Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: ___Ace    10/02/2014    10 recensioni
Non c’è mai nulla di sicuro. Un giorno sei vivo e quello dopo sei morto. Niente è certo, niente è scritto, niente è indelebile. E allora, cosa ti rimane? Perché vivere fuori se si muore dentro?
La vita apparentemente perfetta di Eustass Kidd cambia in un istante. Il suo cuore l’attimo prima funziona e l’attimo dopo si blocca. Quando riprende a battere, la sua esistenza si trasforma e la sua strada incrocerà quelle di altre persone con problemi e punti di vista differenti. Speranze, sogni, ideali, tutto verrà condiviso, giudicato e, forse, esaudito.
Oltre a questo, però, si scontrerà anche con la vita apparentemente pacata di Trafalgar Law e, se prima Kidd era convinto di non aver bisogno di nessuno aiuto per andare avanti, si dovrà ricredere. Perché potrebbe scoprirsi bisognoso di un cuore nuovo per sopportare quel saccente e malefico bastardo se non vuole finire all’obitorio prima del previsto.
Kidd/Law.
Ace/Marco.
Penguin/Killer.
See ya.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1.

 

Era assurdo. Era completamente, assolutamente e decisamente assurdo tutto ciò. Non poteva stare capitando sul serio e proprio a me. Io, il Capitano della squadra, il Boss della scuola, l’indiscussa celebrità dell’anno, passato e futuro. Insomma, quanto poteva odiarmi Dio lassù per decidere di farmi ricevere una punizione del genere? Quanto l’avevo offeso o fatto vergognare di una sua creazione col mio comportamento? Forse ero stato un po’ miscredente, eretico e ateo, ma, che cazzo, c’era gente peggiore al mondo!
Quel pomeriggio stava filando tutto bene, nella norma, eravamo in vantaggio tre a zero contro quei perdenti dell’università avversaria ed io mi stavo preparando per segnare il quarto punto di fila, roba da mandare in visibilio i presenti e spianarmi la strada verso una carriera d’oro, quando un fulmine a ciel sereno mi aveva fatto impallidire e barcollare. Che sensazione tremenda era stata: un sussulto al cuore, poi uno scossone più forte, seguito da una sorta di gelo nelle vene e poi il sangue. Caldo e denso, uscitomi dalla bocca e corso a macchiare il prato. E dopo? Ricordavo solo di essermi accasciato a terra mentre un centinaio di voci iniziavano a urlare e preoccuparsi. Forse ero rimasto cosciente fino all’arrivo dell’ambulanza e dei soccorsi, alla fine mi avevano ficcato una mascherina sul muso e la testa aveva cominciato a girare. Poi il buio.
Ed ora mi ritrovavo li, in una stanzetta dalle pareti bianche e anonime, le lenzuola del medesimo colore, smorte e i mobili in ferro, a parte un misero armadietto dove avrei sistemato la mia roba visto che, stando a sentire le parole di quel vecchio dottore, sarei rimasto in compagnia dei medici e delle infermiere per un po’. L’unico colore vivo e acceso che avrebbe rallegrato quel mortorio, probabilmente, sarebbe stato quello dei miei capelli rossi.
«Il suo cuore è arrivato al limite» stava dicendo, «Ha subito troppi sforzi negli ultimi anni da quel che ho sentito, o sbaglio?».
Limite un paio di palle, pensai, rivolgendogli un’occhiata torva, io sto benissimo!
«La terremo in osservazione e la sottoporremo ad una serie di esami del sangue, ma devo metterla al corrente che la situazione non è rosea, anzi, molto complicata e seria da quanto risulta nelle analisi. Mi stupisce, di solito in ragazzi giovani della sua età non dovrebbero svilupparsi tali anomalie, ma temo comunque di doverla avvisare che…».
Bla, bla, bla, ma questo quanto parla? Tutte stronzate, si sta solo inventando grossi paroloni per mettermi in soggezione. Ah, quanto vorrei essere fuori di qui, chissà i ragazzi quanto staranno festeggiando per la vittoria riportata! Fiumi di alcool, maledizione!
«In caso di peggioramento dovremo procedere con un trapianto di cuore».
Silenzio, non un fiato, non un movimento, persino la mia mente si scollegò nell’udire quelle parole. Quell’uomo non poteva stare parlando sul serio. Aveva una vaga idea di chi ero, per caso? Ero sempre stato sano come un pesce, nulla fuori posto, non mi ero mai nemmeno beccato una fottuta influenza, e adesso veniva a dirmi che potevo aver bisogno di un cuore nuovo? Appartenuto ad un morto magari? Mai.
Dovettero aspettare una buona mezz’ora prima di riprendere con le spiegazioni perché non fu affatto facile mettermi a tacere e farmi comprendere la gravità della situazione. Non ne volevo sapere e, se non fossi stato nel reparto di cardiologia, probabilmente mi avrebbero ficcato senza dubbio in quello di psichiatria con i matti. Certo, ma cosa pretendevano? Che sorridessi e che facessi buon viso a cattivo gioco? Loro venivano a dirmi che, con ogni probabilità, mi avrebbero fatto un buco sul petto e ci avrebbero infilato le loro manacce sterilizzate ed io non dovevo protestare?
La verità era che avevo paura. Si, paura di cosa sarebbe successo dopo. Avrei dovuto fare costantemente dei controlli, fare attenzione all’alimentazione, al bere, all’attività fisica e, di certo, non mi avrebbero più permesso di giocare. La mia passione era finita quel giorno in campo, in quell’attimo dove avevo raggiunto l’apice del benessere. Tutto si era ribaltato nel giro di un istante ed era andato in malora, a puttane, per la precisione. E cosa mi sarebbe rimasto? Solo un ricordo. Un ricordo e tanti rimpianti, tante opportunità buttate al vento.
«Ora la lasciamo riposare. Passeremo più tardi per farle firmare alcuni documenti e illustrarle la procedura».
