Serie TV > The Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: Elisewin Ci    13/02/2014    20 recensioni
New York. Tra le luci di Manatthan e le sfumature dei suoi quartieri, la grande città fa da sfondo alla storia di Damon e Elena, due adolescenti tanto diversi quanto feriti dalla vita. Una storia d'amore e d'amicizia, di violenza e autolesionismo, caratterizzata da grandi passioni: musica, libri, parole, cuore. Un incontro-scontro tra i banchi di scuola che cambierà per sempre le loro vite.
"Cara Elena, tu non sei felice, neanche con addosso il vestito a fiori che hai preso al negozio vintage all'angolo. Tu non sei felice, cara Elena, perché sei innamorata.
E allora tatuatelo sulla pelle e marchiatelo nello sguardo, tutto questo tormento.
Magari, adesso, cara Elena, inizi a crescere"
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alaric Saltzman, Caroline Forbes, Damon Salvatore, Elena Gilbert | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

BEST OF YOU
 
CAPITOLO 2
YOU WEREN'T THERE

http://www.youtube.com/watch?v=G6uKZI5XZdQ
da ascoltare

 
Nel mezzo del cammin di nostra vita 
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
(Dante Alighieri, La Divina commedia)




Damon
Un tonfo sordo contro l’armadietto vicino al mio mi disturba ancora più di quanto non facciano già le chiacchere di tutti gli studenti intorno a me: una massa di stupidi che corre per prendere posto alla mensa - quando i posti sono sempre gli stessi da anni: il gruppo di quelli popolari e acclamati, il gruppo dei cervelloni, quello degli sfigati, quello dei pettegoli che osservano tutto di tutti, quello dei senza vita, quello inconcepibile degli alternativi e quello inutile degli sportivi, poi ci sono io, che di gruppo non se ne parla – quando una mano familiare si posa leggera sulla mia schiena.
Alzo appena un sopracciglio, contrariato, verso il sorriso caldo di Caroline.
“Mangiamo insieme?” – mi propone la bionda mentre si liscia il vestito con i palmi aperti, poi fa un giro su se stessa e la gonna corta gira, ampia, lasciando scoperto un pezzo di pelle bianchissima libera dalla costrizione delle parigine grigie che le coprono a malapena le ginocchia.
“Care no. Non vengo in mezzo a quella banda di trogloditi che fa a cazzotti per un pezzo di pane avariato” – sospiro, chiudendo deciso il mio armadietto e passandole oltre.
“Damon… tu fai a cazzotti per molto meno”
“Ecco… hai intenzione di farmi un terzo grado” – mi volto puntandole il dito indice contro – “Mi sembra un buon motivo per continuare ad evitarti. Buon pranzo Care”
Ho quasi raggiunto la porta d’uscita e dentro di me sto lentamente maledicendo tutte le ragazzine che stanno sedute sui gradoni dell’entrata non lasciandomi libero di passare quando sento qualcuno tirare il lembo del mio giubbotto di pelle.
Non ho bisogno di voltarmi per sapere che è sempre lei, so che se girerò la testa per guardarla incontrerò i suoi occhi stanchi e delusi, quelli della bambina che prendevo sulle spalle perché finiva sempre per sbucciarsi le ginocchia dopo ogni giro in bicicletta lungo Bedford Avenue, la domenica, quando correvamo come due pazzi tra le bancarelle del mercato, e mia madre ci aspettava a casa con la boccetta di disinfettante sul tavolo e un muffin al cioccolato a testa per merenda.
“Care ti ho detto che…” – tento di bloccare sul nascere qualsiasi sua protesta, ma lei è più svelta di me e si rifugia tra le mie braccia – “Ehi stai bene?” – stringe forte, così forte da togliermi il respiro, e annuso piano i suoi capelli biondi che profumano sempre di margherite.
Lei è l’odore delle mie sicurezze.
Quelle poche che ho e che spesso fanno acqua da tutte le parti.
Tutte tranne lei.
 
“Mi stai abbracciando davanti a tutta la scuola nell’ora di pranzo?” – mi sussurra piano contro il collo, un po’ incredula e un po’ bugiarda mentre il suo respiro mi fa il solletico sulla pelle sensibile del collo.
“Sai benissimo che non m’importa di tutta questa gente”
Caroline si discosta appena da me, mi guarda e mi accarezza una guancia, lascio un bacio lieve sul palmo della sua mano prima di nascondermi nuovamente dietro la mia espressione burbera.
 
“Non sparire mai più” – mi ordina aggrottando la fronte.
Non ci crede nemmeno lei.
Sa che continuerò sempre a comportarmi come al solito.
Come uno stronzo di prima categoria.
 
“Sei l’unica a cui rispondo sempre al telefono” – le faccio notare lasciandole un piccolo bacio sulla punta del naso.
 
“Si, lo so ma…”
“Care. Non ti lascerò mai. Lo sai” – ammetto, serio, forse un po’ stanco delle sue infinite paure.
“A volte penso che ti ritroveranno ucciso chissà dove e che sarò io a dover riconoscere il cadavere”
“Sei sempre la solita megalomane. Chi mai dovrebbe uccidermi?” – sorrido, contro la sua tempia, mentre passo un braccio sulle sue spalle e lei si appoggia a me in uno slalom improvvisato tra i gradoni e gli studenti seduti per terra.
“Ti cacci sempre nei guai e io mi preoccupo. Se solo tu mi dicessi dove vai, con chi, quando… io potrei…”
“Cosa potresti Care? Dare tutte le giuste informazioni alla polizia nel caso fossi disperso?”
“Si” – mi guarda seria, le braccia distese lungo i fianchi, il viso tirato in una solennità plateale che mi fa sorridere.
E’ sempre la stessa. Non cambierà mai.
 
“Prima quando mi hai abbracciato mi sono tornate in mente le nostre domeniche in bicicletta…” – le confesso, passandomi una mano tra i capelli, un po’ imbarazzato dalla debolezza che mi è uscita dalle labbra.
Sono stati giorni stancanti.
L’ultima settimana è stata un inferno.
Forse ho davvero bisogno di un po’ della sua dolcezza.
 
“…i muffin al cioccolato e il disinfettante sulle mie sbucciature” – m’interrompe lei mentre il vento le scompiglia i capelli, agitandoli intorno al suo viso dolce.
Il volto dell’unica amica che ho.
Si, Care è il mio porto sicuro.
 
