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Autore: Evanne991    05/02/2014    2 recensioni
Dal testo, Cap. VI:
"La scusa del non ho dormito stanotte funziona sempre. Sono triste. Non ho dormito stanotte. Sono arrabbiata. Non ho dormito stanotte. Sono delusa. Non ho dormito stanotte. Non voglio parlarne. Non ho dormito stanotte."
Cap.X:
"Stai solo prolungando l’attesa, e non sempre l’attesa è alimento di desiderio: a volte lascia esausti. Non tutti sanno aspettare. Tu per prima." [...] "Ha una bella bocca. Delle belle labbra. Un bel sorriso. Dei begli occhi. E riconosco il suo odore. Come se l’avessi sempre sentito. Come se l’avessi nascosto da qualche parte in me, e lo riscoprissi ogni volta che mi sta di fronte."
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo Primo –
 
Come ogni mattina, da circa tre anni, arrivo in anticipo in ufficio. Sono le 08:15 ed ho tutto il tempo di fare una colazione tranquilla al bar all’angolo. So benissimo che ogni giorno arriverò sempre  prima di John, il nostro San Pietro possessore delle chiavi, eppure il mio essere tremendamente ansiosa mi porta a svegliarmi alle 06:00 tutti i giorni, prepararmi con calma, perdere anche tempo a leggere il giornale ma poi correre ad imbottigliarmi nel traffico senza fare colazione, con la paura di arrivare in ritardo. Odio fare ritardo, odio i ritardatari. E lo ammetto: amo il cappuccino con tanta schiuma e la brioche calda con mela che Tina, la proprietaria del mio bar preferito, prepara ogni mattina con cura. Quindi, il mio essere ansiosa e sempre in anticipo giova al mio umore ed alla cassa del bar.
Non la pensano così Leeve e Giselle, le mie più care amiche, nonché colleghe. Loro arrivano sempre intorno alle 09:00, quando io sono ormai alla lettura del terzo oroscopo diverso (così da scegliere quello che mi piace di più – io non mi lascio mica condizionare dall’astrologia, eh, son tutte baggianate!), quando inizio a fremere dal terrore di arrivare in ritardo in ufficio (che si trova esattamente di fronte al bar) e quando il mio stomaco reclama un’altra brioche.
Entro al Sitting, come al solito c’è poca gente, qualche impiegato e uomini in giacca e cravatta, qualche segretaria dagli occhiali grandi e la faccia da frigide inviperite.
Come potete capire, non ho molta simpatia per le segretarie: insomma, ma le avete viste? Hanno sempre l’aria infastidita di chi ti sta facendo un favore a condividere l’ossigeno con te, e camminano con l’aria di chi ha un palo ficcato su per… insomma, avete capito.
Eseguo la mia passerella diretta al bancone, da dove Tina sta già salutandomi. Mi avvicino alla donna sorridendo. In questi anni mi sono davvero affezionata a lei, è un po’ una mamma per una che come me ha la sua lontana chilometri, è sempre gentile, garbata, premurosa e sa esattamente come prendermi. Quella brioche, ad esempio.
-Buongiorno tesoro, ti aspettavo! – mi dice con la sua voce rauca da fumatrice incallita.
-Buongiorno Tina! Il solito, se non ti spiace!
-Mai, tesoro, è un piacere! – mi fa l’occhiolino ed io giro sui tacchi per sedermi al mio tavolo, vicino alla vetrata da cui posso osservare tutto quello che avviene per strada.
Un momento. Quello è il mio tavolino, cosa diavolo ci fa un tizio seduto comodamente a bere un caffè ed a leggere il giornale?
Ok, io sono abitudinaria. E un po’ fissata, lo ammetto. Non cambio mai nulla. Sempre stessi posti da frequentare, sempre stesso profumo, sempre stesso colore di capelli (sì, anche perché sono rossa naturale ed è bellissimo il mio colore: spero che nel momento  in cui scoverò il primo capello bianco le industrie cosmetiche inventino – abbastanza in fretta, anche -  una tinta camaleontica per il colore naturale della donna in questione, cioè io, altrimenti non saprei davvero cosa fare!). Ecco, diciamo che sono poco propensa al cambiamento, e mi innervosisco parecchio quando sono costretta a vedere un piccolo tassello del puzzle della mia vita fuori posto. Mi avvicino all’uomo, cercando di mantenere la calma e provando ad essere più diplomatica possibile (Alza il culo, stronzo, quello è il mio posto!) dò un leggero colpo di tosse per attirare la sua attenzione.