Non li ascoltai minimamente e continuai a mantenere fisso lo sguardo verso la finestra, intento a catturare quei pochi raggi di sole che per molto non avrei rivisto; almeno non nel modo che intendevo io.
Dopo un tempo che parve infinito mi riscossi dai miei pensieri e mi guardai attorno alla ricerca di qualcosa che potesse almeno un po’ distrarmi e tirarmi su il morale. Di solito, le rare volte in cui mi capitava di essere triste, bevevo come un dannato in compagnia di amici, ma dubitavo che un malato, per giunta dentro un ospedale, potesse organizzare festini alcolici, quindi alzai gli occhi al cielo e mi decisi ad alzarmi per fare quattro passi. Tra tutte le opzioni di scelta, quella era la migliore. L’obitorio l’avrei visitato un altro giorno.
Non ero il tipo da lasciarmi scoraggiare per così poco e nemmeno l’idea di ulteriori complicazioni mi metteva in soggezione, dopotutto nulla poteva anche solo minimamente scalfirmi e avrei affrontato tutto a testa alta, come sempre e con le sole mie forze. Mi sarei rimesso, avrei fatto vedere a quei bastardi che, anche senza il loro aiuto, sarei stato meglio e avrei ripreso ad allenarmi, a tornare in campo e a stracciare gli avversari a suon di menate e pugni, conquistando l’intero corpo studenti che già mi adorava. Quell’ipotetico trapianto era un nemico, era la squadra avversaria e l’avrei battuta ad occhi chiusi. Ne sarei uscito vincitore anche quella volta, sarei arrivato in cima alla vetta e con il mio cuore avrei fatto scintille.
Non ci sarà bisogno di nessuna operazione, pensai, incamminandomi verso quella che sembrava l’uscita per il reparto in cui mi trovavo, ho sempre retto benissimo a qualsiasi sforzo fisico, sto meglio di un atleta e non ho bisogno dei loro cazzo di contr…
«Ehi, ma guarda dove vai con quella carretta!» sbottai in direzione di un pazzo che mi era appena sfrecciato accanto sulla sedia a rotelle, rischiando di investirmi in pieno. Il diretto interessato, di sicuro senza la patente, inchiodò bruscamente e voltò la testa nella mia direzione, girando poi tutto il suo baldacchino di fili e ruote per poi ritornare indietro, giusto a pochi passi da me.
«Per tua informazione ti ho avvisato due volte di spostarti» spiegò, guardandomi dall’alto in basso come se fossi stato una specie di esperimento genetico mai visto, soffermandosi più del dovuto, ne ero certo, sui miei capelli, «Ma tu continuavi a guardarti i piedi!».
«Avresti anche potuto rallentare» gli feci notare a quel punto, ottenendo uno sbuffo scocciato in risposta e iniziando a provare una strana voglia di appendere quel piccoletto al muro. E poi, a dirla tutta, permettevano sul serio ai pazienti di andare in giro con cappelli assurdi come quello che aveva lui? Quale deficiente si farebbe chiamare Penguin? Robe dell’altro mondo.
Mi sondò per qualche altro istante, borbottando qualcosa di incomprensibile tra sé e sé, iniziando a girarmi attorno con quell’affare con le rotelle. Ignorando il mio fastidio e la mia faccia corrucciata continuò indisturbato quello che stava facendo anche quando persi la pazienza e mi allontanai a passo spedito lungo il corridoio, diretto chissà dove, ovunque pur di togliermelo dai piedi. Se c’era una cosa che non sopportavo erano gli idioti. Nonostante tutto, però, me lo ritrovai puntualmente alle calcagna e con un sorriso sbieco stampato in quella sua faccia da ebete mezza nascosta dal frontino del berretto.
«Sei nuovo di queste parti, vero? Non ti ho mai visto prima» mi chiese, illuminandosi quando gli feci un cenno di assenso, «Sei in cardiologia, hai problemi di cuore?».
«Tu ne avrai sicuramente se continui a seguirmi» risposi secco, adocchiando una sala d’attesa vuota e fiondandomici dentro, sperando che lo spazio tra le due porte fosse abbastanza stretto affinché lui non potesse passarci. Tutto fu vano perché l’impiastro, con un’abilità piuttosto notevole per uno nelle sue condizioni, riuscì a entrarci senza enormi sforzi, posizionandosi di fronte a me.
Restammo a fissarci per un lungo istante, durante il quale mi chiesi cosa diavolo volesse quell’esserino minuto e dall’aria curiosa e scassa cazzo. Pregai che non si trattasse di uno dei soliti buonisti sempre alla ricerca di fare nuove amicizie per non perdere la speranza e tirarsi su il morale.
Alla fine mi stancai di averlo attorno, soprattutto se mi continuava a fissare in quel modo sfacciato e privo di vergogna. Insomma, un minimo di buona educazione, anche se io ero l’ultimo che poteva parlare, visto e considerato che il mio vocabolario era costituito per la maggior parte da insulti. Se non avessi temuto di essere incolpato di aggressione, gli avrei rotto anche l’altra gamba visto che una già gliel’avevano amputata.
«Senti, dimmi cosa vuoi e poi lasciami in pace» dissi, sedendomi su una delle sedie scomode in plastica e passandomi stancamente una mano sul viso. Quella si che era proprio una giornataccia. Prima facevo un mezzo infarto e poi un coglione in carrozzina mi seguiva senza sosta.
«Mi sei simpatico» annunciò, dopo essersi afferrato il mento con le dita con fare pensieroso, «Certo, sei un po’ scorbutico, ma dovresti andare bene».
«Bene per fare cosa?».
Immaginai di vedere i suoi occhi brillare sotto al cappello dato che il suo sorriso si allargò da un orecchio all’altro in modo contorto, «Per formare un gruppo, ovvio!» fece entusiasta, come se avessi dovuto pensare subito ad una prospettiva del genere. L’unica cosa che mi stavo chiedendo, invece, era da che reparto provenisse quello lì.
