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Autore: vannagio    03/02/2014    17 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”




Capitolo 1




Che quella sarebbe stata una giornata del cazzo, JD l’aveva capito subito, nel preciso istante in cui aveva trovato Darla seduta sul marciapiede, davanti al negozio di tatuaggi. Stava fumando una sigaretta, come la sera in cui l’aveva assunta, e sorseggiava caffè nero da un bicchiere di cartone di Starbucks.
«Perché non hai aperto? Hai dimenticato le chiavi a casa?».
Lei gli porse un altro bicchiere di caffè, identico al suo. Ghirigori fumosi si sollevavano dal bordo del bicchiere, attorcigliandosi su loro stessi e disperdendosi nell’aria frizzante del mattino.
«Bevi questo prima, ti aiuterà a incassare il colpo».
Troppo tardi. JD si era già accorto dell’enorme graffito che imbrattava la saracinesca. Il lavoro di un artista, nulla da eccepire, peccato che la scritta dicesse “Paga o ti fottiamo”. Un poeta, proprio. Sospirando, JD estrasse la chiave dalla tasca dei jeans e la infilò nella serratura. O almeno ci provò. Perché la chiave non entrava, la serratura era come…
«Incollata. È tutto inutile, ci ho già provato io».
Grandissimi. Pezzi. Di merda.
JD si sedette accanto a Darla con in mano il bicchiere di caffè ancora intatto, mentre lei mandava giù un altro sorso del suo.
«Credi siano stati di nuovo loro?».
«Chi altri, se no? Il graffito è abbastanza chiaro, mi pare».
Darla diede un ultimo tiro alla sigaretta e poi gliela offrì. JD non si fece pregare, lei fumava solo Marlboro e lui non diceva mai di no a una Marlboro.
«Che cazzo sta succedendo?», chiese Darla. «Mi hai sempre detto che eravamo al sicuro da queste porcate. Williamsburg Nord è territorio della banda dei Coyote, no?».
JD diede fondo al mozzicone di sigaretta, prima di rispondere. «Non lo so. Forse i Polacchi non si accontentano più di Greenpoint». Spense la cicca sul bordo del marciapiede e prese il cellulare. «Chiamo il fabbro, così almeno apriamo».
Una serratura da sostituire, un graffito da lavare, il conto del fabbro da saldare, tre farfalline tatuate sulle fiche depilate di tre biondine con la puzza sotto il naso qualche ora più tardi, e l’ipotesi di JD era stata confermata: quella era proprio una giornata del cazzo. Aveva una gran voglia di prendere Gina da sotto il bancone, sentire il legno dell’impugnatura sotto le dita e spaccare in due la testa di qualcuno. Invece si lasciò cadere sul divano a peso morto e sbuffò.
«Devo nascondere Gina?».
«Come l’hai capito?».
Da dietro il bancone, Darla ammiccò.
«Non perdi mai la calma, tu. Le volte che ti ho visto sbuffare, in questi sette anni, si contano sulle dita di una mano».
«Be’, se da quella porta entra un’altra stronza che vuole una farfalla sull’inguine, mi vedrai sbuffare tantissimo, te lo garantisco».
«E saprò di dover nascondere Gina».
«Come mi conosci tu, nessuno mai».



Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Nella maggior parte dei casi quel genere di ragazza aveva niente di dark (vestiti a parte, ovviamente) e tutto di una zoccola. Si rivolgeva a un tatuatore, perché era convinta che con un tatuaggio sulla patata avrebbe rimorchiato di più. A conti fatti, non c’era alcuna differenza tra una Barbie e una Bellezza Dark (vestiti a parte, ovviamente). Da dietro il bancone, Darla stava rivolgendo alla Bellezza Dark in questione un’occhiataccia molto eloquente e poco lusinghiera.
«Che ti serve, dolcezza?».
«Un elefante in tutù. Quando ti sei fatta ficcare quel piercing nel naso, hai starnutito fuori tutto il cervello, per caso? Sono in un negozio di tatuaggi, cosa cazzo vuoi che mi serva?».
Ah, ottimo. Non solo Bellezza Dark, ma anche Faccio La Stronza Così Sembro Più Figa.
Proprio la mia giornata fortunata.
A giudicare dalla faccia di Darla, il motto “Il cliente ha sempre ragione” stava per essere mandato a ’fanculo. JD le fu subito accanto.
«Darla, vai a fumare una sigaretta, ci penso io qui».
Lei non diede segno di averlo sentito, continuava a fissare in cagnesco la stronzetta, tanto che JD fu costretto a stringerle il polso a mo’ di avvertimento. Allora Darla digrignò un “Va bene” tra i denti, si liberò con un brusco strattone dalla sua presa e uscì dal negozio sbattendo la porta. Le vetrate stavano ancora tremando, quando JD estrasse da sotto il bancone l’album con i tatuaggi che piacevano tanto alle Stronzette Dark.
«Dovresti assumere una cassiera più intelligente, quell’idiota fa scappare i clienti».
«E tu dovresti moderare il linguaggio, se non vuoi che ti sbatta fuori a calci nel culo dal mio negozio».
Di solito JD era più accomodante con i clienti, anche se gli stavano sul cazzo fin dalla prima occhiata. Quel pomeriggio, però, dopo le dieci fottute farfalline e l’atto di vandalismo a opera dei Polacchi, il suo limite di sopportazione era stato ampiamente superato. Stronzetta Dark si morse il labbro, come per trattenere a stento una parolaccia.
Ci tieni parecchio a farti tatuare la fica, eh?
Bella era bella. Anzi, di più. Toglieva il fiato.
Le lenti a contatto gialle (molto in voga tra le Stronzette Dark) facevano pendant con i capelli, che erano di un biondo scuro, quasi miele. Il cuoio nero, di cui era interamente vestita, aderiva al suo corpo come una seconda pelle. Sopra il corpetto scollatissimo, portava un giubbotto da motociclista. Forse il tipo che se la sbatteva era un biker. Un biker molto fortunato.
«Allora». JD cominciò a sfogliare l’album. «Qui abbiamo teschi, ragni di tutte le specie, ali nere da mettere sulla schiena… Oh, questo sembra fatto a posta per te: una croce gotica rovesciata. Che ne dici? Oppure… preferisci un pentacolo? Il pentacolo alla base della nuca è molto gettonato, quest’anno».
«Quando hai finito di percularmi, avvertimi. Così ti spiego quello che ho in mente».
La cosa si faceva interessante. JD mise da parte l’album e si appoggiò con entrambe le mani al bordo del bancone, in attesa.
«Sono tutto orecchi».
Lei frugò nelle tasche del giubbotto da motociclista e ne estrasse un foglietto a quadri stropicciato. Dopo averlo lisciato per bene, appiattendolo sul ripiano del bancone, vi poggiò sopra indice e medio e lo spinse verso JD. Lui si sporse in avanti e inarcò un sopracciglio.
«Tutto qui? Sono quasi deluso».
«Lo vorrei intorno ai polsi, puoi farlo?».
Stronzetta Dark lo fissava dritto negli occhi, come sfidandolo a scoppiare a ridere o a fare qualche commento fuori luogo.
Caspita, la ragazzina ci tiene davvero.
JD afferrò il foglietto per esaminare meglio il disegno.
«La fascia centrale deve essere larga due centimetri, tutta rossa, semplicissima, nessuna decorazione», precisò lei nel frattempo. «L’intreccio di rovi e rose, ai due lati della fascia centrale, puoi gestirlo come ti pare, hai campo libero. L’importante è che complessivamente il tatuaggio non superi i cinque centimetri di larghezza».
Tutto sommato poteva andargli peggio. Avrebbe potuto chiedergli un’altra cazzo di farfalla, ad esempio.
«Su entrambi i polsi, hai detto?».
Stronzetta annuì.
JD tiro fuori un elastico dalla tasca dei jeans e si legò i capelli in una coda.
«Sì, posso farlo».



