Anime & Manga > Naruto
Ricorda la storia  |      
Autore: Jooles    10/02/2014    1 recensioni
Itachi nasce con un cuore di ghiaccio. Letteralmente.
Ma poi arriva Sasuke e la vita, che fino a quel momento era stata in bianco e nero, inizia a prendere i colori delle emozioni.
[ItachiSasuke brothership]
Genere: Fluff, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fugaku Uchiha, Itachi, Mikoto Uchiha, Sasuke Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Two brothers- di luci, ma anche di ombre'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Avvertimento!
Questa volta spendo due paroline prima di iniziare la lettura (si spera *-*). Questa fic prendetela per quello che è. Vi avverto, è abbastanza nonsense. Spero, nonostante la situazione, che Itachi rimanga IC. In caso cotrario sentitevi liberi di dirmelo e aggiungerò l'OOC tra le note.

La storia ha partecipato al contest "La saggezza dei Romani" di stella98f che è poi stato annullato per mancanza di partecipanti. 












 
Il bucato quando fuori piove


 
 

 
[La brutta giornata più bella]

Non era una classica giornata di settembre, quella. Il sole c’era, ed era anche bello alto, eppure non scaldava come avrebbe dovuto. Faceva anzi alquanto freddino per essere la fine dell’estate.
Mikoto se ne accorse quando uscì di casa per andare a raccogliere i panni stesi al sole. Quella mattina non si sentiva in piena forma e aveva pregato Fugaku affinché andasse dalla moglie di suo fratello a ritirare delle stoffe che aveva ordinato al loro negozio. In effetti, lo aveva pregato con così tanto ardore che Fugaku si era visto costretto a dover eseguire solamente perché non era carino far girovagare una donna influenzata, o quello che era.
I panni erano rimasti sotto il calore e la luce dalle prime luci dell’alba fino a dopo l’ora di pranzo, eppure gli angoli dei pantaloni e i colletti delle magliette erano ancora umidi. Mikoto li tastò insistente per capire quanto fossero asciutti. Le dita rimasero umide e fredde al contatto con le stoffe ancora bagnate, che le lasciarono una sensazione di gelo e fastidio sui polpastrelli. Una gocciolina di sudore freddo le inumidì una tempia e per un attimo si sentì come la maglietta che teneva in mano. Strano sudare in una giornata così poco calda. Davvero molto strano per una donna come Mikoto, che non lasciava trapelare una goccia di sudore nemmeno nelle torride giornate di un’estate inoltrata.
Mikoto si buttò il bucato semi asciutto in spalla e si voltò per tornare dentro. Calpestò i pochi centimetri di erba che la dividevano dalla porta d’ingresso principale, poi alzò un piede alla volta sulle scalette. Uno strano brivido vicino ai reni, un groppo fastidioso in gola e le ginocchia di Mikoto urtarono violentemente contro l’ultimo pannello di legno.
La donna iniziò a pensare che non fosse per niente una bella giornata. Se ne convinse quando vide i panni puliti spalmati per terra.
Era una brutta giornata.
Si rialzò, strofinandosi le ginocchia doloranti e sbattendo all’aria il bucato fino a poco fa lindo. La sensazione di soffocamento alla gola di poco prima la colpì con maggiore intensità e Mikoto lasciò cadere nuovamente gli abiti a terra, questa volta di sua volontà. Dapprima camminò veloce in direzione del bagno, ma un picco di fastidio ancora più nauseabondo che si estendeva dal petto fino alla gola la costrinse a percorrere gli ultimi metri in una corsa quasi forsennata. Girò l’angolo tenendosi con una mano allo stipite della porta per non slittare, poi si gettò a capofitto sul gabinetto.
Tra i conati e le lacrime per lo sforzo, Mikoto pensò nuovamente quanto orribile fosse diventata quella giornata.


«Sono a casa.»
Fugaku lasciò le stoffe all’entrata; se ne sarebbe potuta occupare sua moglie, visto che era stata proprio lei a insistere incessantemente per settimane per avere quella particolare tonalità di rosa pesca per fare le tende della loro camera da letto.
Un ovattato vociferare lo condusse fino in cucina.
«Ciao Uruchi, sono appena stato al negozio.»
La donna appena appellata, una signora paffuta dall’aria molto gentile, sfoderò un sorriso da un orecchio all’altro e gli occhi quasi scomparvero tra l’arcata sopraccigliare e gli zigomi. La moglie di suo fratello era sempre stata una tipa gioviale e allegra, ma il motivo di sua tanta contentezza alla vista del padrone di casa Fugaku non seppe spiegarselo.
«Ehm… tutto bene qui?», domandò, vedendo che la situazione non osava sbloccarsi; Mikoto era inginocchiata, le gambe al sicuro sotto il kotatsu [1] e nascondeva un sorriso imbarazzato.
«Vi lascio soli» improvvisò Uruchi, muovendo i primi passi verso l’uscita dalla cucina.
«Ma no, rimani pure» Mikoto sembrava non volersi staccare dalla sua unica fonte di conforto. Fugaku, dal canto suo, appariva ogni secondo più spiazzato e la situazione lo stava mettendo più in imbarazzo di quanto volesse lasciar trapelare.
«Tesoro», tentò di darsi un contegno poggiando le mani sui fianchi, cercando di convincersi che avesse ancora un briciolo di autorità dentro quella casa. Guardò alternativamente sua moglie, che aveva coperto le labbra dietro una mano come se il suo sorriso potesse tradire in anticipo quello che voleva rivelare, e la cognata, che si sfregava le mani sul grembiule impaziente.
«Avanti cara», sussurrò Uruchi, ondulando i palmi delle mani come a spronarla.
Mikoto annuì e si alzò lentamente dal caldo giaciglio; recuperò terreno avanzando qualche passo verso il marito, accorciando progressivamente le distanze non solo tra loro, ma ogni passo segnava un secondo in meno che la donna aveva per pensare a come formulare la frase; il tempo sarebbe scaduto quando si sarebbe trovata a un palmo dal viso dell’uomo, il cui respiro si faceva gradualmente più intenso e meno regolare.
Mikoto lo guardò e quel suo sorriso si fece sempre più ampio, fin quando le labbra non si toccarono più tra loro e allora la bocca si aprì, la lingua si mosse e il cuore parlò.
«Aspetto un bambino» rivelò, accarezzandosi inconsciamente il ventre.
Fugaku si sarebbe aspettato di tutto, aveva persino pensato che fosse suo fratello a dover diventare presto padre, data la presenza di Uruchi. Perché la possibilità che sua moglie potesse essere incinta non lo aveva sfiorato nemmeno per un nanosecondo?
Un erede. Sperò fosse un maschio. Certo, anche femmina sarebbe andata bene, l’avrebbe amata in egual modo. Forse lo infastidiva già il pensiero che qualcuno un giorno le avrebbe fatto la corte come lui aveva fatto con Mikoto. Un maschio sarebbe stato meno problematico. Avrebbe potuto insegnargli a combattere e sì, perché no, un giorno magari mettere una buona parola per lui e farlo entrare nella Polizia di Konoha. E poi lui, o lei, sarebbe diventato un grande ninja e avrebbe difeso il proprio villaggio. E poi, e forse, e ancora poi…
Ma al diavolo tutto. Per il momento avrebbe solamente goduto della vista di un grande, ingombrante, fragile pancione aggirarsi per casa.
 