Anche se le gambe gliele guardo lo stesso, anche se capita che mi ci faccia spazio, anche se io e Care non riusciamo mai ad essere del tutto innocenti.
E le guardo anche adesso, adesso che sente freddo e piccoli brividi le attraversano le cosce scoperte.
 
“Vai a pranzo Care, altrimenti non avrai tempo per mangiare. La mensa sarà già piena” – le bacio la fronte e mi allontano, senza darle modo di replicare, mentre cammino tra studenti che non ho mai visto, tra persone di cui non m’interessa niente, mentre la cantilena di voci straniere mi sfiora per scivolarmi addosso senza toccarmi davvero.
 
Ho bisogno di stare da solo.
 
 
Elena
Ho fatto la fila per prendere un vassoio, riuscire ad accaparrarmi un piatto di ‘non-so-cosa’ senza far cadere tutto per terra per ritrovarmi in mezzo a questo stanzone enorme e non sapere dove andare a sedermi.
Ci sono tavoli sparsi ovunque, senza un ordine preciso. Tavolate lunghe e rettangolari intervallate da tavolini rotondi più intimi. Non riesco a capire la dislocazione che è stata scelta per arredare questa mensa enorme.
C’è tanta gente, un flusso continuo di parole, di urla e prese in giro che mi rimbomba nella testa… e io qui, ferma, immobile, che pesticcio sul posto e i polsi iniziano a farmi male per il peso del vassoio.
Dove posso sedermi?
Non dovrebbe esserci un cartello con su scritto “Benvenuta sconosciuta”?
Niente.
 
Provo a guardarmi intorno ma non riconosco nessuno dei miei compagni di classe eccetto Tyler Loockwood che mangia con i gomiti posati sul tavolo accanto a una schiera di energumeni che indossano la sua solita felpa. Squadra di football o magari di basket: ho posato lo sguardo senza dubbio verso la zona degli sportivi senza cervello e nonostante la confusione, mi sembra quasi di sentire nelle mie orecchie lo sgranocchio fastidioso del cibo sotto i loro denti.
 
Sembrano tutti catalogati in serie, caricature di se stessi, gruppi di persone omologate che camminano allo stesso passo occupando una parte della sala. Quelli che leggono mentre mangiano sono seduti insieme, alla mia sinistra, poi alla mia destra ci sono quelli che non si staccano dall’iphone o dall’ipad o da qualsiasi altro meccanismo elettronico tralasciando il pranzo. Dietro di me un gruppo di ragazzi con delle creste altissime e coloratissime sulla testa.
Sono tutti qui intorno a me, raggruppati secondo uno schema, un’ideologia mentale e spicciola che non mi comprende né tanto meno affascina.
 
Non c’è posto per me.
Non mi riconosco in nessuno.
Pensavo che certe suddivisioni sociali esistessero solo nei film. A volte nei libri.
Ma non qui, non a New York.
 
Sospiro e decido di muovermi, gli occhi fissi oltre le vetrate: dei finestroni enormi circondano il lato esterno dell’edificio, quello che dà sulla strada che si affaccia su Fort Greene Park.
Il sole se n’è andato, nuvole grigie hanno preso il suo posto, ma per fortuna questo specchio di vetro verso l’esterno mi ricorda che non sono chiusa in una caserma, ma in realtà è qui che dovrei passare gli anni più belli della mia vita.
 
Sbuffo, contrariata e impaurita, mentre mi faccio largo tra gli studenti ancora in piedi, schivo la spalla di un tipo che si muove d’improvviso senza vedermi e per fortuna evito il bicchiere d’acqua che una ragazza lancia contro il suo ipotetico fidanzato urlandogli contro ingiurie irripetibili. Poso il vassoio su un tavolo e mi siedo in mezzo a un gruppo di ragazze che non conosco, mi sembrano normali – se è una definizione che si può usare in una città come questa – ma nessuna di loro mi rivolge la parola, si limitano a scambiarsi qualche gomitata e a fissarmi a bocca aperta come fossi un alieno.
 
“Scusami… Elena, giusto?” – una voce familiare e concitata mi raggiunge, alzo gli occhi e in piedi accanto a me trovo Caroline Forbes – “Quello è il mio angolo. Ti sei seduta nel mio posto” – ripete, contrariata, alzando gli occhi al cielo e facendoli roteare in gesto degno delle migliori attrici comiche.
 
“Oh… non sapevo che i posti fossero prenotati” – mi alzo, scoordinata, e faccio cadere a terra la mela che mi rigiravo tra le mani per ingannare l’agitazione crescente.
 
“No… in realtà non lo sono. Ma questa è la mia sedia da cinque anni!” – sentenzia gettando la borsa sul tavolo e quasi rischia di rovesciare a terra tutto il contenuto del mio vassoio.
 
“Senti Caroline. Io non voglio dare fastidio a nessuno” – sospiro cercando di ricacciare indietro le lacrime di spossatezza che mi si affacciano sulle ciglia – “puoi dirmi per favore dove posso mangiare? Sono nuova qui e nessuno mi aiuta”
 
Fa male.
Fa male allo stomaco.
Anche questo fa male.
Ultimamente tutto fa male.
Elemosinare una gentilezza.
Un sorriso.
Un attimo di comprensione.
Mi gira la testa.
Sono stanca. Stanca dentro.
E di lottare non ho nessuna voglia.
Nessuna forza.
 
“Oh si” – mi risponde la bionda, guardandosi intorno – “puoi sederti lì o lì o lì… oppure ecco, laggiù sarebbe perfetto” – mi indica un tavolo appartato, con un lato attaccato al muro dove sarei costretta a sedermi dando le spalle a tutti.
Come se non fossi neanche degna di osservare.
 
“E’ il tavolo delle punizioni?” – le chiedo cercando di sdrammatizzare – “mi mettete all’angolo?” – le mani perse di nuovo tra la lana del maglione enorme che indosso, il labbro inferiore massacrato dai canini mentre la mela è ormai una pallina sotto il mio piede – “va bene, ho capito. Tolgo il disturbo” – prendo il mio vassoio e faccio per allontanarmi ma quando sento le risate delle ragazze sedute arrivarmi alle orecchie lo poso di nuovo giù con un gesto brusco che finisce per far sbattere insieme piatti, bicchieri e posate.
 