«Ehi, JD. Hai un minuto?».
Il ronzio dell’ago cessò. JD posò la macchinetta elettrica sul banco di lavoro, passò un panno pulito sulla pelle arrossata e sporca d’inchiostro, e solo allora sollevò lo sguardo.
«Perché?».
Da dietro la tenda spessa, che divideva il laboratorio tre metri per tre in cui lui lavorava dal disimpegno in cui venivano ricevuti i clienti, faceva capolino il viso di Darla.
«Di là c’è Big D. Vuole sapere se hai tempo per un drago sulla schiena».
JD corrugò la fronte.
«Dipende. Quanto grande?».
«E che cazzo ne so? Mi occupo solo di grana e documenti, lo sai. Faglielo tu, l’interrogatorio. Per chi diavolo mi hai presa? Perry Mason?».
Mentre i passi di Darla, oltre la tenda, si allontanavano, JD si lasciò sfuggire un sospiro esasperato. Sempre così con lei: quando qualcuno la faceva arrabbiare, non c’era modo di farle passare il cattivo umore. Ed era tutta colpa di quella grandissima stronza che sedeva sulla poltroncina imbottita, se adesso Darla era incazzata peggio di un puma inferocito.
Maledetta l’entità sovrannaturale che me l’ha mandata.
Intanto, la suddetta Bellezza Dark, anche nota come Spina Nel Fianco e Grandissimo Rompimento Di Coglioni, aveva un bastardissimo sorrisetto compiaciuto stampato su quella faccia da stronza che si ritrovava. JD fece finta di non vederlo.
«Che ti dicevo? Conosco bene le tipe come quella: fanno le carine solo se sentono l’odore di un grosso cazzo».
Non che avesse torto, ma JD non aveva nessunissima voglia di darle ragione.
«A quanto pare, sull’argomento cazzi sei molto preparata».
Le guance di Stronzetta si tinsero di rosso per la rabbia. Tuttavia lei non fiatò. Anzi, si morse il labbro a sangue pur di non replicare. La minaccia di cacciarla dal negozio, se non avesse tenuto a freno la lingua, era ancora valida. JD sorrise affabile e alzandosi le diede un buffetto sulla testa.
«Fai la brava bambina e non toccare niente, intesi? Torno subito».
«Non sono una bambina e poi si può sapere dove stai andando?», protestò lei. «Non puoi fare una pausa. Non te lo permetto! Devo tornare a casa prima di cena, altrimenti…».
JD spense lo stereo.
Uscito dallo studio, andò incontro al grosso omone, largo un metro e alto il doppio, che lo aspettava accanto al bancone.
«Se avessi saputo che eri inguaiato con una brutta gatta da pelare, non avrei chiesto a Darla di disturbarti. Scusa tanto, amico».
«Una gatta morta, per essere precisi». JD gli assestò una pacca sulla spalla, a mo’ di saluto. «Non preoccuparti, Big D. Questo e altro per il mio cliente preferito…», si piegò sulle ginocchia, sorridendo, «…e per la sua splendida bambina. Come stai, Patti?».
Patti (con la i, non con la y, come Patti Smith), una bambina biondissima, tutta vestita di rosa, era aggrappata ai bermuda di Big D e cercava di nascondersi dietro gli enormi polpacci tatuati di suo padre. Non appena riconobbe JD, però, gli si buttò a peso morto tra le braccia.
«Un drago? Sei sicuro? Tu non sei tipo da draghi», chiese poco dopo JD.
Big D fece spallucce e accennò col mento alla bimba rosa-vestita che teneva in braccio.
«A Patti piacciono i draghi, e a casa di Big D la parola di Patti è legge».
JD scoppiò a ridere.
«Lo tieni per le palle, il tuo papà. Eh, Patti?».
«Attento a come parli, razza di stronzo. Se Tiffany sente Patti dire anche solo mezza parolaccia, si incazza come una belva e mi lascia in bianco per un mese».
Ma Patti non sembrava interessata a imparare le parolacce: seguire con le dita i contorni della grossa D tatuata sul collo del padre era molto più importante per lei, a quanto pareva. JD conosceva Big D da diversi anni, ma vedere quella specie di scimmietta rosa penzolare dalle spalle di un omone tatuato, grosso come un elefante, dalla barba rossa e la testa rapata a zero, gli faceva sempre un certo effetto. Se a quel quadretto si aggiungeva Tiffany, una biondona-barra-fotomodella-barra-expornostar che JD aveva avuto l’onore di tatuare in luoghi dove il sole normalmente non batte, il tutto diventava ancora più strano, per non dire inquietante.
«Patti disse drago e drago fu, allora. Torna lunedì mattina, Big D, così ci mettiamo d’accordo sul disegno. Purtroppo ci vorrà tutto il pomeriggio prima che la gatta morta se ne vada».
«Fai con comodo, amico. Chiamami, quando hai finito di spennarla per bene».
Big D gli strizzò l’occhio, prima di uscire dal negozio con Patti che faceva cavalluccio sulle sue spalle.