Beh, forse era troppo leggero. L’uomo non mi degna di uno sguardo. Riprovo, ma lui impassibile sfoglia le pagine del giornale. Pure un sordo doveva capitarmi, stamane. Tra poco Tina mi porterà la mia colazione e quel tizio deve sparire.
-Mi scusi? – dico. Sì, avete ragione, il mio tono è palesemente infastidito ed un po’ troppo acuto. Sembro quasi una segretaria.
Lui finalmente mi guarda. Non mi dice neanche “Prego, signorina, mi dica!”. È proprio un cafone. Attende che parli. Che idiota.
-Non vorrei disturbarla, sa, ma quello è il mio posto. Gentilmente…-  gli faccio cenno con la mano di accomodarsi lontano da me e dal mio tavolo. Lui continua a guardarmi come se non capisse la gravità della situazione.
-A dire il vero, signorina, pur non essendo nelle sue intenzioni, mi sta disturbando: non vede che sto leggendo il giornale? Vada  sedersi ad un altro tavolo.
Ehi. Un attimo. L’ho sognato. Vero? Lo stronzo non ha parlato. Non mi ha liquidata e non sta leggendo nuovamente il giornale lasciandomi imbambolata. Ok. Non ha capito nulla, lo stronzo. Quello è il mio posto, e lui deve andarsene, possibilmente a quel paese.
-No, senta, non ha capito quello che sto cercando di dirle – riprovo. Lui si volta nuovamente verso di me ed alza un sopracciglio. Io lo fisso direttamente negli occhi. Così ti voglio, cazzuta, non interrompere il contatto visivo e dimostra allo stronzo che hai le palle, donna!
-Lei deve accomodarsi ad un altro tavolo perché sta occupando il mio e non è carino da parte sua, soprattutto perché – e qui rabbrividisco – mi sta portando a fare tardi per il lavoro, e potrei davvero diventare poco piacevole ed educata.
Se è possibile, lui alza ancor di più il sopracciglio.
-C’è scritto il suo nome su questo tavolo?
-Come, scusi? – è ridicolo. Trova scuse ridicole per non farmi sedere. Che stronzo.
-Senta, signorina, mi sta infastidendo, vada ad occupare un altro tavolo.
L’ho già detto che è uno stronzo? Mi sento come se mi avesse preso a schiaffi. E ritorna ad ignorarmi. Di nuovo. Legge il giornale. Ma che razza di stronzo immane! Sono tentata a sbattergli la faccia sulla pagina dei necrologi, quando una voce familiare attira la mia attenzione.
-Si può sapere cosa diavolo ci fai in piedi con quest’espressione da ebete invece di aver già fatto colazione ed aggredirci perché secondo te siamo in ritardo?
Giselle mi guarda con la stessa espressione di poco fa dello stronzo. Leeve fa una smorfia verso di lui. Grazie amica mia.
Sposto gli occhi da Leeve a Giselle allo stronzo. Poi Tina mi passa accanto con un vassoio.
-Tesoro, Leeve e Giselle hanno ordinato, vi accomodate qui.
Non me lo ha chiesto. Me lo ha ordinato. Stiamo scherzando? Non dicevo, poco fa, che Tina era come una mamma? Sono un’orfana.
Guardo con stizza Tina, che mi ignora, anche lei. Che diamine! Senza rendermene conto batto i piedi e mi volto sbuffando come una bambina. Lo stronzo, impassibile, piega il giornale per leggere meglio un trafiletto sportivo.
Sì, occhio di lince, esatto. Mi siedo accanto a Leeve e continuo a fissare rabbiosa lo stronzo. Tina ci serve e sghignazzando ritorna al bancone. Da domani cambio bar (smettetela, so benissimo che avete riso di me!)
Porto la tazza di cappuccino alle labbra, mentre Giselle racconta animatamente a Leeve (e credo anche a me) della cena di ieri sera con il suo ex fidanzato del liceo (“Voglio dire, ricorda ancora che adoro il tartufo e la cannella, ha organizzato tutto nei minimi dettagli! Sono certa sia ancora innamorato di me!”) e…
-Cristo! – esclamo. Forse con un po’ troppa enfasi. Praticamente ho gridato. Le mie amiche mi guardano come se si fossero accorte solo ora che sono seduta con loro.