“Ma che problemi avete tutti qua dentro?” – mi guardano, allibite, come se fossi pazza – “Mi è passato l’appetito Caroline. Se vuoi mangiare prendi pure il mio pranzo. Altrimenti dovrai scomodarti per buttarlo via. Non voglio stare qui dentro un secondo di più”
 
Afferro la mia borsa e cerco di superare la bionda che mi si para davanti sorridendo appena, sarcastica.
 
“Elena… io non so neanche chi sei. Sei tu ad avere dei problemi”
 
Incasso anche questa.
Una in più non può di certo farmi più male di quanto già faccia.
 
Non riesco a rispondere e lascio che quegli occhi chiari mi osservino con attenzione. Tutta. Dalla testa ai piedi. Come se fossi una cavia da laboratorio.
 
“Hai finito di guardarmi? C’è qualcosa che non va nel mio abbigliamento?” – la provoco, e appena finisco di aggredirla mi rendo conto che le parole sono uscite da sole come spinte da quell’istinto di sopravvivenza che mi accompagna da mesi.
 
“Si, in effetti non sei…” – borbotta, mentre con le mani disegna la figura inconsistente di un  corpo femminile.
 
“..non sono bella? Poco alla moda? Grazie. Sei molto gentile”
 
“No Elena, volevo solo dire che…”
 
Ma non la lascio finire, mi allontano da quegli occhi indagatori il più in fretta possibile e finisco per sbattere senza volere contro qualcosa di duro. Il petto di un ragazzo alto, dalle spalle larghe che mi guarda stupito.
 
“Ehi Care… va tutto bene?”
“Si, certo Matt. Solo un disguido con quella nuova”
 
Un altro tipo con la stessa felpa. Biondo con gli occhi azzurri e la mascella disegnata.
Un tipo tutto palestra e apparenza.
Senza dubbio un amico di quell’idiota patentato di Loockwood.
 
“Scusami” – balbetto, ancora appoggiata contro il suo petto – “voglio solo andarmene”
 
Lui mi fa spazio, si sposta di lato e quasi lo pesto, non alzo gli occhi per guardarlo, sono decisamente stanca di tutta la disapprovazione che sento intorno a me. Immagino che si avvicini a Caroline e la sfiori in un gesto d’affetto, storcendo la bocca stupito dal mio comportamento.
E lei scuote la testa, agita le braccia e mi liquida con un gesto infastidito della mano.
 
Si, proprio lei. Quella che ho osservato per giorni e che tanto mi piaceva.
Infondo, non sapendo neanche che faccia avesse, già desideravo il suo mondo. Chissà perché. Forse per la chitarra, o magari per la sciarpa di brillantini o semplicemente per le risate che rivolgeva a qualcuno fino a tarda notte.
In realtà adesso la odio con tutta me stessa.
Questa ragazzina pignola e precisina che crede d’avere il mondo in mano tanto da permettersi di urlare chiedendo spiegazioni per una rissa tra due stupidi in mezzo alla lezione di letteratura. Dev’essere un’altra di quelle stronze che giudicano chiunque per paura di parlare con se stesse.
 
“E’ una tipa strana e imbranata. Starebbe bene con April Young” – la sento commentare.
“Cosa c’entro io?” – una terza voce s’intromette.
“Niente April. Continua a sbavare dietro i pettorali di Matt” – poi se ne va, prima che io possa difendermi.
Ancora prima che possa pensare di farlo.
 
Scappo da quello stanzone, pestandomi i piedi, stringendo le dita contro la tracolla della cartella e ricacciando indietro le lacrime.
Non mi vedranno mai più piangere.
Non posso dargli questa soddisfazione.
Non a queste persone così meschine e poco altruiste.
 
In un attimo sono fuori dalla scuola, non ho mai corso così veloce in tutta la mia vita, neanche quando sono scappata di casa per restarmene  in quel bosco bruciato per vedere dove se ne fosse andato mio padre.
Per sentire quale fosse stato l’ultimo odore che ha percepito, l’ultimo orizzonte che ha osservato.
Per sentirmi più vicina a lui.
Sono rimasta lì, rannicchiata sull’erba annerita per ore, fino a quando il mio vicino di casa mi ha presa in braccio per riportarmi dalla nonna.
Credevo di aver corso tanto quel giorno.
Ma in realtà quel pomeriggio vagavo con l’anima oppressa dalla paura.
Adesso muovo i piedi uno davanti all’altro spinta dalla sacrosanta voglia di urlare.
Io che non ho mai urlato in tutta la mia vita.
Io che neanche so cosa significa aggredire qualcuno.
Io che odio la violenza e le imposizioni.
Io… io… a me che piace solo sognare dietro un buon libro.
 
Pensieri folli e contorti che si agitano dentro di me, tanto da aver tirato fuori il diario dalla borsa senza neanche essermene accorta.
Ho attraversato la strada, mi sono rifugiata dentro Fort Greene Park e ho iniziato a prendere fiato appoggiandomi al tronco solido di una quercia. Mi sono graffita il palmo delle mani passandole sopra la corteccia ruvida più e più volte, per sentire prima il bruciore salire sulla pelle e poi il dolore del graffio a chiudermi la gola.
Mi sono lasciata andare, seduta sull’erba ghiacciata e ho ripreso a respirare.
Come se quel dolore fisico potesse essere più forte della disapprovazione dispettosa che ho incontrato stamattina.
Mi sono autopunita.
Ho lesionato la pelle morbida delle mie mani.
Poi ho preso la penna e ho iniziato a scrivere, incurante del dolore.
 
Caro diario,
è stata una mattinata bellissima.
Mi sono alzata in orario, la scuola è vicina a casa e ho fatto colazione in un bar carinissimo.
Un bel ragazzo mi ha pagato il cappuccino e in classe mi hanno accolta a braccia aperte.
Sono finalmente felice dopo tanto tempo.
I sorrisi dei miei compagni mi…
 
Scarabocchio le bugie che ho scritto.
I sogni che mi ero creata nella testa, le fantasie a cui mi ero attaccata per sopravvivere.
 