«Perché sorridi?».
Stronzetta sussultò.
«Cosa? Oh, ah… sei tornato. No, niente. Quel tizio e sua figlia mi hanno fatto pensare a due persone che conosco».
JD assunse una finta espressione offesa.
«Mi hai spiato?!».
«Sì, l’ho fatto. E ho pure sentito come mi hai chiamata. Sono morta dalle risate, guarda. Dovresti fare il cabarettista, il tuo è un talento sprecato».
«La verità fa male, lo so».
JD sfoderò un sorriso degno dello Stregatto, mentre si sedeva sullo sgabello e dava un’occhiata al polso sinistro di Stronzetta. L’intreccio nero di rovi stava venendo bene, adesso rimaneva soltanto da aggiungere le rose, di un bel porpora: sarebbero state da dio su quella pelle bianchissima.
Aveva a che fare con i tatuaggi praticamente da quando era nato, eppure JD non aveva mai visto una pelle così. Quando Stronzetta si era tolta il giubbotto, scoprendo le spalle e le braccia, per poco non se n’era venuto nelle mutande. Di un rosa pallido, vellutata come il petalo di un fiore, glabra e priva di qualsiasi imperfezione, quella pelle era la tela perfetta sulla quale dipingere, il blocco di marmo che ogni scultore sognava. Nel poggiarci sopra l’ago per la prima volta, JD aveva avuto la netta sensazione di stare per profanare qualcosa di sacro e purissimo. Come portarsi a letto una ragazza vergine: eccitante e spaventoso al tempo stesso. JD si concesse ancora un istante, per accarezzare con lo sguardo tutto il braccio, risalire fino alla spalla, girare intorno al collo e poi scendere giù, su tutto quel ben di dio che straripava dal corpetto aderentissimo.
«Vedi di non menartelo troppo, okay? Manca poco all’ora di cena».
Per quale motivo il Dio Dei Tatuaggi avesse donato una simile opera d’arte anatomica a quella grandissima stronza, sboccata, viziata e figlia di papà, JD non riusciva proprio a spiegarselo. Per un attimo assaporò l’idea di mandarla a ’fanculo, ma la cruda realtà dei fatti era che non poteva: il pensiero di non avere più sotto mano quel corpo creato a posta per i tatuaggi faceva male al cuore.
Il ronzio dell’ago tornò a colmare il silenzio.
«Allora? Chi sono?».
«Chi sono chi?».
«Le due persone che Patti e Big D ti hanno fatto tornare in mente».
Stronzetta esitò, prima di rispondere.
«Mio padre ed io».
«Uhm».
JD sperava proprio che non ci fosse dietro un fottutissimo dramma familiare, perché non era in vena.
«Sai… tutto questo lo sto facendo per lui».
Come volevasi dimostrare. JD trattenne a stento un’imprecazione.
«Mio padre ha dei tatuaggi che gli ricordano costantemente un passato non proprio rose e fiori. Si fa un sacco di pippe mentali sul fatto che io possa vergognarmi di lui e di quello che era un tempo. Vorrei fargli capire che si sbaglia. Sono orgogliosa di essere sua figlia, è un padre di valore e non lo cambierei con nessun altro al mondo».
«Fammi indovinare: i tatuaggi di tuo padre sono delle fasce rosse sui polsi?».
Stronzetta annuì.
«Sui polsi e sul collo. Ha provato a farli rimuovere, una volta. Sai, con il laser, ma il trattamento non ha funzionato, il rosso è un colore difficile da eliminare. Perciò indossa sempre maglioni a dolcevita, per non sentire gli occhi degli altri addosso».
«E dato che lui non può toglierseli…».
«…ho pensato di farmi tatuare qualcosa di simile sui polsi. Esatto».
Okay, forse JD si era sbagliato, forse non tutte le Stronzette Dark erano stupide e inutili, forse c’era ancora una speranza per la salvezza del mondo.
«Pensi che apprezzerà il gesto?», le chiese.
«Chi, mio padre?» Stronzetta scoppiò a ridere, con la bocca aperta, la testa buttata all’indietro e i capelli che le accarezzavano le spalle nude. «Come minimo gli prende un colpo. E se sopravvive, mi ammazza».
JD ghignò.
«Un vero peccato non poter assistere, allora».



«Hai capito tutto, sì?».
Stronzetta annuì, mentre si rigirava tra le mani il vasetto di crema.
«Lavo delicatamente il tatuaggio, applico la crema e poi copro con la pellicola trasparente, proprio come hai fatto tu. Tutto questo per circa una settimana, fin quando l’inchiostro non smette di scaricare».
«Brava bambina, dieci e lode».
Stronzetta mise il broncio.
«Non sono una bambina!».
Darla li spiava di sottecchi da dietro il bancone e scuoteva la testa con disapprovazione. Per quale cazzo di motivo stava tenendo la porta aperta per permettere a Stronzetta di uscire, JD proprio non lo sapeva. E perché diavolo la stava seguendo fuori, sul marciapiede? Mistero.
Si fermarono accanto a una Ducati. JD non poté fare a meno di sgranare gli occhi, quando Stronzetta slacciò il casco dalla sicura e inforcò la moto. Be’, questo spiegava il giubbotto da motociclista almeno. Intanto lei si era accorta del suo sbalordimento e gongolava come una scema: glielo leggeva in quegli occhi gialli da gatta.
Per un millesimo di secondo, JD pensò che quelle non potevano essere delle semplici lenti a contatto, perché di norma le lenti a contatto non sorridono, non brillano come un calice colmo di champagne contro luce, e soprattutto non si accendono quando vedono qualcosa di loro gradimento.
Il millesimo di secondo successivo, JD si diede dell’idiota depravato.
«Tu mi piaci, sai?».
«Eh?».
«Sei il primo che mi tratta come la stronza che sono».
Promettente.
«Se domenica sera passi dalle parti del Goldfinger, vienimi a trovare. Mi esibisco con la mia band».
Sì, certo, contaci, come no. «Vedrò quello che posso fare».
Stronzetta sorrise, le sue lenti a conta… no, i suoi occhi (perché quelli non potevano non essere i suoi veri occhi) si animarono di un guizzo malizioso e saltellarono allegramente da un tatuaggio all’altro sulle braccia di JD.
«Chiedi di Honey».