Probabilmente in psichiatria ci stanno quelli come lui. Si, decisamente, è uno sbandato. Per forza, altrimenti perché girare con uno schifo in testa?
«Un gruppo?» domandai scettico, inarcando un sopracciglio e cercando un modo per chiamare la sicurezza. Un pazzo mi stava importunando, non c’era da scherzare.
«Esatto! Una compagnia, una squadra, chiamala come vuoi. Saremo amici e assieme sarà più facile superare i nostri problemi. Sempre meglio che essere soli, non trovi?».
Bene, è un buonista del cazzo, senza dubbio.
«Scusa marmocchio, ma non ho tempo da perdere. Solo a un idiota può venire in mente di fare una cosa del genere» brontolai, grattandomi distrattamente i capelli e sbadigliando sonoramente. Che cazzata, credeva di poter alleviare il dolore parlandone con qualcuno. Illuso, nessuno avrebbe mai potuto capire, eravamo tutti diversi uno dall’altro, perciò mettere i propri guai nelle mani altrui era inutile e sbagliato, tanto non sarebbe cambiato niente, no? Cosa avrei guadagnato a dargli retta? Semplice, il mio cuore non avrebbe sopportato tanta stupidità e sarebbe esploso prima del tempo. Quindi no, grazie.
«Veramente l’idiota che ha ideato il tutto è un altro» mormorò senza la minima traccia di abbattimento, «In questo momento sta facendo un esame, ma più tardi te lo farò conoscere, non temere!».
Alzai gli occhi al cielo, «Ti ho detto che non mi interessa» ripetei, scoccandogli un’occhiata torva. Di solito funzionava per zittire quelli che mi intralciavano la strada. Con lui, però, l’effetto fu neutralizzato completamente e il mio astio gli scivolò addosso senza toccarlo. Quel sorriso rimase immutato sulla sua faccia da schiaffi.
«Su, su, non fare il difficile! Ti prometto che non te ne pentirai e mi faresti un enorme favore se accettassi, sul serio. Siamo in due a portare avanti questa cosa e ho un disperato bisogno di un’altra persona» si inalberò, aggrappandosi come una sanguisuga ad una mia gamba e non dando segno di volersi staccare tanto facilmente, nemmeno quando mi alzai e iniziai a camminare, rischiando di inciampare. Continuò ad artigliarmi il polpaccio, lasciandosi trascinare su e giù per la stanza.
«Anche se accettassi non sarebbe mai un vero gruppo. Per questo bisogna essere almeno in sei e tre non mi pare una compagnia molto numerosa» gli spiegai, saltellando su una gamba sola e perdendo una pantofola.
«Ma se ti arruoli automaticamente diventeremo quattro!» precisò in tono lamentoso per poi riprendere a supplicarmi. Dio, ma in ospedale accadevano cose del genere? Perché non rinchiudevano i malati di mente da qualche parte, magari in una stanza insonorizzata e senza porte per entrare e uscire, ne finestre? A quello, poi, avrebbero dovuto mettere per legge una camicia di forza. Superava il limite della sopportazione.
«Sai contare almeno? Due più uno fa tre!».
«Un altro si unirà a noi quando arriveremo a contare almeno tre partecipanti. Quindi, testa rossa, fa quattro. Ti prego, dì di si!».
«Chiedilo a qualcun altro. E non chiamarmi testa rossa!».
«E come devo chiamarti, allora?».
«Sono Kidd. Eustass Kidd».
Mi guardò stranito per un secondo, così approfittai per liberarmi dalla sua presa e rimettermi dritto in posizione eretta. Avevo fatto più fatica quel giorno che durante i vari allenamenti settimanali. Avrei potuto persino rimanere su una gamba sola per ore, ne ero certo, e avrei addirittura vinto un primato.
«Molto piacere, io sono Penguin» sorrise allora, porgendomi la mano che afferrai dopo un attimo di esitazione, stringendola con decisione e stupendomi nel sentirmi ricambiato allo stesso modo. A quanto pareva il ragazzino aveva un carattere determinato e sicuro di sé, quindi non avrebbe mollato tanto facilmente.
«Che nome stupido» commentai, incapace di starmene zitto.
«Anche il tuo è molto presuntuoso» ribatté saccente, tanto che mi venne voglia di prenderlo e sbattergli la testa addosso al muro. Era inutile, non lo sopportavo a pelle e avevo la vaga sensazione che quello era l’inizio di una lunga serie di guai e complicazioni. Dovevo sbarazzarmene al più presto.
«Ti va di fare un giro? Prima stavo andando a trovare una persona quando ci siamo incrociati, mi accompagni?».
«Ho scelta?».
Ghignò, negando con il capo e facendomi segno di seguirlo così, sbuffando sonoramente, mi incamminai dietro di lui e mi fece strada per una serie di corridoi, ascensori e reparti dai nomi strani e impronunciabili, studiando il luogo e stando a sentire a volte si e a volte no i suoi sproloqui sul tempo, sui medici, sulle infermiere, sui medicinali e sui pazienti del posto che, praticamente, lo conoscevano tutti.
«Posso sapere perché prima sei passato in cardiologia se la tua destinazione era due piani più sopra?» gli chiesi, sinceramente incuriosito.
Si strinse nelle spalle, dicendomi che era una scorciatoia che aveva imparato nel tempo trascorso tra quelle mura che, a detta sua, era tanto, e una volta imparate le piantine dei piani e dell’intero edificio, tutto era più facile e orientarsi era un giochetto da ragazzi. Infatti, come a dimostrare il tutto, arrivammo a destinazione senza giri alternativi, quando io mi sarei perso centinaia di volte se fossi stato da solo.
