mio istinto.

Guardo di nuovo quei capelli ramati, così simili a quelli di Charles, e poi guardo gli occhi, quelli di Beck, i miei, quelli di nostra madre. Forse è giusto così, forse è meglio avere la testimonianza di un passato che non si potrà mai rinnegare.

E sorrido, mentre me ne vado e annuncio che tornerò domani, a controllare se qualcuno avrà comprato quell’affare sgangherato che ho lasciato al posto di quest’altro derelitto. E domani, lo so, troverò Beck.

 

 

 

*

 

 

 

Ringrazio Lisa, che mi ha plottato questa storia così:

Un ragazzo sui venticinque anni, in un rigattiere, tiene un foglio stretto in pugno con scritto: “I can feel your blood running through my veins. Because the lying, the cheating, the stealing… oh, it’s transferred through. To me, from you.” Devono esserci almeno tre oggetti fondamentali a cui si lega. La parola chiave è “attraverso”. Lui attraverso se stesso, quindi il foglio e gli oggetti giocano un ruolo fondamentale nella caratterizzazione del personaggio.

Ho utilizzato solo due oggetti, ovvero il portagioie e la bussola, e come terzo ho considerato il foglio stesso, perché credo che, in realtà, sia stato la chiave di tutto. E aggiungo che la frase scritta sul foglietto appartiene a “Caro padre” dei Deaf Havana, così come anche il titolo.

Davvero grazie per questa ispirazione: non avrei mai trovato questa storia nella mia testa, se non avessi avuto l’input.

 

 

 

   
 
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