La parte della giornata che Darla preferiva era l’orario di chiusura. Non che non le piacesse lavorare lì, eh? Anzi, Darla adorava lavorare lì, ancora di più adorava lavorare per JD. Ma la chiusura del negozio era una specie di rito sacro per il suo capo, che gli era stato tramandato dal nonno Wile Coyote e al quale solo Darla aveva avuto il privilegio di essere ammessa. Lo aiutava a riordinare gli album, a pulire le attrezzature e a sistemare le boccette con i colori. Poi, mentre lui contava i contanti e li riponeva nella cassaforte dietro la foto di Wile Coyote, Darla si concedeva un bicchierino di tequila sul divano. Nessuno dei due apriva bocca, fin quando la serratura della cassaforte non aveva fatto clock.
Quella sera Wile Coyote sembrava più soddisfatto del solito, seduto sulla sua Harley Davidson, con quarant’anni in meno sul groppone e una Gina vestita solo di tatuaggi sul sellino posteriore. Accanto alla foto dei nonni di JD, c’era la riproduzione de La Grande-Jatte, che cozzava con un pugno su un occhio con il resto dell’arredamento. Ogni volta che la guardava, Darla provava uno sfarfallio al basso ventre che l’avvertiva di cercarsi qualcuno con cui scopare, per non rischiare di stuprare JD sul bancone.
Clock.
«Hai impegni stasera?», gli chiese.
«Il solito goccetto del venerdì sera al Coyote Club. Tu?».
«Penso che andrò a rimorchiare qualcuno. Sempre che non ti voglia sacrificare tu, ovvio».
JD alzò gli occhi al soffitto.
«Solo buoni amici, ricordi? Eravamo sul quel divano, nudi. E tu hai detto “Da adesso in poi solo buoni amici”».
«Se è per questo, ho detto anche che per te avrei fatto tutte le eccezioni alla regola che volevi».
JD si lasciò andare a una sonora risata.
Quanto era bello, quando rideva. Be’, era bello sempre. Uno dei più belli con cui Darla avesse mai scopato. Il che era tutto dire, dato che lei scopava solo con i migliori pezzi di manzo sul mercato. La bellezza di JD non era fatta di pettorali scolpiti o bicipiti guizzanti, la bellezza di JD stava nel suo sguardo. C’era qualcosa di erotico nel modo in cui guardava le persone. Perché lui ti scrutava dalla testa ai piedi come se fossi una tela, o un blocco di marmo, e ti tatuava con gli occhi. Tanto che alcune volte, con lo sguardo di JD addosso, Darla aveva percepito il punzecchiare leggero dell’ago sulla pelle. Soprattutto sull’ombelico, intorno al piercing, dove una volta l’aveva baciata. La cosa che però più la mandava su di giri, di JD, erano i suoi tatuaggi. Da lontano erano soltanto un vortice di colori sulla pelle, colori all’apparenza incasinati e mescolati a casaccio; da vicino invece prendevano forma e si trasformavano in opere d’arte. Come un quadro puntinista al contrario. Come La Grande-Jatte appesa alla parete.
Darla sospirò. Se fosse stata innamorata di JD, la sua vita sarebbe stata molto più semplice. Perché doveva innamorarsi solo delle teste di cazzo?
«Non ti preoccupare, sto scherzando. Tanto l’ho capito che ti sei fatto infinocchiare dalla stronzetta di oggi».
«Chi?».
«Non fare il finto tonto».
«Non faccio il finto tonto, non ho idea di chi tu stia parlando».
Questa volta fu Darla a rivolgere gli occhi al soffitto. Si mise in piedi, sbuffando.
«Se cerchi Gina, l’ho nascosta in bagno. Ci si vede domani».
«Aspetta, qui ho quasi finito, ti accompagno io».
«No, meglio di no». Darla ghignò. «Non vorrei che la tua fidanzatina ci vedesse insieme e fraintendesse».
«Vaffanculo, Darla!».