«Ecco, qui c’è la terapia intensiva» spiegò, parlando a bassa voce e rallentando la sua andatura, affiancandomi e scortandomi lungo un corridoio silenzioso con le porte delle stanze tinte di blu. I medici che giravano erano pochi e nessuno sembrò interessarsi ad un idiota in sedia a rotelle e ad un colosso di due metri dall’aria poco cordiale e con un incendio in testa.
«Ci siamo. Qui c’è il tipo che si unirà a noi» fece, animandosi e mettendosi quasi a saltellare. Lo guardai torvo, pronto a riferirgli che non sarebbe mai accaduto, dato che io no avevo accettato, ma quello aprì la porta senza esitare oltre, e senza bussare, ed entrò in una stanzetta singola dove, incollato ad un letto e ricoperto di bende, stava un ragazzo addormentato con i capelli di un biondo chiaro e piuttosto lunghi.
Rimasi piuttosto stupito alla vista di quello spettacolo raccapricciante: praticamente gli unici arti che non erano ingessati erano il braccio destro e la schiena, busto compreso. Quelli forse poteva anche muoverli, ma le gambe erano tenute inclinate da una serie di aggeggi di metallo, mentre una benda era stretta attorno alla sua fronte.
Mi lasciai scappare un fischio di stupore, provando ad immaginare cosa diavolo avesse combinato per ridursi in quel modo esagerato. Di conseguenza il nanerottolo mi diede un pizzicotto al braccio, intimandomi di fare silenzio mettendosi un dito davanti alla bocca e zittendo per un pelo un mio insulto.
Un fruscio di lenzuola arrivò alle nostre orecchie, seguito da un sospiro stanco e da qualcuno che si schiariva la voce per parlare.
«Penguin? Sei di nuovo tu?» domandò il poveraccio in modo arrendevole, alzando un braccio per afferrare una cordicina penzolante sopra di lui e issandosi un po’ per mettersi seduto e guardare in faccia il suo ospite. Ovviamente non si aspettava di trovare anche me e ciò gli fece corrugare le sopracciglia con aria interrogativa e sorpresa.
«Fammi indovinare» disse subito dopo, riferendosi direttamente a me con fare esasperato, «Ha provato a infinocchiare anche te con la storia del gruppo?».
Sogghignai, per la prima volta sinceramente divertito, quel tipo mi era già simpatico. Ecco, forse con lui avrei potuto fare amicizia, non con quel microbo che girava su quattro ruote.
«Kira-chan, ora siamo in tre, quindi sono venuto a darti il benvenuto nella nostra compagnia! Con te fanno quattro!» batté le mani Penguin, avvicinandosi poi al bordo del letto e poggiando i gomiti sul materasso per poi alzarsi un poco il frontino del cappello e guardare in faccia il suo obbiettivo raggiunto. «Sei dei nostri, finalmente» mormorò in un modo che, per qualche assurdo motivo, mi fece venire la pelle d’oca. Era come se stesse tramando qualcosa dietro quella facciata da stupido che aveva mostrato fino a poco prima. L’espressione che fece, poi, fu tutto, tranne che tranquillizzante. La stessa cosa sembrava pensarla anche il biondo perché, facendo forza sul braccio buono, si spostò di lato per prendere le distanze da quell’essere.
«Ehi, non mi pare di aver detto di essere dei vostri» mi sentii in dovere di sottolineare, per l’ennesima volta, ottenendo uno sguardo carico di gratitudine da parte dell’imbalsamato, il quale sembrò riacquistare un briciolo di speranza nel sentire quella confessione.
«Non fare il difficile, Eustass, vedrai che ci divertiremo. E poi, più siamo meglio é». Era ritornato a comportarsi come un moccioso, ridacchiando spensierato e facendomi segno di prendere una sedia pieghevole e avvicinarmi a loro per fare quattro chiacchiere. Sembrava non preoccuparsi affatto dell’orario di visite ormai terminato e iniziò a parlare senza sosta, presentandomi il ragazzo che rispondeva al nome di Killer, Killer e basta a detta del diretto interessato.
Viva la fantasia, avevo pensato, stando a sentire come fosse finito ingessato dalla testa ai piedi. Un brutto incidente in moto durante una corsa clandestina, quindi, oltre ai danni fisici subiti, si era beccato anche una denuncia, ma aveva fortunatamente evitato la galera per qualche anno. Per quanto mi riguardava, avrei preferito finire al fresco che starmene in un letto d’ospedale senza vie di fuga. Scoprii anche che tutte quelle informazioni non era stato lui stesso a fornirle a Penguin, ma che quest’ultimo fosse andato a ficcanasare sulla sua cartella clinica per saperne di più in proposito.
«Lui non voleva dirmelo» si giustificò, come se ciò fosse abbastanza per giustificare un’azione del genere, «Così mi sono arrangiato come ho potuto».
«Lo sai che potrei denunciarti?» gli fece notare l’altro con calma e con un sorriso sinistro che apprezzai parecchio. Mi piacevano le persone subdole, anche se ciò avrebbe voluto dire che, automaticamente, anche Penguin, con quel suo modi di fare sinistro, entrava nelle mie grazie. Probabilmente lui costituiva l’eccezione.
«Non dire sciocchezze» sbuffò il ragazzino, «Non hai prove e non lo faresti».
«Non sfidarmi».
Incredibilmente il tempo volò e quando un’infermiere fece il suo ingresso, trovandoci ammassati attorno al povero infermo, ci chiese, non senza una certa irritazione nella voce, di uscire e lasciar riposare il paziente, ricordandoci che, se volevamo venirlo a trovare, l’orario era segnato fuori, all’ingresso del reparto. Penguin non lo ascoltò minimamente e, prendendosi un momento prima di andarsene, ricordò a Killer che da quel giorno faceva parte della squadra.
«Solo se ci sta anche lui» chiarì a quel punto, indicandomi con un dito e aspettando una mia risposta.