Caro diario,
ho lottato con la voglia di piangere tutta la mattina.
Mi hanno fatta sentire inadeguata, brutta, grassa, inappropriata.
Ho sbattuto contro lo spigolo di un banco e adesso ho un livido enorme su un fianco.
Mi sono morsa la lingua e ancora fa un po’ male.
Odio il sapore del sangue tra le labbra.
Sa di peccato.
Non ho neanche pranzato… perché sono così inutile che nessuno mi ha spiegato dove avrei potuto sedermi. Mi hanno consigliato il tavolo dei peccatori… sbarrato contro un muro, avrei dovuto starmene lì da sola dando le spalle a tutti. Come se fossi in punizione.
E adesso ho fame.
La fame della stanchezza.
Una fame nervosa che mi attanaglia lo stomaco e mi fa scoppiare la testa.
Combatto per non piangere, ti rendi conto?
Io che ho sempre trovato dignitose le lacrime di chiunque.
Un’espressione della propria sensibilità.
Qualcosa di cui non vergognarsi mai.
Eppure… eppure mi hanno fatto notare che piangono solo i deboli.
Quelli per cui non vale la pena.
Come un fastidio.
Una spina sul fianco.
Una palla al piede da sganciare.
 
Hanno detto che sono strana.
Io?
Io che non ho mai litigato con nessuno in tutta la mia vita?
Ho solo chiesto aiuto, caro diario.
E adesso dovrei aspettare due ore per poi tornarmene in quella classe e spiegare qualcosa sulla letteratura inglese dell’età vittoriana a un perfetto idiota.
E… e lui dovrebbe aiutarmi a studiare chimica. O forse economia. O magari fisica.
Ho paura.
Di deludere la nonna e di fare male a me stessa.
Non voglio sentire più dolore di quello che già sento.
Ma io… io non sono brava a difendermi.
Ci ho provato… per un attimo, a farmi le mie ragioni ma adesso riesco solo a sentirmi colpevole per aver alzato la voce. Non voglio che si facciano un’idea sbagliata di me.
Perché non dovrebbe importarmi niente di tutta questa gente sconosciuta, ma in realtà vorrei solo essere apprezzata.
E odio avere questa consapevolezza.
Come faccio a restare qui fino alla fine della scuola da sola?
Come posso resistere?
 
Voglio tornare a casa.
Voglio la mia vecchia classe, non voglio stare qui tra queste bestie.
Ma chi l’ha detto che New York è la città delle possibilità?
Dei sogni?
Chi cavolo l’ha scritto per la prima volta?
Dio. Vorrei solo strozzarlo.
 
Fa male al cuore.
La verità è solo questa, caro diario.
Fa così male anche la rabbia che sento.
Mi fa male anche solo rendermi conto che sto giudicando persone che non conosco.
Che hanno una storia, dei dolori e dei ricordi con cui si scaldano il cuore quando fuori fa troppo freddo. Mi fa male rendermi conto che ho passato le ultime ore a pensare male di ogni persona che mi ha rivolto la parola.
Ho protestato anche sulle richieste del professore di letteratura.
Non voglio essere questo.
 
Mi torna in mente una frase del film ‘The big Kahuna’ quando Phil Cooper dice:
“vivi a New York per un po’, ma lasciala prima che t’indurisca”
Sono già diventata una persona diversa?
Dopo soli sette giorni lontano da casa?
Non mi piaccio.
Non vado bene così.
 
Io sorrido sempre e sono gentile con tutti, anche quando gli altri non lo sono con me.
 
Come con mamma e papà.
Non ho mai detto loro che sono arrabbiata, non gliel’ho mai detto davanti alle loro lapidi, non ho mai voluto che sapessero che mi sono sentita abbandonata. Come se il mio amore non fosse abbastanza. Non l’ho mai confessato neanche alla nonna.
 
Perché io non faccio del male.
Io non ne sono in grado.
 
Non vedo l’ora sia domani, caro diario.
Voglio scusarmi con Caroline Forbes. Forse lei cercava solo un modo per essere gentile.
 
 
Un fruscio di passi dietro di me blocca il flusso dei miei pensieri, mi sposto appena con la schiena contro la corteccia, poggio una mano sulla terra e strizzo gli occhi per il dolore dei graffi a contatto con l’erba.
Il professor Saltzman.
Tiro un sospiro di sollievo.
Forse anche lui ha avuto bisogno di un momento di pausa dalla scuola.
 
 
Damon
 
“Damon”
 
Una voce mi raggiunge alle spalle, la riconosco subito. Come non potrei.
Non mi volto, batto solo i miei anfibi neri contro il legno della panchina su cui poggio i piedi e mi stringo nelle spalle, mi piego ancora di più su me stesso poggiando i gomiti sulle cosce e facendo pressione col mio peso sul tavolo su cui sono seduto, nascosto tra gli alberi fitti di Fort Greene Park.
Forse questo posto è l’unico motivo per cui vengo ancora a scuola.
Sapere di potermi rifugiare qui, lontano da tutti, mi piace.
Lontano dalle chiacchere, dalle imposizioni, dal perbenismo falso con cui sono costretto a confrontarmi.
 
“Damon”
 
Ancora.
Dio, vattene.
Vattene via.
 
Sbatto più forte i piedi in segno di protesta, come se cercassi di allontanare un animale che cerca di spaventarmi. Come se davvero volessi cacciare via qualsiasi intrusione.
Come se fossi io, l’animale spaventato.
 
“Butta quello spinello” – il tono perentorio, quasi aggressivo.
E io rido, una risata profonda che parte dallo stomaco e che non riesco a controllare.
Il gusto amaro della consapevolezza che mi schiaffeggia in pieno viso.
E io rido, rido per contrastare l’istinto di correre via, ancora una volta.
 
“Sei patetico” – sbotto, così, osservando un punto lontano, una frasca ingiallita mossa dallo sbattere delle ali di un uccello.
Vorrei che fosse un gabbiano.
Uno di quelli grandi che si agitano a Coney Island a maggio, quando l’oceano è uno spettacolo bellissimo, pieno di luci e fiori, pieno di vita.
Quando amo New York, di un amore impossibile da cancellare.
 
“Smetti di fumare quella merda alle due del pomeriggio davanti alla scuola”
 
Ancora.
Ma la sua voce  adesso è più vicina, sento i suoi passi perdersi e frusciare tra le foglie secche, mentre mi limito a tirare su il colletto della giacca di pelle per ripararmi dalle sferzate del vento freddo.
 
“Mi hai capito?”
 