Il Coyote Club era stranamente tranquillo quel venerdì sera. C’erano solo due Coyote grigi, vecchi amici di Wile, che bevevano birra scura da boccali grossi come secchi. Lo salutarono con un cenno del capo e JD fece altrettanto, mentre prendeva posto al bancone.
«Ti porto il solito?».
Halona, la proprietaria del Coyote Club, lo fissava con espressione imbronciata. Da quando la conosceva, JD non l’aveva mai vista ridere.
«Non mi dire, hai cacciato anche Lizzy?».
«Era una troia».
«Chissà perché le tue bariste sono sempre troie. Non sarebbe ora di cominciare a porsi delle domande? Del resto, le troie mica scopano da sole, no?».
Si diceva che Halona avesse ammazzato un uomo a mani nude e il coyote tatuato sulla sua spalla confermava il pettegolezzo (Più grande è il coyote, più grave è il crimine, diceva sempre Wile. Il coyote sulla schiena di Wile era enorme). Halona era talmente tosta da aver preso il comando della banda dei Coyote dopo la morte di Wile e apparteneva a quella categoria di donna che ti faceva venire la cacarella solo con un’occhiataccia, nonostante i lunghi capelli argentati e il fisico minuto e ossuto. Per questo motivo JD non capiva come mai a quel vecchio rincoglionito di suo marito, che nonostante i settantacinque anni suonati si sbatteva qualsiasi essere vivente dotato di due grosse tette, la facesse passare sempre liscia.
«Perché lo chiedi a me? Ti sembro una troia, io? Chiedi alla tua commessa, scommetto che quella c’ha perfino la patente, della provetta troia».
«Dopo tutto questo tempo ancora non l’hai perdonata? Quando è stato? Sei anni fa?».
«Sette. E se non la smetti, giuro che ti sbatto fuori a calci in culo dal mio locale». Halona gli mise davanti al naso la sua ordinazione (un bicchiere di Grey Goose e un boccale di birra scura doppio malto), ponendo fine così alla discussione sulle bariste troie. «Dovrei farci mettere una targhetta su quello sgabello», disse invece, indicando col mento lo sgabello vuoto accanto a JD.
«Lo dici ogni venerdì, ma sono passati otto anni dalla morte di Wile e lo sgabello sta ancora aspettando».
Halona sbuffò.
«Lo so, ma poi penso che la targhetta non serve a un cazzo, tanto ci sei tu a ricordare alla gente che nessuno deve sedersi lì».
JD abbozzò un sorriso.
«Sei più velenosa del solito, stasera. È successo qualcosa?».
«Grane con la banda dei Polacchi».
JD si fece improvvisamente serio.
«Tipo?».
«Tipo che si sono messi in testa di espandersi qui a Williamsburg Nord, nel nostro territorio. Il loro capo deve essersi rincoglionito tutto in una volta, se pensa che i Coyote rimarranno in disparte a guardare. Ci sono state già parecchie risse tra i miei e i loro. Jim e Charlie sono finiti all’ospedale, ma si sono trascinati dietro tre Polacchi». L’espressione sul viso di Halona era quella di una mamma orgogliosa. «Tu, piuttosto. Devi stare attento. Il tuo negozio di tatuaggi si trova proprio al confine tra Greenpoint e Williamsburg».
JD fece roteare il liquido trasparente nel bicchiere un paio di volte.
«Arrivi tardi».
Halona aggrottò la fronte. «Eh?».
«Mi hanno lasciato un promemoria, stamattina. “Paga o ti fottiamo”. Un po’ datato, forse, ma abbastanza eloquente. E non è nemmeno la prima volta che succede».
La reazione di Halona alla notizia fu un pugno sbattuto sul bancone.
«Fottuti bastardi! Prima non si sarebbero permessi. Prima il negozio di Wile Coyote era il cuore della nostra banda, attaccare il negozio significava sfidare tutti i Coyote. Ora invece…».
«…ora invece le cose sono cambiate, i giovani non hanno più rispetto per le tradizioni, e poi adesso al negozio ci sono io. Che (senza offesa, eh?) non sono un vero Coyote, al massimo una specie di mascotte. Sì, lo so. Lo conosco a memoria, ‘sto ritornello».
«Vuoi che ti metta Cagnaccio a guardia del negozio? Giusto per stare tranquilli».
«So badare a me stesso, Halona. Anche se sono solo una mascotte. Adesso lasciami al mio Grey Groose». JD diede una pacca affettuosa allo sgabello vuoto. «Ho voglia di fare due chiacchiere col mio vecchio».
E se suo nonno Wile fosse stato lì, si sarebbe limitato ad aggiungere “Vecchio un paio di palle, stronzo!”.



Si era ritrovato il foglietto con lo schizzo del tatuaggio di Stronzetta (forse era il caso di cominciare a chiamarla col suo vero nome) in tasca, in mezzo ad alcune ricevute. Non sapeva come fosse finito là, ma era tutta la mattina che se lo rigirava tra le mani senza avere idea di che cosa farci.
Vorrei fargli capire che si sbaglia. Sono orgogliosa di essere sua figlia, è un padre di valore e non lo cambierei con nessun altro al mondo.
E dato che lui non può toglierseli…
…ho pensato di farmi tatuare qualcosa di simile sui polsi. Esatto.