Li guardai leggermente schifato, riflettendo sul da farsi. Di certo avrei passato un po’ di tempo tra quelle mura e le giornate sarebbero state lunghe e infernali. Forse, se avessi avuto qualche passatempo, avrei sopportato meglio il tutto e quello scapestrato sembrava proprio il tipo di persona spericolata che faceva al caso mio. E poi non mi stava in culo, cosa che raramente accadeva quando conoscevo nuovi elementi, quindi aveva già un punto a suo favore. Magari assieme avremo potuto trovare il modo di mettere fuori gioco quel nanerottolo asfissiante.
Alla fine sospirai sconfitto, scuotendo il capo e accettando quell’assurda proposta.
«E sia» decretai, «Ma voglio avere io il comando» chiarii. O a quella condizione o non se ne faceva niente.
A quelle parole Penguin sembrò farsi dubbioso, tanto che iniziò a mordersi un labbro con indecisione, asserendo infine che di ciò se ne poteva discutere. Dopodiché salutammo Killer e uscimmo dalla stanza, diretti verso il decimo piano.
«Posso sapere perché ci tenevi tanto ad averlo in squadra?» chiesi, ritrovandomi in qualche strano modo a spingere la carrozzina di quell’impiastro che, massaggiandosi le braccia doloranti per lo sforzo e il movimento, salutava gente a destra e a manca, indicandomi quando serviva la strada da prendere per raggiungere l’ala Nord dell’ospedale dove, stando alle sue parole, si trovava l’ideatore di quella commedia. Un altro squinternato insomma.
Si zittì per un momento e ringraziai il Cielo per quei pochi minuti di quiete, giusto il tempo di un viaggio in ascensore, quando poi riprese a parlare, guardandomi in faccia e mostrandomi per la prima volta i suoi occhi scuri che luccicavano di meraviglia ed emozione. Cosa che mi spiazzò, dato che io non mi comportavo mai in quel modo e non esprimevo assolutamente nessun tipo di sentimento.
«Ma dico, l’hai visto?» fece sognante, aspettando che gli dessi ragione. Invece aggrottai la fronte e lo guardai come se avessi avuto davanti un completo idiota. Che, in poche parole, era esattamente la realtà.
«Ehm, si? E’ distrutto».
«E’ bellissimo!».
Parlammo all’unisono, scambiandoci poi delle occhiatacce per il nostro disaccordo. Come poteva dire una cosa del genere se il ragazzo riusciva a malapena a muoversi? Inoltre, imbottito in quel modo, non era di certo un bello spettacolo, per quanto potessi essere gentile nel giudicarlo.
Alla fine decisi di lasciar perdere, stringendomi nelle spalle e girando a sinistra dentro un’enorme sala illuminata e tranquilla dove si aggiravano pazienti in vestaglia e medici indaffarati. Non era male come posto, forse, tra tutti, era il migliore la dentro.
«Ci siamo, continua da quella parte» stava dicendo Penguin, dimenticatosi del suo sogno ad occhi aperti  e fattosi attento e vigile, come se fosse alla ricerca di qualcosa.
Ci aggirammo per quelle stanze per una decina di minuti e, dopo aver sbirciato dentro una camera e averla trovata vuota, fummo costretti a tornare indietro. A quanto pareva il suo compare non c’era e non era ancora tornato dalla visita che aveva in programma.
«E’ malato anche questo qui?» domandai, seduto su un tavolino con le gambe a penzoloni e sgranocchiando un pacchetto di praline al cioccolato che il nanerottolo aveva acquistato alle macchinette per entrambi. Inutile dire che avevo monopolizzato la merenda e che glie offrivo un boccone ogni cinque. Dopotutto, era troppo divertente vederlo dimenarsi sulla sedia a rotelle e protestare per l’ingiustizia sulla sua immobilità. Cosa potevo farci io? Ognuno aveva i propri problemi e il suo non mi riguardava.
«Non è il termine esatto definirlo malato»  iniziò a dire, interrompendo la frase per maledirmi, «E’ difficile da spiegare, ma sono certo che te lo vedrai da te».
Mi feci pensieroso, mettendogli il sacchetto a portata di mano, giusto per evitare di attirare l’attenzione dei presenti e di venire ripreso, vagliando nel frattempo varie alternative nella mia mente. Ero curioso di sapere il problema di quel tizio ignoto. Sicuramente, sopra ogni altra cosa, era un completo stupido per avere un piccoletto invalido con una gamba sola come amico, ma il resto restava un mistero che volevo scoprire. In un certo senso, la cosa si stava facendo interessante, anche se assurda.
«Le stai finendo tutte!» protestò di nuovo, «Almeno lasciamene un po’!».
Alzai gli occhi al cielo senza prestargli attenzione e allontanando dalla sua portata la merenda, tenendola più in alto e sfottendo i suoi patetici tentativi di afferrarla e di appropriarsene. Poveretto, un po’ di pena me la faceva, ma non ero incline a fare il buon samaritano; nella vita quelli che sopravvivevano erano i forti, per i deboli non c’era il minimo spazio e se voleva tirare avanti avrebbe dovuto imparare a essere più bastardo e stronzo, esattamente come me. Chissà, magari avrei potuto renderlo mio allievo e insegnargli qualcosa. Probabilmente l’avrei fatto, ma non sapevo ancora che quello un maestro ce l’aveva già, e non uno qualsiasi, ma il peggiore sulla faccia della terra.
«Non lo sai che è da maleducati farsi beffe di chi è meno abile degli altri?» mi sentii chiedere ad un certo punto, adocchiando di sfuggita un sorriso di adorazione sulla faccia del pinguino e voltandomi in direzione della voce del nuovo arrivato.
Accanto a noi, appoggiato con un fianco al bordo del tavolo e le braccia incrociate, se ne stava un ragazzo piuttosto alto e smilzo, il quale mi fissava con l’aria sfacciatamente divertita, o lo sarebbe stato se non avesse sfoggiato un fastidiosissimo ghigno di sufficienza.