 
[Il freddo inconveniente]

Quella mattina Mikoto avrebbe dovuto sostenere da sola l’ecografia. Fugaku l’aveva dovuta liquidare, con grande rammarico del marito, con un frettoloso “Farò il prima possibile”, prima di sparire dietro la porta e correre alla centrale per una chiamata urgente.
Non era il tipo da arrabbiarsi per quelle cose, Mikoto, ed era fiera del suo uomo. Ma se dentro di lei si nascondeva un miracolo di genere femminile, l’avrebbe di certo indirizzata a non sposare il capo della polizia. Mai.
 
Aveva sempre voluto vedere l’ospedale solo con la coda dell’occhio, come se in quel luogo si annidassero solamente mali e gente sfortunata che tentava di curare quegli stessi. Da quando aveva saputo di essere incinta però, mirava quella struttura con un velo di umidità a celarle la vista; ora lo riconosceva come il posto che l’avrebbe aiutata a donare una vita.
 
«Si stenda, signora» il dottore era un uomo sulla quarantina, occhiali dai fondi spessi a incorniciargli la vista.
«È la prima volta… signora Uchiha?», lesse il nome da una cartellina che teneva in mano e che posò sulla scrivania dopo essersi accertato che si trattasse realmente della suddetta paziente.
Mikoto asserì felicemente e, tremante, si stese sul lettino indicatole dal medico.
«Siamo alla…?»
«Diciannovesima settimana», rispose la donna ancora prima di permettere al medico di concludere la frase. Sorrise, con lei anche l’uomo, e sollevò i lembo della maglia scoprendo quel gonfiore appena pronunciato al di sotto del seno. Il gel che le venne spalmato risultò freddo e umidiccio, appiccicaticcio, ma mai sensazione fu più piacevole.
Chissà se anche lui, o lei, poteva percepirlo?
Mikoto rilassò il collo, abbandonando il capo al poggiatesta del lettino. Chiuse gli occhi per un brevissimo istante e non appena l’ «Ecco» del medico le annunciò che lui, o lei, era lì, catapultò lo sguardo sul piccolo schermo alla sua destra.
Lo conosceva per la prima volta. Quel piccolo esserino esisteva davvero, allora. Aveva avuto paura per tutto quel tempo di portare in giro solamente un rigonfiamento vuoto. In quel momento invece aveva ottenuto la conferma del contrario.
«Quella è la testa?» domandò, indicando una protuberanza più grossa delle altre al centro del video schermo.
«Sì, signora. Da quel che vedo il feto si sta sviluppando in maniera del tutto regolare. Il cordone ombelicale sta recando il giusto apporto nutritivo.»
Mikoto strinse tra loro le mani, rimanendo incantata di fronte a quell’immagine che solo ora le sembrava reale.
Guardò il medico e poi chiese, sicura, «Si può già conoscere il sesso?»
Il medico le rivolse un sorriso: certamente tutte le donne gli ponevano prontamente la stessa domanda ogni volta.
«Certo. Ma non mi uccida se le smonto le aspettative, eh, se la prenda con suo marito!», entrambi risero e Mikoto lo rassicurò.
«Non abbiamo preferenze» e istintivamente le venne l’impulso di accarezzare quel suo nascondiglio materno, ricordandosi però che fosse ricoperto di sostanza gelatinosa.
«Bene, allora siamo pronti…» lo sguardo sia del medico che di Mikoto si fissarono per secondi interminabili sul video.
«Congratulazioni, signora,» Mikoto affondò le dita ella gommapiuma del lettino, «qui abbiamo un bel maschietto.»
Lasciò la presa sul morbido materassino, socchiudendo gli occhi e ritrovandosi ad immaginare in un brevissimo flash l’immagine di un ipotetico bambino che scorrazzava per i corridoi di casa inseguito da un attento Fugaku.
«Mio marito penserà già a come potrà stargli la divisa da jounin» scherzò.
«Mi scusi, signora, non l’avevo riconosciuta. Lei è la moglie di Fugaku Uchiha.» Mikoto sorrise al suo indirizzo, ma si accorse solo ora che gli aveva rivolto l’attenzione che l’uomo si vedeva preoccupato, e già da un po’. Mikoto  non vi fece troppo caso; seguì le indicazioni del medico e, ripulita dal gel e riabbassata la maglia, le fu ordinato di attendere fuori. Mikoto afferrò la borsa che aveva adagiato sul divanetto all’entrata dello studio e avvertì che avrebbe aspettato nella sala adiacente, lasciando il dottore con lo sguardo perso di fronte allo schermo ormai spento.
Con un leggero moto di ansia che, lentamente, andava insinuandosi dentro di lei, Mikoto si avviò verso la sala d’attesa.
 