«Che hai lì?».
Sua moglie Tiffany aveva portato Patti al parco, così Big D aveva approfittato di quel momento di libertà per andare a trovare JD e concedersi quella che lui chiamava La Mia Dose Quotidiana Di Cose Da Uomini. Chissà se si era mai reso conto della sfumatura equivoca che il nome portava con sé.
«Uhm, niente». JD si strinse nelle spalle, cercando di simulare indifferenza. «Il tatuaggio che ho fatto alla gatta morta del venerdì pomeriggio, ricordi? Mi ha invitato ad una specie di concerto. Stasera, al Goldfinger».
«É fica?».
JD inarcò un sopracciglio.
«Che cazzo c’entra?».
«C’entra, perché se è fica ci vai e te la scopi».
«Non è così semplice».
«È semplicissimo, invece. Vai e scopi. Come fare due più due. Se scopa come una porca, ti fai dare il numero e la richiami non appena ti torna il prurito alle palle. Se no, arrivederci e grazie. Due. Più. Due». Big D gli si fece vicino, con fare cospiratorio. «Quand’è stata l’ultima volta che hai pucciato il biscotto nel latte? Tre mesi fa?».
«Non è questo il problema. Questa ragazza… è molto giovane».
Big D inarcò un sopracciglio. «Giovane quanto?».
«Ha diciannove anni, ma ho dovuto chiederle il documento, pensavo ne avesse di meno».
«Ah, ma se è maggiorenne che ti frega? Ancora perdi tempo a pensarci? Che cazzo ti costa andare a quel concerto? Male che ti può andare, hai sprecato una serata della tua vita, sai che dramma. Se ti va bene, invece…». Big D fece un gesto eloquente con la mano. «Eh?».
In risposta ricevette solo un’occhiataccia.
«Eccheccazzo, JD! Almeno un po’ deve piacerti, sta’ tipa, altrimenti non staresti lì a rimuginare come un coglione, dico bene?».
JD tornò a fissare lo schizzo sul foglietto stropicciato. Riavvolse le giornate trascorse come il nastro di una videocassetta. Quando raggiunse il momento esatto in cui aveva poggiato per la prima volta l’ago sulla pelle di Honey, premette il tasto play. Una scarica di corrente elettrica ad alta tensione gli attraversò la spina dorsale, facendogli rizzare i peli sulla nuca e qualcos’altro molto più in basso.
«Allora, qualcosa te la smuove, sì o no?».
Anche troppo.



Le tremavano le mani. Scrutava la folla di gente da dietro le quinte e le tremavano le mani. Come una pivella alle prime armi. Non era l’ansia per l’esibizione ad averla trasformata in una corda di chitarra troppo tesa, però. Scandagliava le persone stipate sotto il palchetto una ad una e sapeva che, se avesse individuato chi stava cercando, la corda sarebbe saltata con un blaaaaang tremolante per l’eccitazione.
Ma di lui non c’era neanche l’ombra di un tatuaggio.
A ogni secondo che passava la corda della chitarra si allentava sempre di più, insieme alla speranza di vederlo apparire dal nulla. Aveva dovuto prendere il coraggio a due mani, per invitarlo. Honey era brava a simulare, ma quando lui aveva detto “Vedrò quello che posso fare” il cuore le era saltato in gola e per tanto così non era caduta stecchita sul marciapiede.
Cazzo, se era figo. Cazzo, se le piaceva. Cazzo, come l’aveva guardata. Si era sentita nuda e ricoperta di tatuaggi al tempo stesso, sotto i suoi occhi. Cazzo, cazzo, cazzo. Perché non era venuto? Perché sei una mocciosa e lui è un figo stratosferico e anche se gli è piaciuto quello che ha visto (oh, sì, gli è piaciuto eccome, non sono cieca!), chissà quante ne trova in giro di puttane che gliela servono su un piatto d’argento, a cominciare da quella troia della commessa, credevi davvero che un tipo così si sarebbe accontentato della prima pivella senza esperienza che gli capitava a tiro?
«Honey, che fai lì?».
Alla fine la corda aveva fatto blaaaaang, ma per la persona sbagliata. Honey portò la mano al petto, il suo cuore era un cavallo imbizzarrito, e riprese fiato.
«Cazzo, Connor. Mi hai fatto prendere un colpo!».
«Scusa, ma tra poco si comincia e Ben sta facendo il matto, dice che vuole ripassare la scaletta. Di nuovo. Andiamo, dai».
Honey rivolse un’ultima occhiata sconsolata alla folla sottostante. Ancora niente.
«Va bene, andiamo».
«Cerchi qualcuno?», le chiese Connor.
«Ho invitato un tizio… ma a quanto pare aveva di meglio da fare».
«Be’, se è così coglione da non presentarsi, vuol dire che non vale un secondo del tuo tempo».
«Sì, ma…».
«Non ci pensare, pensa all’esibizione piuttosto. E a dopodomani».
Honey aggrottò la fronte. «Perché? Che succede dopodomani?».
Connor sorrise.
«Ti porto al cinema a vedere Fast & Furious 6. Non parli d’altro da un anno. Ero curioso anch’io, così ho prenotato due biglietti».
Abbracciarlo di slancio fu un gesto automatico.
«Sei il migliore amico del mondo!».