Le persone con cui andavo d’accordo erano poche e quelle che mi piacevano ancora meno. Quello lì sentivo di odiarlo a pelle, anche senza conoscerlo.
Lo fissai per qualche altro istante, alzando infine le spalle e ignorando il suo commento, «E tu impara a farti i cazzi tuoi». Ma se credevo di potermi liberare di lui facendo la voce grossa mi sbagliavo di grosso.
«Credi così poco in te stesso che devi sottomettere i deboli per sentirti forte?».
Gli scoccai un’occhiata omicida e in un attimo gli fui di fronte a nemmeno un passo di distanza. La cioccolata abbandonata sul tavolo e i pugni stretti lungo i fianchi. Era più basso di una decina di centimetri, ma mi fronteggiava senza la minima ombra di paura, al contrario, sembrava che la situazione lo divertisse assai.
«Ripeti se hai il coraggio» ringhiai tra i denti, iniziando lentamente a flettere il braccio per colpirlo dritto in faccia e cancellargli quell’espressione da superiore che stava mostrando con fierezza.
«Come siamo scorbutici» sfotté, arricciando le labbra e gettando uno sguardo veloce al deficiente in carrozzina, «Ehi, Penguin, da dove l’hai raccattato?».
«Viene da cardiologia» rispose l’altro a bocca piena, «E’ dei nostri adesso e anche Kira-chan».
«Capisco. Quindi sei riuscito a convincere Killer-ya» mormorò il bastardo, passandosi una mano fra i capelli neri e fregandosene altamente del mio sguardo omicida. Quando cercai di afferrarlo per la collottola dell’orrenda felpa che indossava si scansò velocemente, facendo un passo indietro e alzando un dito verso di me, come a volermi  dare un avvertimento.
«Calma capelli di fuoco, sappi che ci sono delle regole» disse infatti, senza perdere quell’aria ghignante, «Intanto qui comando io…».
«Oh no» lo interruppi, avvicinandomi di un passo e coprendo nuovamente la distanza, sbattendo violentemente un pugno sul tavolo, «Ho espressamente detto al nanerottolo che mi sarei sottoposto a questa stronzata solo se fossi stato io a dirigere i giochi» chiarii categorico, «Se non vi sta bene potete anche dimenticarvi di me».
«Ma guarda, qui qualcuno vuole dettare legge, eh?» mi prese in giro, per nulla impressionato dal mio sfogo, rimanendo impassibile e composto, «E va bene, sarai il leader se lo desideri tanto, ma sia chiaro fin da subito: la responsabilità per qualsiasi guaio è tua e tua soltanto».
«Ci sto» risposi secco. Ci avrei pensato più tardi ai problemi che avrei potuto rischiare di avere accettando quell’aspetto, ma ciò mi premeva di essere al di sopra degli altri, soprattutto al di sopra di quello stronzo con il pizzetto e il sorriso da volpe. L’idea di poterlo zittire e rimettere al suo posto rendeva il tutto più allettante e divertente, anche ritrovarmelo in ginocchio davanti a me in uno sgabuzzino non era male come prospettiva.
Quello allora sorrise in maniera contorta e sadica, facendomi temere di aver appena firmato la mia condanna. Di certo aveva qualcosa in mente, qualcosa di poco carino nei miei confronti, ma riacquisii la mia spavalderia e mi preparai ad affrontarlo. Se era la guerra che voleva allora l’avrebbe avuta e gli avrei fatto capire fin da subito che io non perdevo mai.
«D’accordo. Ultima cosa: io non prendo ordini da nessuno, chiaro?».
Scordatelo moccioso, così non mi sta bene.
«Io sono il Capitano, ergo io decido e do gli ordini. Questi sono i patti» sibilai minaccioso. Prima accettava e poi metteva delle condizioni? Assolutamente no, non gliel’avrei permesso.
«I tuoi patti, vorrai dire» mi corresse, «Ti ricordo che questa cosa è partita da me, quindi mi merito una parte del comando. Ergo» ripeté, con l’intento di beffeggiarmi,  «Tu non mi ordini un emerito cazzo».
«Sai dove te lo metto sto cazzo?».
«Sono curioso di saperlo» mi sfidò, sostenendo il mio sguardo e dando inizio ad una gara silenziosa fatta di fulmini e antipatia reciproca. Era un osso duro, ma ci avrei pensato io a fargli abbassare la cresta e a ridimensionare il suo ego smisurato. Come si permetteva di intralciarmi in quel modo? Nessuno osava, nessuno, perciò chi era lui per avere tutto quel fegato di tenermi testa?
Finalmente qualcuno con le palle, trovai il tempo di pensare. Almeno ci sarebbe stato da divertirsi.
«Quindi dovrò sottostare a Eustass d’ora in poi?» si intromise Penguin, riportandoci alla realtà e facendo si che la smettessimo di scannarci con gli occhi. Con un grugnito mi voltai dalla parte opposta, stizzito e incazzato, mentre quella piaga si interessava al piccoletto invalido.
«Esatto, spero che Sua Maestà sia soddisfatto di questo».
«Chiudi il becco, qualunque sia il tuo nome».
«Mi chiamo Trafalgar Law» sospirò rassegnato, «E ti ho detto di non darmi ordini, Signor…?».
«Si chiama Eustass Kidd, ha ventuno anni e studia all’Università di Ingegneria Meccanica. E’ un novellino ed è arrivato qui oggi trasportato d’urgenza per un malfunzionamento cardiaco, per il resto basta guardarlo, insomma, non è molto socievole, ma non penso sia cattivo, sai? Mi ha anche portato a spasso con la sedia a rotelle».
Fissai allibito l’idiota col cappello, passando dall’essere sorpreso al sentirmi spiato. Com’era venuto a conoscenza di tutte quelle informazioni sul mio conto, quel bastardo infame? Eppure ero certo di non avere cartellini addosso o stupidaggini del genere che indicassero qualcosa sul mio conto.