“Sennò cosa fai? Mi mandi dal preside?” – a questo punto mi volto, indifferente, chiuso in me stesso, mentre permetto agli occhi del professor Saltzman di stringersi su di me.
 
Ha ripreso la sua giacca di tweed, quella pesante, invernale. Quella che lo fa quasi sembrare un vero professore, non fosse per la camicia eternamente sganciata e mai inamidata, e per quel sorriso stronzo che mi ha salvato la vita chissà quante volte.
 
“Perché fai così?”
“Così come, Rick?” – sono stanco di discutere con lui.
Sono stanco di odiare e non comprendere la sua parte ordinaria.
“Così come uno stupido. Comportarti come uno sciocco. Come un ragazzino viziato”
 
“Rick. Ti prego” – mi allontano di nuovo da lui, con lo sguardo torno a perdermi chissà dove.
Ci sono così tanti alberi che quasi sembra buio.
E aspiro, profondamente, quel sapore dolciastro che mi rilassa.
E inebria giusto il tempo di qualche attimo.
“Non te l’ha mai detto nessuno che è vietato intromettersi nella canna di qualcuno che cerca un attimo di pace?” – lo schernisco, distendendo le gambe davanti a me, per ingannare l’apprensione che sento crescere dentro muovendomi un po’, il minimo necessario, prima di riportare quella cicca saporita ancora una volta tra le labbra.
 
E allora sento una presa ferrea stringermi la spalla e la sua mano afferrarmi il polso con forza. Abbasso le spalle, stanco di reagire e controbattere e non faccio resistenza. Alzo gli occhi verso di lui, in attesa.
 
“Dammi qua”
 
Mi sfila lo spinello dalle dita, glielo lascio fare, inerme.
Mi allungo con uno scatto verso la sua mano solo quando sembra che voglia lanciarlo lontano.
Poi si ferma.
Lo porta alle labbra.
 
E finalmente sorride.
 
Si siede accanto a me, nella mia medesima posizione e mi guarda, la testa leggermente piegata e gli occhi complici.
 
“Se ti vedono fumare ti licenziano” – lo prendo in giro, finalmente leggero. Un sorriso scanzonato mi sale alle labbra, d’improvviso, come se mi sentissi libero di rilassarmi almeno per un po’.
 
“Se sapessero tutto quello che faccio non mi farebbero insegnare da qui al Brasile”
 
Aspira, più forte di me, più uomo, con più bisogno e maggior consapevolezza.
Guardo Alaric e penso solo che sarebbe un buon amico, se non fosse… beh, se non fosse tutto quello che è.
 
“Complimenti per stamattina. Bella lezione di vita Rick… da quant’è che desideravi umiliarmi davanti a tutti?”
 
“Dallo stesso tempo in cui tu desideri prendermi a pugni”
 
Funziona così tra noi. Un botta e risposta che s’incastra perfettamente.
Nessuna confidenza di troppo.
Solo le nostre affinità che s’incastrano per il semplice fatto d’esistere… e di esserci incontrati.
Non ho paura di Rick.
Non l’ho mai avuta.
Neanche la paura di essere tradito. O ferito.
E’ troppo nobile per pensare di deludermi.
 
“Dove hai dormito queste notti? Sei stato da Caroline? Tua madre è preoccupata” – azzarda, fissando lontano, forse perdendosi dietro il mio stesso orizzonte.
I suoi occhi improvvisamente stanchi, adulti. L’espressione contrariata e impotente quasi riesce a farmi stringere lo stomaco in una morsa che non posso permettermi di sentire e accogliere.
 
“Sei qui per lei? Non m’interessa lo sai. Te l’ho già detto” – mi alzo parandomi davanti a lui.
Al mio professore che continua a fumare uno spinello e che mi guarda, come se potesse trovare quel punto dentro di me su cui fare leva per farmi inginocchiare.
 
“Damon se solo tu sapessi… se ascoltassi le sue ragioni…”
 
“Rick. Limitati ad andarci a letto, va bene? Non innamorartene. Mio padre se n’è andato per colpa sua” – gli do le spalle e mi allontano, lentamente, un passo dietro l’altro.
Infondo non so dove andare.
 
“Damon”
 
Ancora.
 
“Cosa vuoi Rick?” – non mi volto, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans congelati dall’aria fredda e umida. La schiena dritta, la testa alta. Improvvisamente mi accorgo di essere tirato come una corda di violino, fa male anche respirare.
 
Lo sento sbuffare, maledirmi in silenzio, borbottare qualche ingiuria nei miei confronti che finisce per farmi sorridere di un sorriso triste che mi fa sentire ancora più solo.
 
Poi sospira.
 
“Elena ti aspetta alle quattro. Mi raccomando”
 
“Sei tornato ad incarnare la parte del professore autoritario?” – lo canzono, rigido, sperando che il tono della mia voce non faccia trapelare quanto difficile sia per me, anche solo accennare a mio padre.
 
“Non sto scherzando Damon. Ti boccio per la terza volta, te lo giuro. Non andrai al college. Nessun soggiorno in Europa. Nessuna speranza per un futuro migliore”
 
“Va bene Rick. Fa come credi” – apro le braccia e  mi stringo nelle spalle mentre riprendo a camminare – “Vado al locale. Stasera suono” – e alzo la voce, il tono ironico con cui mi difendo sempre, avvicino le labbra e inizio a fischiare, chiudo appena gli occhi mentre mi lascio andare all’idea di una canzone che possa placarmi.
Non ho potuto farlo con lo spinello, ma posso sempre farlo con la musica.
 
Ma lui è svelto, a volte dimentico come ci siamo conosciuti – il famoso ‘Rick mano lesta’ di cui tutti parlavano, una garanzia nel mondo del malaffare di Brooklyn – e mi afferra una spalla, stringendo così forte da costringermi a piegarmi sulle ginocchia per non cadere.
 
“Damon” – mi ritiro su a fatica e lo sfido, il mio volto a pochi centimetri dal suo – “quella ragazzina ha passato le pene dell’inferno” – ma lui è stanco, come i suoi occhi, che non si staccano dai miei.
 
“Bene. Allora si trova nel posto giusto. Le manca solo da scegliere il girone in cui perdersi” – gli sorrido, e nel voltarmi tiro un calcio a una pigna che mi ritrovo tra i piedi, il rumore che fa sbattendo contro il tronco di un abete lascia che le proteste di Rick si perdano dietro di me.
 