Ci volle una buona mezz’ora. Fugaku era riuscito a raggiungerla e, durante l’attesa, Mikoto aveva potuto annunciargli la lieta notizia, ovvero che la famiglia Uchiha avrebbe avuto un nuovo erede. Ma Fugaku non aveva avuto tempo di esprimersi, perché proprio in quel momento il dottore, affiancato da una donna in camice, aveva richiamato i coniugi Uchiha nello studio medico.
«Sedetevi» li invitò, ma Fugaku rispose che avrebbe preferito rimanere in piedi. Mikoto invece volle seguire l’invito.
«Signor Uchiha, come ho già detto a sua moglie il feto cresce sano e forte, la signora ha potuto individuare lei stessa la testa. Gli arti crescono in proporzione e la colonna vertebrale è perfettamente come dovrebbe essere. Si vede già bene il cervello e-»
«Dottore, mi scusi, ma non ci avrebbe trattenuti qui così a lungo se non ci fosse stato un “ma”» lo interruppe Fugaku, le braccia incrociate al petto.
Il medico serrò le labbra, poi allentò la pressione emanando un piccolo sbuffo.
«Io e la dottoressa Kato[2] ci siamo consultati a lungo e», Mikoto cercò inconsciamente la mano del marito, «entrambi siamo giunti alla stessa… bizzarra… conclusione.»
«Ripeto che il feto si svilupperà e nascerà in ottime condizio-»
«La prego, arrivi al sodo» lo esortò il futuro padre.
Il medico si voltò verso la dottoressa, cercando nel suo sguardo un appoggio; la donna comprese e fece qualche passo avanti per ritrovarsi a pochi centimetri di distanza da quelli che sarebbero presto diventati genitori. Afferrò dalla scrivania dei grossi fogli e Mikoto poté immediatamente riconoscere le stesse immagini di poco prima, questa volta immobili e impresse su carta.
«Ad un’attenta analisi abbiamo potuto riscontrare un’anomalia nel cuore del nascituro», col dito indicò il punto del fotogramma in cui era stato evidenziato il cuore appena formato del bambino.
«Solitamente nelle ecografie non appare di questo colore così compatto. Sembra quasi che si tratti di un oggetto solido. Fosse stato muscoli, sangue e canali, certamente sarebbe apparso semitrasparente come il resto degli organi che vedete qui.»
«Cosa vuol dire?» domandò Mikoto, tanto seria quanto solo in apparenza tranquilla.
«Vuol dire che vi è una malformazione nelle componenti dell’organo che sembrano però uniformarsi completamente al feto, come se non fosse una malattia o altro. Sembra che debba essere così e basta, non vi saranno complicazioni o cose simili.»
«Cioè?», domandò spazientito Fugaku.
La dottoressa si voltò a guardare il medico e, dopo aver ottenuto una specie di consenso segreto trasmesso solo dai loro sguardi, parlò.
«Vostro figlio avrà un cuore di ghiaccio. Letteralmente.»
 
 
[La forza devastante di un sospiro]

Tra i rametti e le foglie di un cespuglio situato ai margini del laghetto di villa Uchiha si stava davvero al fresco. Bada, non all’ombra di un cespuglio, ma dentro il cespuglio. Forse Shisui aveva afferrato al volo il pretesto di doversi nascondere – avevano una missione da compiere, loro – così da poter stare un po’ al fresco. L’estate era arrivata prepotente e il caldo si faceva sentire.
«Codice verde, abbiamo il via libera. Per ora, limitiamoci a motinorare la situazione.»
«Sono quasi sicuro che si dica monitorare, Shisui.» Itachi si sfilò con un gesto tranquillo e calcolato una fogliolina dai capelli.
Shisui fece finta di non sentirlo; afferrò una foglia di dimensioni leggermente più grandi e iniziò a sventolarsi ferocemente, smuovendo il resto delle fronde attorno a lui.
«Non hai caldo?» domandò al cugino.
Itachi mosse lentamente la testa da un lato all’altro. Poi Shisui strabuzzò gli occhi, come se improvvisamente avesse ricordato un dettaglio che non avrebbe dovuto trascurare, e scosse Itachi per le spalle, preoccupato.
«Ma… ma… non è che ti si scioglie e poi muori?», un velo di lacrime aveva iniziato a offuscare la vista dell’aspirante ninja, temendo che una morte sulla sua coscienza avrebbe gravato sulla sua futura e brillante carriera di jonin.
«Non succederà niente di tutto ciò.» Come al solito le parole del cugino erano mirate e prive di emozione; nemmeno per un secondo nei suoi occhi era balenata la preoccupazione per una possibile morte. E se c’era stato un pensiero simile, questo non avrebbe intaccato la sua piattezza.
Shisui amava giocare con il cugino perché lo assecondava in tutto. A Itachi non interessava cosa facevano e non preferiva alcun gioco ad un altro. Si impegnava nel tenersi occupato tutto il tempo a scorrazzare in giro e a bighellonare semplicemente perché era quello che facevano tutti i bambini. Non si lamentava quando Mikoto lo veniva a cercare per farlo tornare a casa all’ora di cena, non faceva capricci per voler rimanere con gli altri bambini ancora un po’. A Itachi non importava non perché fosse una sua decisione: Itachi non era capace di farsi importare qualcosa. Non gli era dato per natura.
«Itachi, tesoro! Shisui! Tua madre vuole che vai a casa!», Mikoto si era affacciata sul patio senza sporgersi nemmeno di un centimetro sotto il sole, pena lo squagliamento.
«Che palle», sbuffò Shisui, rassegnato da tempo al fatto che sarebbe stato inutile tentare di convincere quel palloso del cugino ad opporsi. Si districò dai ramoscelli e si batté le mani sulle spalle e sulle cosce per ripulirsi della polvere e della terra.
«La missione è stata rimandata», Shisui si ostinava ancora ad attenersi al gioco e si congedò dal cugino con un cenno della mano vicino alla fronte, per poi fingere un sigillo che avrebbe dovuto farlo sparire in una nuvola di fumo. Incrociò gli indici e i medi delle mani tra loro, simulò uno scoppio con la bocca e svanì misteriosamente; Itachi fece solo finta di non vederlo allontanarsi di tutta furia, perché in teoria il cugino doveva essere già sparito.
Il bambino, rimasto solo, iniziò a seguire la voce della madre che lo richiamava per la cena. Arrivato all’entrata di casa loro dove Mikoto lo attendeva appoggiata allo stipite della porta con un sorriso di “bentornato”, Itachi salutò la madre e si sedette sulle scalette all’entrata per togliersi le scarpe, come di consueto.
Mikoto osservò il suo bambino con un velo di tristezza negli occhi che non si preoccupò di nascondere di fronte a Itachi: non sarebbe stato in grado di riconoscerlo. La donna si piegò di fronte al giovanotto e si impose di stirare le labbra in un sorriso. Portò una mano sulla testa del figlio e gli scompigliò leggermente la frangetta ricresciuta.
«Ti sei divertito oggi?», gli domandò. Itachi inchiodò il suo sguardo su quello della madre e si limitò a scollare le spalle.
«I bambini fanno solo questo?», chiese Itachi, ma nella sua voce non esisteva curiosità, semplicemente voleva informarsi per capire come doversi comportare.
Mikoto abbassò lo sguardo a terra, la mano ancora salda sulla testa del figlio, le dita tra i suoi capelli fini.
«Ti voglio bene, tesoro» lo sguardo si riallacciò a quello di Itachi, il sorriso si allargò nuovamente. Itachi guardò la madre e annuì solamente.
«Vado a finire di sistemare la tavola, tu vatti a lavare le mani».
 