«E tu come sai tutto questo, di grazia?» sbottai, trattenendo a stento la rabbia. Prima avrei atteso una risposta plausibile che spiegasse l’accaduto, poi l’avrei gettato dalla finestra, carrozzella compresa.
«Ho un’amica addetta agli archivi; sai com’è, le ho mandato un messaggio» si strinse nelle spalle, sorridendomi gioviale, come se la cosa fosse ovvia e chiara come il sole. Peccato che sul mio carattere ci avesse azzeccato: io ero scontroso e poco paziente, quindi non mi calmai affatto.
«Eustass-ya, ma allora sei davvero un mocciosetto».
Voltai il capo quel tanto che bastava per inquadrare quel Trafalgar, dedicandogli un’occhiata truce che prometteva prossime e terribili torture e sofferenze se avesse anche solo osato aprire bocca per ripetere una cosa del genere.
«Ha parlato l’uomo vissuto, immagino» mormorai velenoso.
Quello si concesse una breve risata di sufficienza, mentre Penguin si calcò meglio il cappello in testa nel tentativo di nascondere il suo sorrisetto. Dovevano per forza essere a conoscenza di qualcosa che a me sfuggiva, ne ero certo, e ciò li faceva divertire parecchio.
«In effetti, piccolo Eustass, io ne ho ventiquattro» chiarì soddisfatto, godendosi il mio smarrimento e la mia espressione arcigna. La cosa, ovviamente, non mi faceva affatto piacere e sapere di avere tre anni in meno in confronto a lui mi faceva parecchio incazzare. Ad ogni modo, se non volevo perdere la testa e rodermi troppo l’anima, tenni conto che, a parte quel minuscolo e insignificante particolare dell’età, in confronto a lui io ero il doppio e avrei potuto schiacciarlo in ogni momento. Inoltre sarebbe bastato un giorno o due per fargli capire chi era migliore tra di noi. Un paio di insulti e qualche pugno avrebbero chiarito la situazione e garantito il mio indiscusso dominio.
Trafalgar sfoggiò un ghigno altezzoso e si permise di guardarmi dall’alto in basso, come a voler sottolineare più volte la differenza abissale tra di noi, calcando sul fattore età e facendomi ribollire il sangue nelle vene. Me l’avrebbe pagata e gli avrei fatto rimangiare ogni attimo di quella sua arroganza, poco ma sicuro.
«Un marmocchio come Capitano» borbotto fra sé, ridacchiando sommessamente e ignorando il mio ringhio decisamente poco umano, «Andrà bene» dichiarò infine, guardandomi con la coda dell’occhio senza smettere di ghignare. Cosa cazzo ero diventato, un fottuto pagliaccio? Io incutevo timore e ispiravo rispetto, nonché sesso selvaggio, invece lui che faceva? Se ne sbatteva altamente e rideva.
«Ora ne mancano due e poi saremo un gruppo a tutti gli effetti!» strillò Penguin con entusiasmo, alzando i pollici e aspettando una qualche reazione positiva da parte mia e dello stronzo, ma non avevo la minima intenzione di entusiasmarmi per boiate del genere. Per quanto riguardava, non avrei nemmeno mai pensato di accettare se non mi fossi fatto impietosire dallo sguardo speranzoso di Killer. E poi, ormai, quella storia era diventata una sorta di sfida con Trafalgar so-tutto-io Law e non mi sarei mai fatto scappare l’occasione per metterlo alle strette e fotterlo.
«Ci sono altri dementi come voi in giro, per caso?» mi premurai di chiedere, giusto per sapere cosa dovevo aspettarmi da quel soggiorno in ospedale oltre a una serie infinita di esami, test clinici e stranezze inquietanti varie.
«In effetti al quarto piano c’è uno a cui potremo chiedere. Se ne sta sempre per conto suo» spiegò Penguin con fare dispiaciuto.
«Ha capito tutto dalla vita» commentai. Se voleva mantenersi sano di mente il modo migliore era tenersi alla larga da quelle due mine vaganti.
«E’ per questo che sei senza amici, Eustass-ya?».
«Cosa te lo fa pensare?» ribattei stizzito e con i nervi a fior di pelle. Che ne sapeva lui della mia vita? Io ne avevo di amici, a bizzeffe per sua informazione.
Si strinse nelle spalle, «Non mi sembra di vedere qualche tuo conoscente qui in giro. Nessuno ha pensato di venirti a fare visita?».
A quell’affermazione non trovai nulla da ribattere e uno strano senso di comprensione si fece strada in me. Quel pomeriggio avevamo vinto una partita piuttosto importante per l’istituto e per la nostra squadra e, come ogni volta, era prevista una festa con i fiocchi a cui tutti avrebbero partecipato. Con tutto quel casino successo me ne ero scordato e non ci avevo fatto caso, ma possibile che tutti avessero preferito non rinunciare a un po’ d’alcool e musica per passare a vedere come stavo?
Guardai a terra, corrugando la fronte e ignorando la preoccupazione negli occhi di Penguin che, mordendosi le unghie delle dita, era indeciso se confortarmi o lasciarmi in pace.
Pensandoci bene, un po’ me l’ero aspettato e non ero poi tanto stupito. Dopotutto non ero altro che uno spaccone montato, pieno di sé e alla maggior parte dei miei compagni stavo parecchio sulle scatole, solo quelli che volevano farsi un nome e avere una reputazione mi seguivano come discepoli, facendo tutto quello che dicevo e sostenendo ogni mia assurda idea. Nessuno mi contraddiceva, nessuno si metteva contro di me, pena un naso rotto o un braccio lussato, magari qualche livido quando mi sentivo magnanimo. A conti fatti ero un figlio di puttana, quindi, perché preoccuparsi tanto per la mia salute?