Doveva essersi rincoglionito tutto in una volta.
Perché altrimenti non si sarebbe trovato lì, dove non doveva assolutamente trovarsi. Mentre i bassi della musica rap gli martellavano i timpani, JD solcava quel mare di corpi eccitati, sudati e struscianti con la vaga consapevolezza di stare commettendo la più grande cazzata della sua vita. Raggiunse il bancone del bar, guardandosi intorno come chi si aspetta un’imboscata da un momento all’altro. Il barista, un Moro gigantesco che prometteva guai da qualunque angolazione lo si guardasse, asciugava meticolosamente un bicchiere da cocktail e lo fissava con espressione sospettosa.
«Serve aiuto?».
Tanto valeva approfittarne.
«In effetti, sì. Conosci una certa Honey? Capelli color miele, occhi gialli… veste sempre di nero».
Il Moro si accigliò.
«Chi la cerca?».
«JD. Sono… solo un amico».
Qualcosa nello sguardo del Moro lo aveva indotto ad aggiungere quel solo all’ultimo momento.
«Be’, JD Solo Un Amico, ti consiglio caldamente di girare alla larga da Honey».
Il locale piombò nel buio e JD non ebbe la possibilità di chiedere spiegazioni. Anche il tunzi tunzi dei bassi si era ammutolito senza preavviso e solo un sottofondo di bisbigli e brusii trepidanti rendeva sopportabile l’inaspettata assenza di musica. Poi, all’improvviso, la scarica di una chitarra elettrica spazzò via dal locale qualsiasi altro rumore, come una violenta raffica di vento, e una luce bianchissima accecò tutti i presenti, illuminando a giorno il palco.
Honey era lì, sotto i riflettori.
Chiodo di pelle nera, minigonna, anfibi. E una voce che neanche un angelo.
«Che sventola! Me la sbatterei volentieri, quella lì», fu il commento di qualcuno.
JD non ebbe neanche il tempo di reagire, perché un energumeno grosso quanto un minivan si era lanciato addosso al troglodita come un bulldozer contro un muro e lo aveva steso con un poderoso manrovescio.
«Quella è MIA figlia, coglione!».
La sua voce era un ruggito talmente spaventoso da sovrastare gli strilli metallici delle chitarre e far gelare il sangue nelle vene. Solo quando il tizio si voltò verso il palco, JD riuscì a scorgerlo in faccia: era rapato a zero, aveva una cicatrice sullo zigomo che arrivava fino a metà guancia, e indossava un maglione a dolcevita nero.
Oh. Cazzo.
Il sussurro del Moro gli arrivò alle spalle come una coltellata a tradimento.
«JD Solo Un Amico, non hai la minima idea del casino in cui ti sei ficcato».







________________







Note autore (che non saranno sempre così lunghe, ve lo prometto):
Questa storia ha una storia travagliata.
Inizialmente era stata pensata come oneshot-fanfiction, un regalo di compleanno per Fila. Essendo state vietate le fanfiction nel fandom di riferimento, sono stata costretta a trasformarla in un'originale (chi ha letto i libri in questione riconoscerà sicuramente i personaggi "originari", soprattutto quelli dei prossimi capitoli). Solo che come racconto originale autoconclusivo non aveva molto senso, così avevo pensato “Scriverò una seconda parte!”.
Peccato che, trascorso un anno dalla pubblicazione della prima parte, della seconda parte non se ne vedeva ancora traccia.
A salvarmi la faccia è stata l’iniziativa NaNoWriMo for Dummies: sfida di scrittura!, indetta a dicembre da jakefan su Facebook: si tratta di una variante delll’originale NaNoWriMo, in cui i partecipanti dovevano autosfidarsi a scrivere una storia di almeno 40000 parole. Ebbene, ho colto la palla al balzo e per un mese non ho fatto altro che scrivere.
Rovi & Rosi versione 3.0 è conclusa, non aspetta altro che essere pubblicata. L’ho trasformata in una long di dieci capitoli, che verrà pubblicata con aggiornamenti settimanali, ogni lunedì.
Piccole info prima dei ringraziamenti: Williamsburg e Greenpoint sono quartieri di Brooklyn, New York; Greenpoint viene spesso chiamato Little Poland, per la sua folta comunità polacca.
Ringrazio mille mila volte jakefan, perché con la sua piccola iniziativa e i suoi consigli mi ha spronato a riprendere in mano questa storia, e tutte le ragazze che hanno partecipato insieme a me all’iniziativa, perché hanno fatto il tifo per me (ed io per loro).
Un ringraziamento particolare va a Dragana, che con enorme pazienza ha seguito giorno per giorno (e non per modo di dire) la stesura della storia, e a OttoNoveTre, che si è assunta l’onore di leggere per prima la storia conclusa.
Ovviamente ringrazio tutti quelli che, nonostante sia passato ormai quasi un anno e mezzo, sono ancora qui a seguire questa storia.
Il secondo capitolo verrà pubblicato lunedì prossimo. Se volete ingannare l’attesa e conoscere i trascorsi di JD e Darla, potete leggere Pavoni & Giarrettiere: si tratta di un prequel di Rovi & Rose, ma si regge benissimo da solo come racconto. Se poi ritenete di non essere ancora sazi, vi consiglio Pornoromantico di Dragana: è uno spin-off di Pavoni & Giarrettiere, che Dragana mi ha regalato per il compleanno e che io adoro alla follia.
Grazie ancora a tutti.
A tra una settimana.
   
 
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