 
Fugaku rientrò tardi quella notte. Salì di soppiatto le scale, conscio e sicuro che fosse l’unico sveglio così presto di mattina o, se si preferiva, molto tardi di notte. Percorse l’intero corridoio prima di trovare la stanza in fondo a destra e una volta di fronte a lui fece scorrere verso il muro lo shoji[3] semichiuso. 
Le lenzuola del futon si abbassavano e si alzavano delicatamente al ritmo di un respiro regolare, leggiadro. Fugaku occupò il bordo della sua metà del materasso, rimanendo seduto per poggiare sul comodino una catenina d’argento, spogliarsi del distintivo e di tutte le armi che teneva agganciate alla cintura sotto la maglia. Sospirò a fondo e si sfregò le palpebre chiuse tra i ruvidi polpastrelli, distendendosi poi lentamente. Gli sembrò che in quel momento la sua testa non avrebbe potuto adagiarsi su un posto migliore: il cuscino, infatti, sembrava adattarsi perfettamente alla struttura del collo, le morbide piume all’interno della federa accondiscendevano ogni suo movimento. Quello, insieme alla stanchezza che gli stava lentamente divorando le forze, lo avrebbero fatto addormentare in men che non si dica.
Poi, un suono umidiccio al suo fianco.
Probabilmente Mikoto aveva il raffreddore.
Diede le spalle alla moglie, cercando una posizione comoda. Dallo specchio posto proprio di fronte a lui, Fugaku poté scorgere tra gli occhi semichiusi le lenzuola assecondare i movimenti scattanti e rigidi delle spalle di Mikoto.
Fugaku si rigirò, sporse il viso oltre il collo della donna. Alla fievole luce lunare, il viso gentile e angelico della moglie era violentato da delle lacrime che non le si addicevano. Fugaku le passò un braccio attorno alla spalla e la spinse verso di sé, stretta al suo petto. Non disse nulla, sapeva che sarebbe stata lei a parlare per prima.
«Io lo so che ci vuole bene, ne sono convinta. Forse…», si fermò per evitare che il pianto le facesse tremare le parole e che le rendesse dunque incomprensibili.
«… forse», riprese, «deve solo capire come far uscire i sentimenti, come far funzionare…» - esitazione - «… il suo cuore.» La speranza di una madre, per quanto potesse essere debole, non svaniva mai del tutto.
Fugaku sospirò, preparandola già a quello che avrebbe voluto dire. I sospiri dicevano sempre tutto: l’emissione dell’aria era un rigetto. I sospiri, lenti e deboli, altrettanto lentamente e dolorosamente spazzavano via ogni residuo di speranza che rimaneva ancora ancorata.
Mikoto strizzò gli occhi, un’altra ondata di lacrime le bagnò le guance, le ciglia umide si appiccicarono tra loro.
«Ne sono convinta», continuò a ripetere.
Fugaku ebbe solo la forza di sospirare, ancora. «Ora chiudi gli occhi, Mikoto.»
 
Un’ombra oscurò per un millesimo di secondo il shoji chiuso.
Itachi ripercorse il corridoio e tornò nel suo letto.
 