«Forza Penguin, è ora che tu vada» fece il ragazzo pelle e ossa, zittendo le proteste del piccoletto con uno scappellotto ben mirato sulla nuca, assicurandogli che il giorno dopo avremo fatto visita all’ipotetico quinto elemento della compagnia.
«D’accordo. Allora a domani ragazzi!» ci salutò sorridente, dandoci le spalle e avviandosi con la sua sedia a rotelle verso gli ascensori. Non mi resi conto della sua assenza fino a che non mi sentii picchiettare una spalla, riscuotendomi dai miei pensieri e riflessioni che, invece di farmi sentire meglio, mi avevano lasciato addosso un senso di nausea e di ribrezzo per la mia vita all’apparenza perfetta, ma contaminata dallo schifo più totale.
Guardai Trafalgar con aria interrogativa, «Che vuoi?».
Mi sondò per qualche secondo, osservandomi attentamente per capire in che condizioni fosse il mio umore in quel momento. Alla fine decise di infischiarsene e di punzecchiarmi ugualmente. «Non ti metterai mica a frignare spero» fece con una smorfia di disgusto.
Lo spintonai lontano da me, stupendomi della facilità con cui riuscii a spostarlo e notando come iniziò a massaggiarsi il braccio. Eppure non ero stato così brusco come mio solito.
«Forza, ti riaccompagno in cardiologia». Così dicendo mi voltò le spalle, affondando le mani nelle tasche dei jeans dannatamente stretti che mettevano in risalto la sua figura magra e, accidenti, davvero troppo magra, tanto che rimasi immobile al mio posto, stranito da tutto ciò. Come cazzo faceva a reggersi in piedi con quelle gambe così fini?
Lasciai scorrere lo sguardo verso l’alto, soffermandomi sul fondoschiena che si portava appresso e il mio viso mutò in un’espressione di apprezzamento.
Certo che gli stronzi hanno sempre un culo da favola, altro che storie, pensai, sorridendo leggermente e mordendomi un labbro, inclinando il capo. Nemmeno davanti sembra essere messo male.
«Eustass-ya».
I miei occhi incontrarono i suoi e mi resi conto di essere stato colto in flagrante, ma la cosa non mi preoccupò affatto. Figuriamoci, ci voleva ben altro per mettermi in imbarazzo e lui sembrò capirlo così, ricambiando il sorriso, non perse tempo per mettermi alla prova.
«Mi trovi così attraente?» domandò con un tono canzonatorio, al che il mio ghigno si allargò.
«Non essere così presuntuoso, apprezzo solo il culo che ti ritrovi».
Alzò gli occhi al cielo, borbottando qualcosa riguardo ai mocciosi irriverenti e, facendomi segno di sbrigarmi, si diresse verso le scale, commentando sul fatto che, se aveva fortuna, lo sforzo fisico mi avrebbe fatto schiattare.
«Ci vuole ben altro per liberarsi di me, Trafalgar» mi premurai di fargli sapere, guardandolo torvo ed elaborando un piano per farlo scivolare sui gradini e mirare a rompergli l’osso del collo con una brutta caduta. Se era davvero così magro la percentuale di successo era piuttosto alta.
«Non preoccuparti, Eustass-ya, ci penserò io a farti fuori» sogghignò lo stronzo con fare sadico e con uno sguardo da folle che per poco non mi fece rabbrividire.
«Allora è guerra» ribattei, digrignando i denti e mostrandogli i canini come se fossi stato un predatore letale.
«Guerra aperta» sibilò maligno.
Era il primo giorno, ma già sapevo che sarebbe stato l’Inferno.
 
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Buonasera gente ^^
Sono certa che in questo momento vi state facendo la stessa mia domanda: Cosa cazzo mi sono messa in testa di fare quando devo finire due long?
Eh, non lo so proprio a dire il vero, ma l’altra sera stavo passando in rassegna i canali in tv e ho beccato il film Braccialetti Rossi, così ho un po’ storpiato la trama, rendendola decisamente molto più scurrile e con personaggi veramente bastardi. Che vergogna di ragazza che sono ^^
A ogni modo sappiate che non lascerò nulla di incompiuto e che con questa nuova fic non ho intenzione di tirarla per le lunghe, anche perché i capitoli saranno abbastanza corposi, quindi rilassatevi!
Alcune paroline sull’inizio di questa storia. Dunque, tutto ruota attorno all’ospedale dove Kidd è stato trasportato d’urgenza per un problema grave, stando a sentire i medici, e questo da inizio ad una vicenda che lo accompagnerà nel suo soggiorno in cardiologia. A quanto pare non è l’unico ragazzo con problemi, infatti abbiamo un Penguin invalido senza una zampetta, ma molto allegro e abbastanza spensierato. Soprattutto innamorato di un certo Kira-chan, scapestrato e devastato, imbalsamato dalla testa ai piedi. Si rimetterà presto, dopotutto dovrà pur riprendere le sue gare clandestine, no? Si, con la sedia a rotelle però! E poi arriva Law. Ow, dannazione a te e al tuo culo! Lui e Penguin, più l’ultimo che il primo, ma andando avanti lo spiegherò meglio, vogliono riunire un gruppetto di ragazzi per affrontare il loro soggiorno tra quelle mura piene di sofferenza e dolore. E non è nemmeno una brutta idea, insomma, non deve essere facile trovarsi rinchiusi in un luogo così cupo ed essere soli. Quindi la loro idea è quella di passare il tempo e divertirsi il più possibile.
Due ragazzi sono stati nominati e nel prossimo capitolo ve li presento, ma penso che, se mi conoscete, possiate benissimo immaginare di chi sto parlando :3
Ace e Marco!
Ok, l’ho detto, mi spiace, non ho resistito!
Che dire, spero che abbiate apprezzato questo inizio ^^
Ora vado, per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi e se mi fate sapere cosa ne pensate ve ne sarò grata ^^
Grazie a tutti i nuovi lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.
  
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