“Leggi Dante, Damon?” – lo sento ripetere – “Eh… leggi Dante ragazzino?” – e lo so che sta camminando nella direzione opposta alla mia, magari prendendo a calci le foglie gialle e raggrinzite su se stesse, magari per fare rumore e non sentire il peso assordante dell’inadeguatezza.
Siamo agli estremi io e Rick, agli estremi di una stessa strada, come adesso, camminando in direzioni opposte.
Eppure mi chiama.
Continua a interrogarmi.
 
“Eh stronzo. Ti leggi l’Inferno di Dante prima di scoparti Rebeka Mikaelson?”
 
“Non so chi sia. Non so di chi tu stia parlando. Questo Dante… mi sfugge” – rispondo, gridando contro il vento che mi scompiglia i capelli, sapendo benissimo che Rick cammina lentamente per riuscire ad afferrare un mio segno di cedimento, per ricordarsi che infondo la voglio sempre per me, l’ultima parola.
 
“Fa che non lo sappia suo fratello, Damon. Sai a cosa vai incontro”
 
“Si fa di tutto…” – inizio, accentando il tono via via che le parole mi escono di bocca.
 
“…per un bel paio di tette” – finisce lui per me, come un mantra solo nostro, mentre ride, e il suono profondo della sua risata arriva alle mie orecchie trascinato dal vento.
E anche questa è musica, lo è così tanto che sorrido.
Forse più leggero, forse colpevole, probabilmente cupo. Come sempre.
 
Io e Alaric Saltzman, lungo una stessa strada, dandoci le spalle, dopo aver condiviso lo stesso spinello. E lo stesso senso oppressivo d’attesa. Di non so cosa.
 
 
***
 
Rannicchiata su se stessa e con la testa poggiata contro il vetro della finestra, Elena è bella.
Pensa questo Bonnie, appena oltrepassa la porta della classe e trova l’aula nella penombra, occupata da una ragazza nuova, che guarda la gente camminare frenetica fuori dal vetro.
Ha dei capelli bellissimi, lunghi fino a metà schiena, piena di riccioli ribelli che escono fuori dal fermaglio con cui si è appuntata due ciocche sopra la testa.
Ascolta la musica con le cuffie. Un paio di cuffie bianche con cui si diverte ad ingannare il tempo giocando con le dita sui fili che le attaccano ad un vecchio ipod.
Si domanda quale voce stia ascoltando, ancor prima di chiedersi chi sia.
Si domanda quale canzone malinconica dia voce alla sua presenza solitaria mentre gli ultimi corsi finiscono e tutti desiderano scappare fuori, immergersi nella vita, invece di nascondersi in un angolo buio di una classe qualunque di quell’immensa scuola.
 
Bonnie ha quasi paura ad avvicinarsi, non vuole disturbarla nella perfezione di quell’attimo solo suo. Si domanda quale mondo bello porti dentro di sé, per non aver paura del buio e del silenzio, per non sentire la necessità di dedicarsi ai fogli sparsi che ha sul banco contro cui è costretta.
 
Poi una lacrima le riga la guancia, ma la sconosciuta la cancella in un attimo, la porta via col dorso della mano in uno sbuffo che fa sorridere Bonnie di tenerezza.
Sembra abituata, questa ragazza, a cancellarsi i segni della tristezza dal viso.
 
Così Bonnie si siede nel banco più distante possibile, senza fare rumore, apre il suo libro di chimica e inizia a leggere. Parola dopo parola, riga dopo riga, spiegazione dopo spiegazione.
Appunta qualche formula su un foglio a quadretti e intanto sbircia l’orologio.
Le quattro e un quarto.
Le quattro e mezzo.
Dieci minuti alle cinque.
 
La sconosciuta è sempre lì, sembra non essersi mossa di un millimetro. Respira piano, con gli occhi socchiusi, le mani adesso intente a districare un ricciolo più ribelle degli altri.
Ha la pelle candida, nessuna traccia di trucco sul viso, neanche l’accenno di una riga di matita sugli occhi sfumata dalla giornata appena trascorsa.
Sembra avere paura a muoversi, sembra impossibilitata ad accorgersi della possibile presenza di qualcuno intorno a lei, dondola lenta su stessa col mento poggiato sulle ginocchia.
Chissà cosa pensa.
Dove si è rifugiata.
Per quale motivo si nasconde dal mondo e dai suoi rumori.
Chissà perché sbircia solo la vita degli altri, fuori dalla finestra.
 
Si domanda questo Bonnie, mentre cerca il modo migliore per parlarle, per provare a chiederle se ha bisogno di un fazzoletto con cui asciugarsi meglio gli occhi umidi.
Perché appena li apre, sono due laghi così grandi che riflettono la lucentezza delle lacrime trattenute anche a distanza.
 
Poi d’un tratto Elena si volta e le sorride.
Ma non con la bocca.
Elena sorride con le labbra, e con la lingua che esce dispettosa dai denti. Sorride con la smorfia imbarazzata che fa quando si accorge che ridere presuppone strizzare gli zigomi e muovere gli occhi, così che le lacrime trattenute scendano leggere a decorarle le guance.
 
“Scusami oggi sono un disastro” – queste le prime parole che le vengono in mente, quando Bonnie si alza per andarle incontro porgendole il suo fazzoletto rosa, quello decorato con le iniziali di sua nonna: Sheila Bennet.
 
 
Elena
  “Io sono un disastro per i restanti giorni dell’anno” – mi risponde questa ragazzina minuta dalla pelle scura e il sorriso buono – “quindi non preoccuparti. Sei nuova qui?”
 
“Si. Oggi è il mio primo giorno di liceo dell’ultimo anno. E sto piangendo ascoltando vecchie canzoni di Lene Marlin” – sospiro tirandomi su i capelli e fermando la massa di ricci con un lapis – “sto aspettando da un’ora un mio compagno per una lezione di recupero e non so dove sia né come rintracciarlo. In realtà dubito che si presenti. E sto parlando senza sosta senza neanche chiederti il tuo nome” – mi scuso alzandomi finalmente in piedi e porgendole la mano – “Sono Elena. Il mio nome è Elena”
 
“Io sono Bonnie” – contraccambia la mia stretta di mano con decisione – “e anch’io sto aspettando uno studente che non si presenterà mai. Quindi… io e la chimica ci siamo prese un appuntamento in solitaria” – scherza, per cercare di farmi sentire meglio.
E’ la prima persona che ci riesce negli ultimi sette giorni.
 