 
«Buongiorno, tesoro», Mikoto accolse calorosamente il figlio con un’abbondante porzione di tamagoyaki[4].
«’Giorno.» Mikoto poté giurare di aver visto l’ombra di un sorriso sul delicato volto di Itachi.
Fugaku comparì in cucina, abbozzando un veloce “Buongiorno” generale. Il suo sguardo si soffermò per qualche attimo in più sul figlio, il cui capo era rivolto verso il suo pasto.
Si era domandato, dopo che Mikoto era riuscita ad addormentarsi la notte scorsa, quanto della conversazione Itachi avesse ascoltato.
«Itachi, anche se sei in vacanza dovresti esercitarti lo stesso con le tecniche. Non vorrai rimanere indietro quando inizia il prossimo anno all’Accademia.»
«Ho già chiesto a Shisui di farmi da compagno.»
«Molto bene.» E il silenzio tornò nuovamente a gravare sulla sala. Fugaku terminò il suo cibo, salutò e si diresse alla stazione di polizia.
Itachi finì la sua frittata e, alzatosi, portò il piatto al lavello dove Mikoto stava lavando le stoviglie sporche.
«Vado ad allenarmi con Shisui.»
Mikoto lasciò un attimo in sospeso il suo lavoro per girarsi verso Itachi che già era sparito dietro il cornicione della porta.
«Fai attenzione, e non stancarti troppo!»
Poi lo sfregare della spugna sui piatti coprì il silenzio.
«Mamma?», Itachi era immobile sotto l’arco che divideva la cucina dal corridoio che portava al resto delle stanze.
«Sì, tesoro?», forse aveva pronunciato quell’ultima frase con più speranza di quanto avesse voluto.
Itachi la guardò per un lungo minuto prima di parlare, con quel suo tono pacato e ponderato che da sempre lo aveva contraddistinto.
«Se avessi potuto vi avrei voluto bene.» E sparì di nuovo, altrettanto silenziosamente così come era riapparso.
Mikoto si strinse le mani al petto e gli occhi le si chiusero per un timido sorriso.
D’altronde, ne era convinta.
 
 
[La malattia dell'insensibilità]

Itachi si trovava disteso sul suo letto, le braccia tese lungo i fianchi, le gambe semi aperte. Faceva caldo, altro che se faceva caldo; il segreto era non muoversi troppo o il sudore sarebbe aumentato e il mal di testa anche. Sul soffitto della cameretta erano appiccicati diversi adesivi che si illuminavano al buio, i quali disegnavano piccoli ventagli luminosi come una sorta di strana costellazione in miniatura. Itachi rimase a fissarli e si domandò come dovesse essere provare – qual era la parola esatta? – stupore di fronte all’immensità del cielo notturno.
In effetti, Itachi si domandava come dovesse essere provare, in generale, dei sentimenti. Vedeva bambini piangere per una ferita o per i rimproveri dei parenti; aveva sentito sua madre singhiozzare nella sua stanza di notte quando era sicura che nessuno l’ascoltasse tante di quelle volte che Itachi si chiese allora perché i suoi genitori fossero tristi del fatto che lui fosse privo di emozioni.
Non soffriva, non pativa alcuna pena. Allora perché non erano felici per lui? Se tutti fossero stati come lui non ci sarebbero stati problemi, non si sarebbero provate invidie, dolori, gelosie.
Eppure era lui che additavano come “malato”.
 
Mikoto aveva paura, ne aveva molta. Il terrore le era dato anche dal modo con cui avrebbe dovuto dirlo al marito. Non era facile accettare quella situazione: e se tutto fosse andato storto come la prima volta? Che cosa avrebbero dovuto fare?
Già i membri della famiglia Uchiha li guardavano con timore e Mikoto poteva immaginare cosa dicevano quando credevano che non li sentisse.
Si sedette sull’angolo più remoto del letto dalla parte dove dormiva Fugaku. Si guardò allo specchio e ricordò di come anni prima si era ritrovata in quella stessa posizione, con un sorriso che le sfiorava quasi le orecchie mentre si coccolava il ventre ancora piatto.
Ora quell’immagine era sostituita da una Mikoto con le occhiaia; una Mikoto tristemente felice, dato che la sua fonte di gioia più grande, suo figlio Itachi, aveva quel piccolissimo quanto enorme difetto.
Gli Uchiha non tolleravano le imperfezioni, ma non erano loro a preoccupare la donna. Chi sarebbe diventato Itachi una volta cresciuto? Uno spietato assassino che non avrebbe guardato in faccia a nessuno?
Mikoto era costantemente terrorizzata dal fatto che Itachi potesse compiere qualche gesto dannoso prima di tutto per lui stesso. Se si fosse macchiato di crimini orribili, non avrebbe potuto nemmeno incolparlo. Fugaku lo avrebbe ripudiato nonostante la situazione e lei si sarebbe limitata a piangere un figlio morto ancor prima che lo fosse davvero.
Itachi era la loro gioia più grande, ma più tempo trascorreva, maggiori erano i pericoli a cui la società, ingrata e insensibile, lo sottoponeva. Magari si sarebbero serviti della sua mancanza di emozioni proprio per forgiare uno spietato assassino al servizio di Konoha.
Ma ora Mikoto aveva un altro problema con cui fare i conti.
 
«Sei già a letto?», domandò Fugaku, entrando silenziosamente nella camera.
Mikoto lo guardò e negò con un cenno della testa.
«Perché allora sei al buio?», spinse l’interruttore e la stanza si illuminò.
«Fugaku», lo chiamò la moglie.
L’uomo si voltò a guardarla e rivide negli occhi della moglie la stessa espressione che le aveva visto quasi sei anni prima nella stanza del medico. Allarmato, si andò a sedere vicino a lei.
«È per Itachi?».
Mikoto scosse la testa negativamente e Fugaku inarcò allora le sopracciglia. La donna si portò una mano all’altezza dell’ombelico e guardò il marito con un’espressione del tutto nuova: Fugaku poté scorgervi eccitazione e tristezza e non era sicuro che fosse una cosa del tutto possibile.
Mikoto gli afferrò una mano e se la portò al grembo, abbassando lo sguardo per poter nascondere un fugace velo di lacrime.
Fugaku sgranò gli occhi, portò delicatamente una mano dietro la nuca della donna e la spinse a sé. Mikoto si nascose nell’incavo del suo collo e per un attimo si sentì protetta.
«Faremo tutti gli accertamenti» la rassicurò Fugaku.
«Non è detto che debba succedere di nuovo» aggiunse.
Mikoto annuì solamente e si nascose ancora di più dietro il volto di Fugaku, evitando di guardare la sua immagine allo specchio.
 