-Si può sapere cosa diavolo ti prende? – mi dice Giselle scandendo bene le parole, quasi avessi qualche disturbo all’udito.
Mi asciugo la bocca continuando a bestemmiare in aramaico nella mia mente, e bofonchiando dico loro che mi sono ustionata la lingua con il cappuccino.
Sento troppi occhi puntati addosso, ed infatti molti clienti mi stanno guardando. Sì, la mia boccuccia a cuore ha appena invocato Nostro Signore, che problemi avete?
È colpa dello stronzo. Se lui non avesse occupato il mio posto, io non mi sarei innervosita, non avrei bevuto senza pensare, con la paura di arrivare in ritardo in ufficio, non avrei dato spettacolo della mia poca femminilità religiosa ed ora non starei arrossendo perché mezzo bar mi osserva tamponare la lingua con questi tovagliolini inutili. Sono inutili.
Alla radio passa una canzone che mi piace moltissimo, e me ne accorgo solo ora. O meglio, me ne accorgo quando, pensando ad un'altra possibile lingua in cui imprecare, incrocio lo sguardo dello stronzo che mi guarda divertito e con un ghigno stampato su quella faccia da schiaffi, e canticchia:
-How am I gonna be an optimist about this?
Che stronzo di dimensioni epiche! Credo di aver assunto un’espressione davvero incarognita. Afferro la mia borsa, lascio delle banconote sul tavolo e:
-Vi aspetto in ufficio. – dico teatralmente alle ragazze.
 
***

In bagno controllo la mia figura. Sembra tutto ok, a parte che ho gli occhi infuocati di rabbia ed una piccola vena pulsa sulla tempia. Basterà nasconderla con i capelli. Oggi indosso il mio completo migliore. Sono professionale.
Ho ventiquattro anni, mi sono laureata l’anno scorso in Sociologia e subito sono stata assunta in questa compagnia pubblicitaria, come copyrighter. Avete presente le pubblicità su internet? Gli slogan? I siti di grandi aziende? Ecco, io faccio esattamente questo. Faccio credere alla gente che quello che propongo loro è assolutamente indispensabile ed innovativo. Inizialmente pensavo che i miei studi universitari sarebbero stati sprecati (sì, fatemi passare il termine) per fare la nerd (mi immaginavo così, credetemi!), invece è interessante a livello sociologico studiare le dinamiche di mercato e come gli individui si facciano soggiogare da parole bene articolate ed immagini coerenti tra loro. Dove starà la novità, potreste chiedermi: beh, è divertente fare tutto questo al computer, fare la copyrighter è assolutamente divertente. Certo, si ha a che fare con clienti idioti, a volte, pressanti, ma è gratificante vedere che noi sappiamo esattamente convincere le persone: è diverso dalle televisioni, dalle radio, internet ormai lo usiamo senza neanche accorgercene, e senza neanche accorgercene diventiamo pedine del sistema e compriamo esattamente quello che ci viene detto di comprare.
Comunque, dicevo: oggi sono più agitata degli altri giorni, perché oggi avremo una riunione importante con il nuovo amministratore delegato, che avrà un ufficio personale proprio nella nostra sede. Si dice sia un genio, uno tosto, e sono sicura che sarà importante ma difficile lavorare con e per lui. Proprio per questa ragione ho intenzione di dimostrare fin da subito le mie capacità e la mia preparazione.
Indosso un tailleur nero, con una camicia giallo chiaro e delle bellissime scarpe col tacco anch’esse gialle. Sì, seria e professione, ma sono una creativa, che diamine! I miei capelli sono raccolti in uno chignon rigoroso, e sto sistemando qualche ciuffo affinché possa nascondere la famosa vena sulla tempia.
La porta della toilette si apre e Giselle entra ancheggiando.
-Ah, sei qui! Sono così elettrizzata all’idea di conoscere il capo! Ma che, lo dobbiamo chiamare capo o Mister… Come si chiama?
Leeve la segue e chiude la porta, e passa a me ed all’altra due mascara diversi.
-Mr. Gregory Barker, classe 1973, laureato in Informatica con un master in Marketing e Comunicazione, single.
Guardo la mia amica facendo una smorfia.
-Il codice fiscale non lo sai?