Mi piace questa ragazza.
E’ schietta.
 
“E… se posso chiedertelo, Elena, chi stai aspettando?”
“Damon. Damon Salvatore. Credo si chiami così. Dobbiamo preparare una ricerca di letteratura per il professor Saltzman” – le spiego mentre riordino i fogli sparsi sul banco per richiudere la cartella e decidermi a tornare verso casa – “grazie per il fazzoletto Bonnie. E scusami se l’ho bagnato, io… io ho qualche problema d’emotività ultimamente”
 
Poi il mio stomaco brontola. Un  gorgoglio forte e deciso che m’imbarazza, così mi stringo ancora una volta le braccia intorno al corpo per difendermi: dal suo sguardo e dalle mie reazioni involontarie. E’ tutto motivo di vergogna, mi sento scoperta, un libro aperto per tutti… che qui sembrano mascherare i loro sentimenti dietro comportamenti arroganti con una facilità che mi lascia senza parole.
 
“E’ che… non ho pranzato. Credo di avere fame” – mi affretto a prendere le mie cose e allontanarmi da lei – “Scusami ancora. Devo andare” – ma lei continua a fisarmi con quegli occhi buoni e rassicuranti che mi spingono lentamente a distendere il mio corpo in un sospiro tranquillo, e aperto, bisognoso d’attenzioni… come tutto di me.
 
“C’è un bar qua vicino. Vuoi che ti accompagni a mangiare qualcosa?” – la sua voce è dolce, come se parlasse a un bambino, o a un cucciolo ferito.
 
“Oh si, si… si, certo. Lo faresti davvero?”
 
“Mi vedi Elena?” – mi domanda lei mentre divarica le gambe e apre le braccia per mostrarmi il suo corpo – “Sono una ragazza di colore che vive nel Bronx e che frequenta una scuola pubblica a Brooklyn. I miei vicini di casa non apprezzano che mi mescoli con i bianchi. Capisco perfettamente il tuo senso d’inadeguatezza” – poi mi afferra la mano e mi porta fuori dalla classe, mi trascina dietro di sé e continua a parlarmi, senza sosta, senza darmi il tempo di pensare a nient’altro oltre alle sue parole – “Dovrai sceglierti un armadietto tutto tuo dove posare i libri e tutte le tue cose per non portarti la borsa dietro tutto il giorno. Hai già scelto i corsi supplementari? Ce ne sono di bellissimi davvero. Interessanti… cose che puoi studiare solo qui. Il professor Wes fa un corso di microbiologia che è la fine del mondo…” – a quel punto la interrompo, spaventata dal solo sentir nominare quell’uomo al ricordo della prima insufficienza imbarazzante della mia carriera scolastica.
 
“Io… io e il dottor Wes non andiamo d’accordo. Vengo da una scuola per sole ragazze in Colorado dove non si studiamo materie scientifiche e…”
 
Le mani di Bonnie si posano sulle mie, che gesticolano agitate verso di lei, mi stringe forte le dita e mi placa, congiungendo le nostre mani insieme in un gesto dolcissimo che mi scalda il cuore. Quello di cui avevo bisogno.
 
“Adesso capisco le ripetizioni con Damon Salvatore” – sorride, in mezzo al corridoio, io e lei circondate da armadietti e mattonelle a scacchi bianche e nere – “è il preferito del professore”
 
“Ah. Lo conosci bene?” – domando, un po’ incuriosita e un po’ spaventata dalla possibile risposta.
 
“So quello che sanno tutti di lui. E’ un tipo strano e solitario, poco socievole. Uno di cui non fidarsi mai”
 
“Immaginavo. Stamattina ha preso a pugni uno in classe e…”
 
“Non hai visto niente Elena. Non è mai successo, okei? Qui fatti sempre gli affari tuoi. E’ la prima regola per sopravvivere” – mi avvisa, i suoi occhi neri che si stringono in due fessure verso di me – “E Damon è il preferito di Wes solo perché io sono al quarto anno e lui all’ultimo. Voglio solo che bocci anche quest’anno così da poter frequentare la sua stessa classe e dimostrargli chi è davvero bravo in chimica. Quella sono io, non lui” – e torna a sorridermi, facendomi l’occhiolino e tirando fuori la lingua in una boccaccia che sdrammatizzi il suo tono perentorio.
 
Poi Bonnie apre il suo armadietto, afferra la sua giacca e la indossa con eleganza.
E’ lieve.
Penso questo di lei.
Si muove con una gentilezza elegante che mi affascina.
Eppure parla con così tanta sicurezza da farmi desiderare di essere un po’ come lei.
Forte e leggera.
Affascinante.
Un po’ misteriosa.
 
“Andiamo a prenderci un frappè che ne dici Elena? Ne fanno di buonissimi al cioccolato. E per le tue lezioni di recupero ci penso io. Damon è senza dubbio inaffidabile”
 
“Forse dovrei chiedere al professor Saltzman…” – balbetto mentre la seguo verso l’uscita.
 
“No. Assolutamente. Qui ognuno lavora per sé. Damon non si è presentato. Tu troverai il modo di finire il tuo lavoro senza di lui. Chiaro?”
 
“Bonnie io…”
 
“Si?” – si ferma sulle scalinate per guardarmi meglio – “va tutto bene, stai tranquilla” – mi stringe un braccio per lasciare che il calore delle sue buone maniere mi inondi tutta – “Questa è New York, Elena. T’indurisce… ma è meravigliosa. Fidati di me”
 
Forse anche lei ha bisogno di un’amica.
O forse è solo gentile.
Ma al momento non m’importa.
Ho fame e questa ragazza dalla pelle olivastra e i vestiti colorati è la prima ancora di salvezza che trovo a cui aggrapparmi. E mi piace.
Fidarmi di qualcuno… così, d’impatto, senza ammazzarmi di domande, mi piace.
 
“Bonnie grazie” – mi getto verso di lei e la stringo in un abbraccio, il primo che ricevo da troppo tempo – “scusami, è che io…”
 
“…ti senti sola, Elena. Lo so. Ci siamo passati tutti” – mi sussurra all’orecchio, per poi sfilare il lapis dai miei capelli e sorridermi quando mi ricadono sulle spalle in una massa selvaggia – “basta piangere, va bene? Damon Salvatore non merita la tua tristezza”
 
E lei ha ragione.
Ma io di questo tipo non so niente, se non che i suoi occhi sono color del cielo.
 