 
[Parole di convenienza]

 Mikoto non avrebbe mai pensato che quello potesse essere il secondo giorno più bello della sua vita. Nel tragitto dall’ospedale alla villa non aveva fatto altro che tempestare Fugaku con le sue dolci chiacchiere e il marito non poté che ascoltarla, nascondendo parzialmente la sua contentezza, cosa che voleva riservare solo a lei.
Arrivati all’entrata della villa, Mikoto accelerò il passo e una volta nell’atrio fece in fretta a togliersi le scarpe. Il suo primo pensiero una volta avuta la bella notizia era corso a suo figlio, sentendosi più bambina di quanto non lo fosse Itachi.
Era tutto a posto, ora potevano dirglielo.
Fugaku la guardò salire le scale e sorrise abbandonando le cartelle cliniche sul mobile all’entrata. Si diresse in cucina e cercò dell’acqua nel frigorifero, traendo lunghi sorsi direttamente dalla bottiglia. Poi, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno lo avesse visto, rimise la bottiglia al suo posto.
Doveva essere davvero felice se si concedeva quelle piccole sconsideratezze.
Due minuti dopo sentì i passi della sua famiglia per le scale. Si sedette al tavolo e attese di vederli varcare la soglia. Itachi fu il primo ad apparire, seguito da una Mikoto che lo osservava complice dall’altro lato della stanza. Itachi si sedette vicino al padre, sua madre di fronte a lui.
«Cosa è successo?» domandò Itachi.
I due sposi si guardarono e Fugaku socchiuse gli occhi, segno che voleva lasciare alla moglie tutto l’onore.
«Tesoro, abbiamo una bellissima notizia da darti.»
Itachi attese, volgendo lo sguardo al padre per trovare conferma che si trattasse di una lieta notizia. Non vedendo segni di vene pulsanti sulla sua fronte, convenne che doveva trattarsi davvero di una situazione positiva. Tornò a guardare la madre.
«Dimmi, mamma» la esortò.
Mikoto sorrise e non fece giri di parole.
«Presto avrai un fratellino.»
Itachi si ritrovò a far scorrere gli occhi tra i due genitori, ponderando bene la situazione. Quando vide che nessuno dei due accennava a cambiare umore o a dirgli che si trattava di uno scherzo, disse quello che secondo lui sarebbe convenuto al momento.
«È una cosa bella, mamma… papà.»
Mikoto si alzò e schioccò un bacio sulla sua fronte.
 
 
[Ciao, Sasuke!]

«Itachi, vieni!», Mikoto lo chiamava dalla stanza accanto.
Aveva visto i genitori tornare dall’ospedale solo pochi giorni prima e, contrariamente al solito, c’era qualcosa, qualcuno, di nuovo con loro. Dalla finestra era riuscito vedere qualcosa dimenarsi tra le braccia della madre e una volta dentro casa aveva potuto anche udirla.
Non si stupì del fatto che un esserino così piccolo potesse emettere degli acuti così fastidiosi, ma se il suo cuore glielo avesse permesso di certo ne sarebbe rimasto meravigliato. L’essere urlante portava il nome di Sasuke ed era colui che non lo avrebbe fatto dormire per un bel po’ di notti.
Si recò nella stanza che era stata preparata ad accogliere il nuovo arrivato: in ogni angolo c’erano ancora i pacchetti scartati dei regali ricevuti dai parenti, tutine, pannolini, giocattoli vari.
Itachi scansò un set di paperelle per il bagnetto e si sedette sul tappeto vicino alla madre.
«Vuoi tenerlo in braccio?»
Sasuke aveva ancora il volto rigato dall’ultimo pianto, le manine rosse perché per tutto il tempo si era tirato la magliettina, irritato.
«Come si fa?» domandò Itachi. Mikoto gli fece allargare le braccia, poi gli affidò il fratello.
Itachi osservò ogni minimo dettaglio di quel fagottino che teneva tra le braccia, e non poté fare a meno di pensare che un giorno anche lui era stato così.
«Ancora non può vederti, ci vorrà un po’ prima che la vista si affini», gli insegnò Mikoto.
Sasuke muoveva le mani in alto, come a voler afferrare qualcosa che sarebbe stato però irraggiungibile. Poi dalle sue labbra uscì una bollicina di saliva ed emise un suono strano, molto simile ad un risolino.
«Ehi, forse ti ha riconosciuto», sorrise Mikoto.
Itachi guardò la madre: gli occhi semichiusi, le labbra rilassate in un largo sorriso. Era quella la felicità?
Itachi allora volle provarci. Guardò il fratellino e gli portò una mano davanti al visino, sventolandola lentamente.
«Ciao, Sasuke».
Poi le sua labbra si distesero e Mikoto rimase meravigliata: si augurò che la prima cosa che Sasuke avrebbe visto sarebbe stato quel timido e incerto sorriso del fratello maggiore.
 