Lei sbuffa. Sistema alla bell’e meglio i capelli ricci e scuri. Leeve ha padre inglese e madre ghanese, ed ha ereditato dalla madre tutta la fisicità delle donne africane. È molto bella, al liceo è stata più volta reginetta del ballo. Indossa un tubino bianco, che le sta divinamente, dato il colore della sua pelle ed il fisico eccezionale. Giselle schiocca le labbra dopo aver ripassato più volte il rossetto scuro, ammicca alla sua figura allo specchio. Lei ha corti capelli neri, la pelle diafana e gli zigomi pronunciati. Gli occhi azzurri e la bocca grande e carnosa. Indossa dei pantaloni neri ed una giacca dello stesso colore. Conoscendola sotto ha solo il reggiseno. Così agghindate, truccate, impazienti, io, Leeve Kemp e Giselle Powell ci dirigiamo verso la sala riunioni, in cui i nostri colleghi ovviamente ancora non hanno messo piede. Come mio solito, sono in anticipo, ed ho trascinato con me le mie amiche.
-Piuttosto – esordisce dal nulla Giselle – quell’uomo al bar?
Ecco. Lo sapevo. Avevo per un attimo messo da parte l’inconveniente della mattinata e Gis me lo ricorda. Succede sempre così: ha un talento eccezionale nel ricordami cose che preferirei far sparire nel dimenticatoio. Leeve ride e mi prede in giro, dicendo che ho dato prova di essere una maniaca ossessionata dall’abitudine. Faccio finta di non ascoltarle, fino a quando sento (per caso, eh) Giselle affermare:
-L’abbiamo visto come lo hai guardato dopo la bestemmia pubblica. Sei persino arrossita.
Mi volto verso di lei.
-Ma non farmi ridere. Guardato come? Era pure vecchio, aveva i capelli bianchi, potrebbe essere mio padre! – dico con tutto il veleno che ho in corpo.
-Veramente era castano, brizzolato, ed era affascinante! – sospira quell’altra idiota di Leeve.
Sono le mie migliori amiche, ci terrei a precisarlo.
Vorrei ribattere, ma finalmente e per fortuna i miei colleghi entrano in sala, in modo ordinato, contrariamente al solito.
-Oh, per favore! – sussurro. Immagino che Mr.Barker sia arrivato, ed ora tutti fingono di essere disciplinati e senza macchia né peccato alcuno. Le mie amiche prendono posto di fronte a me ed io, designata alle presentazioni ed alla discussione iniziale della riunione, mi schiarisco la voce, prima di vedere entrare il capo… no, il boss… va beh, Mr.Barker.
Indossa una giacca grigio chiaro, dei jeans e delle sneakers. E tutto il personale dell’ufficio è agghindato a festa. Ottimo. Ma non è questo che mi fa pietrificare.
Ha i capelli castano chiaro brizzolati, un sorriso perfetto, labbra carnose, è molto alto (ok, sono io ad essere bassa) e l’espressione di uno superiore al mondo.
-Salve a tutti, perdonate il ritardo! – dice allegro, ma dando l’idea che probabilmente avrebbe linciato chi mai avesse potuto aver da ridire sul suo ritardo.
Si avvicina a me, tendendo la mano, con un ghigno malefico.
-Immagino lei sia Denise Clark. – mi dice non distogliendo lo sguardo da me.
Lo guardo immobile. Brutto stronzo di merda!
-Mi stringe la mano o preferisce chiamare Cristo come prima al bar, Mrs.Clark?
 
Note della (pseudo) autrice:
Sono tornata! Sapevo che non avrei resistito a lungo senza scrivere, e quindi eccomi qui, con una nuova storia. Stavolta cercherò di essere meno melodrammatica possibile, ed infatti ho optato per una commedia romantica che, diversamente dalle altre storie, aggiornerò a cadenza settimanale.
La canzone a cui faccio riferimento, nel testo, è Pompeii, dei Bastille. Grazie a Kahlua che mi ha fatto notare l'incongruenza del codice fiscale. In Inghilterra è usato il NIN (National Insurance Number), fatemi passare la battuta perchè presto vedrete che Denise non è inglese inglese ;) Altro particolare: D. è stata assunta subito dopo la laurea, un ann o prima della storia, ma già da tre anni "lavorava" in ufficio, diciamo che si è fatta le ossa.
Che dire? Niente, non dico niente, spero solo che già questo primo capitolo vi possa piacere e che seguirete la storia!
Come sempre, linciatemi o sorridetemi! Recensite!
Baciotti, Evanne.
 
 
 
  
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