Camminiamo insieme, lungo il marciapiede, in silenzio, e non mi sento a disagio con lei.
E’ un silenzio buono, il nostro, educato. Non invadente. Posato.
E se tutto restasse così come adesso, potrei decidere di visitare Manhattan per la prima volta, se questa ragazza appena conosciuta decidesse di accompagnarmi.
Fantastico un po’ su come sarebbe bello vivere qui e avere un’amica del cuore con cui condividere i pensieri davanti allo skyline, sotto il ponte di Williamsburg, dove tutto sembra bello e possibile.
La sera potrei camminare parlando con lei, invece di contare i mattoncini rossi delle case che mi separano da quello spettacolo.
Potrei camminare con lei lungo l’Hudson invece di scrivere sempre sul diario.
 
Vorrei… potrei… dovrei… vivere.
 
“A cosa pensi?” – mi domanda lei, fermandosi davanti alla porta di un bar da cui proviene un buonissimo odore di caffè. E’ un posto carinissimo, con i tavolini fuori dove le persone bevono caffè scaldandosi le mani con i bicchieri fumanti o togliendosi i guanti e soffiandosi sui palmi stretti intorno alla bocca.
Un mosaico colorato decora la parete esterna del palazzo, prima che le vetrate mostrino l’interno del locale costruito perfettamente all’angolo: tavolini in legno, pareti gialle e quadri colorati alle pareti.
E’ un posto kitsch, oserei dire.
Un po’ come Bonnie.
 
“Pensavo a come sarebbe bello avere un’amica qui” – confesso, abbassando subito lo sguardo verso le mie converse bucate e muovendo i pollici verso l’alto per vedere il calzino rosa sbucare contro il buchino della stoffa nera, mascherando in qualche modo la mia debolezza.
 
“Ci sono qua io adesso, no? Andiamo a fare due chiacchere” – Bonnie apre la porta di vetro e una melodia country ci scalda facendoci subito dimenticare del vento freddo che spettina gli alberi e le persone – “da qualcosa dobbiamo pur cominciare, no?”
 
“Certo” – rido, verso di lei, e neanche mi accorgo che sto saltellando di gioia mentre raggiungo un tavolino su cui sedermi e Bonnie prende al volo un menù da una dispensa improvvisata per il pubblico alla nostra destra.
 
“Scegli tutto quello che vuoi” – mi incita prima di allontanarsi un attimo e correre ad abbracciare una ragazza bionda che mi dà le spalle.
 
“Bonniiieeeeeee tesoro come stai?”
Ormai riconosco perfettamente quella voce squillante.
E’ Caroline Forbes.
Ed è sua amica.
Gesticolano tra di loro, complici, spintonandosi un po’, prima di dirigersi verso di me.
Non so cosa fare, forse potrei prendere la palla al balzo e scusarmi subito con lei, per evitare ulteriori incomprensioni, o magari potrei semplicemente voltarmi dall’altro lato fingendo di non vederla. O molto probabilmente la bionda si sarà già dimenticata della mia esistenza: io che sono quella strana e imbranata.
 
“Vi aspetto stasera, va bene?” – le sento dire a Bonnie – “non potete mancare. Alle dieci davanti ai cancelli della scuola, sarà una festa bellissima, alcool musica e… no, no nessuna droga. Solo sano divertimento” – scherza poggiando dei volantini sul tavolo e sfiorando appena un mio braccio – “vieni anche tu, Elena, che dici? Ormai fai parte della classe”
 
E io resto a guardarla, sorridendole appena e passando gli occhi su quel volantino futurista dove su uno sfondo nero  troneggiano in rosso le parole “Brooklyn Technical High school party. Impossible is nothing”.
 
 
 
 
  • Note dell’autrice.
 
Ecco per voi il terzo capitolo.
Ci sono alcuni incontri, un nuovo personaggio, alcune dinamiche che piano piano prendono forma.
Troverete alcuni imput che vi faranno domandare chi e che cosa succederà,
chi sono veramente queste persone, cosa nascondono,
spero di avervi incuriosito,
piano piano avrete tutte le risposte del caso.
 
Vi ringrazio per le bellissime recensioni, siete così buone e belle che non so mai come ringraziarvi. Spero che le mie parole continueranno sempre a scaldarvi il cuore,
o per lo meno a regalarvi una piccola emozione.
E’ il minimo che possa fare per sdebitarmi.
 
Questa è la Brooklyn Technical High School

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/ff/Brooklyn_Tech_High_School.jpg
 
e davanti si apre davvero il Fort Greene Park dove si rifugiano Damon, Elena e Rick.
Eccolo in autunno.

http://www.lacasapark.com/la/wp-content/uploads/2009/11/IMG_4192-1024x768.jpg
 
La quercia di Elena

http://farm8.staticflickr.com/7163/6422995133_bd2f683cce.jpg
 
E il caffè dove Elena e Bonnie trovano Caroline

http://archives.jrn.columbia.edu/2009/thebrooklynink/wp-content/uploads/2008/12/dsc_0145-11.jpg
 
Questo quello che vede Elena quando osserva il tramonto da sotto il ponte di Williamsburg

http://www.nuok.it/wp-content/uploads/2012/03/EastRiverStatePArk_Manhattan-592x442.jpg
 
Spero di avervi regalato qualche minuto piacevole.
 
E quello che trovate scritto su New York, su Williamsburg, sul Bronx… sono tutte nozioni che ho appreso nel mio secondo viaggio nella Grande Mela, parlando con una ragazza italiana che vive lì ormai da dieci anni.
 
E grazie, ancora, di tutto.
A chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite, ricordate.
Fatevi sentire.
Lasciatemi le vostre impressioni.
Le vostre supposizioni.
Quello che sperate che succeda.
Sarà una storia al limite… o per lo meno questo è quello che spero di creare.
 
Ne approfitto per ringraziare Bloodstream con tutto il mio cuoricino.
Per il banner bellissimo, per gli incoraggiamenti e gli scleri.
Per la presenza.
 
Un abbraccio a tutte.
Siete importanti.
 
Elise.
  
Leggi le 20 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: Elisewin Ci