[Ci penso io]

«Fratellone!»
«Mh», Itachi emise una sorta di grugnito.
«Che ci fai sveglio a quest’ora della notte, Sasuke?»
Sasuke si guardò attorno incerto, come se temesse di essere seguito da qualcuno. In realtà ora aveva paura che Fugaku lo ritrovasse nuovamente a girovagare per i corridoi della villa in piena notte e che lo sgridasse.
«Posso mettermi sotto le coperte con te?» domandò titubante.
Itachi annuì e alzò le lenzuola per coprire il fratellino.
«Notte», lo liquidò subito Itachi.
Sasuke rimase a guardarlo per un po’. Rimase per qualche attimo incerto sul da farsi: quello che Itachi non sapeva era che lui sapeva.
Si era lamentato con i genitori di quanto Itachi delle volte fosse davvero insensibile nei suoi confronti. A quelle parole, l’espressione di Mikoto si era rattristita e Sasuke aveva creduto che allora lui non fosse l’unico ad essere trattato così dal fratello. Fugaku aveva sussurrato alla moglie che Sasuke era ormai abbastanza grande per saperlo, così il bambino aveva iniziato a tormentarli per sapere ciò di cui fin’ora era rimasto all’oscurità.
Sasuke era rimasto un po’ perplesso alle parole dei genitori. Ora osservava il volto del fratellone, così calmo e tranquillo, gli occhi chiusi e il petto che si muoveva regolarmente in un respiro pacato dato dal sonno.
Per niente sicuro di quello che stava per fare, Sasuke si avvicinò con il volto a quello di Itachi e gli sventolò una mano di fronte alle palpebre chiuse per accertarsi che dormisse. Poi portò un orecchio sopra il naso del fratello, assicurandosi che respirasse lentamente, segno che riposava.
Scansò dunque un po’ le coperte per avvicinarsi a lui quanto più poté. Trasalì quando Itachi si mosse, portando il braccio sinistro sopra la testa. Sasuke si sistemò alla meglio sotto il braccio alzato del maggiore e portò entrambe le mani al suo petto, all’altezza del cuore.
Itachi avvertì il tocco e aprì gli occhi. Sasuke si ritrasse immediatamente, spaventato all’idea di ciò che avrebbe potuto sentirsi dire.
Itachi comprese e sospirò.
«Mamma e papà ti hanno detto tutto, vero?»
Sasuke mise su il suo miglior broncio e iniziò a piagnucolare.
«Io non lo sapevo nii-san e mi sono lamentato con mamma e papà per tutto questo tempo per come mi trattavi.»
Itachi osservò il fratellino e percepì uno strano formicolio nello stesso punto in cui prima erano appoggiate le mani di Sasuke. Si strofinò il petto tentando di allontanare quella sensazione.
«Cosa volevi fare?» domandò poi al più piccolo.
Sasuke nascose il volto sotto le coperte, vergognandosi.
«Ecco, io, Itachi… vedi…». Itachi scansò le coperte e scoprì il volto del fratello.
Sasuke continuò a balbettare per qualche secondo prima di sputare un «Volevo scioglierlo con il calore.»
«Ma non puoi riuscirci così.»
Sasuke tornò a nascondersi sotto le coperte. Itachi alzò lo sguardo verso il soffitto e mirò gli adesivi luccicanti.
«Grazie, otouto.»
Gli era uscito davvero spontaneo.
 
 
[Brillano della stessa luce]

«Sasuke!»
Itachi vide con la coda dell’occhio Mikoto passare davanti camera sua. La donna tornò indietro e si fermò proprio di fronte la sua porta.
«Itachi, hai visto tuo fratello?» domandò.
Itachi inarcò le sopracciglia, poi negò con la testa.
«Non lo trovo da nessuna parte», si preoccupò Mikoto.
«Magari Shisui lo ha rapito come cavia per i suoi allenamenti», ipotizzò.
Mikoto sbuffò preoccupata: conosceva fin troppo bene suo nipote e di sicuro non stava organizzando un tranquillo e placido pic-nic.
Itachi tornò ai suoi compiti, ma qualcosa continuava a distogliergli la mente dai calcoli di traiettoria del lancio di kunai.
“Dove si sarà cacciato?”. Nemmeno Itachi si fidava molto di suo cugino. Poi, improvvisamente, ricordò. Chiuse di scatto i libri e si scapicollò di fuori.
 
Ormai erano cinque minuti che saltava da un ramo all’altro. il bosco al limitare del villaggio era fitto e fresco, perfetto se qualcuno voleva allenarsi in tranquillità senza dover sottostare agli occhi dei curiosi. Dall’altezza in cui si trovava, Itachi poteva benissimo scorgere pochi metri più avanti una piccola radura, in mezzo alla quale giaceva imponente un grosso masso, alto più o meno tre metri.
Un urlo gli fece accelerare la corsa.
Atterrò nello spiazzo con un balzo leggero e arginò il grande ostacolo di pietra. Dall’altra parte, ai suoi piedi, Sasuke era seduto e si tratteneva la caviglia con entrambe le mani. Si spaventò quando vide qualcuno apparire all’improvviso da dietro il masso, ma quando capì che si trattava di Itachi la sua espressione si rilassò un po’.
«Cosa pensavi di fare, fratellino?»
Sasuke lo guardò timoroso: pensò che fosse venuto solo per sgridarlo al posto di mamma o di papà.
Itachi gli si avvicinò e Sasuke non ebbe tempo di spiegarsi poiché fu caricato sulle spalle del fratello maggiore. Guardò il suo nii-san da dietro, poi abbandonò la testa sulla sua spalla.
«Grazie, Itachi.»
«Perché sei voluto venire comunque, ti avevo detto che non avevo tempo per allenarmi con te.»
Sasuke deglutì.
«Volevo farti vedere quanto sono forte.» Itachi seppe quanto gli costò dirgli quelle parole.
«Non devi dimostrarmi niente, Sas’ke.»
Sasuke aprì la bocca, lasciandosi sfuggire un’espressione di felice stupore. Capì che in qualche modo non aveva fatto nulla di male, perciò iniziò a tempestare Itachi di domande sul loro prossimo allenamento, gli riferì tutto ciò che aveva imparato e Itachi ascoltò in silenzio, lasciandolo sfogare fino all’ultima goccia di entusiasmo, finché non giunsero sulla soglia di casa.
Mikoto scese in giardino per accogliere i suoi due figli.
«Sasuke, ma dov’eri?» fece scendere il più piccolo dalle spalle del maggiore e quando Sasuke toccò terra, Mikoto vide che zoppicava.
«Quante volte te lo devo dire, Sasuke, che non devi fare niente di pericoloso?», Mikoto si portò le mani ai fianchi e Sasuke capì che fosse arrabbiata. Piegò la testa verso il basso, tenendo lo sguardo fisso sui suoi piedi.
«Volevo allenarmi» e gli sembrò una scusa plausibile. Come avrebbe potuto sua madre non capire?
Mikoto, storse le labbra in una smorfia di disapprovazione, poi lasciò cadere morbide le braccia.
«Avanti, vatti a fare una doccia, poi vediamo che ti sei fatto.» Si avvicinò al suo bambino ribelle e gli lasciò l’impronta di un leggero bacio sulla fronte.
 
Itachi sapeva bene che lasciar fare il bagno a Sasuke da solo avrebbe significato ritrovare un’alluvione di dimensioni catastrofiche una volta che questi avesse terminato di lavarsi. Bussò alla porta e Sasuke riuscì a sentire e a chiedere chi fosse, nonostante il rumore degli schizzi riusciva a coprire qualsiasi altra cosa.
«Sono io, posso entrare?», domandò Itachi.
Sasuke acconsentì e così quello entrò. Dovette appoggiare bene i piedi ad ogni passo che faceva, altrimenti sarebbe scivolato dolorosamente sul pavimento.
«Guarda che hai combinato», disse al fratellino, mostrando con un cenno della mano l’inondazione ai suoi piedi.
Sasuke scrollò le spalle e continuò a tuffarsi e a riemergere dalla vasca, simulando dei sonori “Splash!” ogni qualvolta si immergeva. Itachi afferrò uno sgabello al lato del lavandino e lo sistemò di fronte alla vasca da bagno, sedendosi.
«Come va la caviglia?» domandò.
Sasuke alzò il piede fuori dall’acqua, fece roteare la caviglia così che Itachi potesse vedere da solo che non si trattava di nulla di grave.
«Bene», rispose Sasuke.
Itachi guardò il fratello e un formicolio per niente fastidioso iniziò ad allargarsi nel petto. Cos’era quella sensazione? Ricordava di averla percepita anche prima, quando si era ricordato che Sasuke gli aveva chiesto di allenarsi e che quindi molto probabilmente si era recato nel bosco da solo. Che cosa era successo in quel momento? Aveva pensato che Sasuke avrebbe potuto farsi del male.
Aveva forse provato preoccupazione?
Lo vide lì, che si divertiva nell’acqua. “Perché non provarci?”, pensò.
Si guardò attorno, vide una saponetta sul bordo della vasca. L’afferrò e la intinse nell’acqua calda, poi iniziò a sfregarsela tra le mani. Sasuke aveva cessato il suo gioco e lo stava fissando, la testa piegata di lato, incuriosito.
Itachi intanto continuava a sfregarsi il sapone tra le mani e la schiuma si faceva sempre più voluminosa. D’un tratto, lasciò cadere la saponetta nella vasca e guardò Sasuke. Il suo sguardo incuteva timore e il più piccolo dei due arretrò, incerto sul da farsi.
Itachi si alzò sulle gambe e spiccò un salto in avanti; afferrò il fratello per un braccio e con le mani piene di morbida schiuma iniziò a strofinargli i capelli. Sasuke si divincolava e l’acqua usciva a fiotti dai bordi, riversandosi sul pavimento ormai già allagato. Dopo un po’ Sasuke dovette arrendersi, le risate gli impedivano di muoversi. Fu solo quando Itachi ritirò le mani e le immerse nell’acqua per risciacquarsi dei residui di sapone che Sasuke riuscì a smettere di ridere e guardò il fratellone, stupito.
«Itachi, ma che ti è preso?» domandò tra i singhiozzi che gli erano venuti a forza di ridere.
Itachi dovette distogliere lo sguardo da quello del piccoletto: ancora quella sensazione al petto.
«Niente, è che… credo che ogni tanto sia piacevole, al momento opportuno, essere stupidi.»
Sasuke non parlò, ma la sua espressione disse molto più di ciò che avrebbe voluto far intendere. I suoi occhi si allargarono e Itachi non poté che constatarne l’immensità. Sasuke era felice ed era stato proprio lui a renderlo tale.
Quella consapevolezza gli fece aumentare la piacevole sensazione al petto e senza nemmeno guardarsi ad uno specchio, Itachi poté capire che i suoi occhi in quel momento brillavano della stessa luce di cui quelli del fratello brillavano per lui.
 
Forse puoi davvero riuscirci… otouto.
 


















Vocaboli
[1]Tavolo riscaldato a cui viene applicata una coperta sui lati con cui riscaldare le gambe durante i pasti (di solito si usa d’inverno). Al di sopra viene applicata una tavola di legno per essere utilizzato come vero e proprio tavolo.
[2]Si tratta di Shizune, non se il suo cognome sia davvero Kato, ma poiché era la nipote di Dan Kato ho ripreso lo stesso appellativo.
[3]Porta giapponese.
[4]Frittata giapponese servita solitamente a colazione condita con mirin (una sorta di sakè dolce da cucina) e zucchero o, in alternativa a questo, salsa di soia e spezie.


n/a
Maaaah, io non so davvero che dire. Scrivo, scrivo, ma alla fine non ho scritto niente. Non sapevo nemmeno se consegnarla questa storia, ma per rispetto alla giudiciA che aveva indetto questo bellissimo contest, alla fine l'ho fatto.
Sicuramente ci saranno degli errori e me ne scuso in anticipo, non ho avuto il tempo di revisionarla come si deve prima di consegnarla, ma presto dovrò farlo! Non ho molto da aggiungere, se non che spero che mi facciate sapere cosa ne pensate, per sapere se spararmi, se smettere di scrivere o che ne so.
Ciao fantastici lettori!
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: Jooles