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Autore: Latis Lensherr    13/02/2014    10 recensioni
La notte in cui Lord Voldemort venne sconfitto dal piccolo Harry, Albus Silente si recò nella casa devastata dei Potter a Godric's Hollow. Lì, fra le macerie e la morte, s'imbatté nel corpo senza vita di una donna di cui l'intero Mondo Magico non conosceva né nome né storia. Si tratta di Phoebe Hool: la persona - l'unica persona - che rimase al fianco dell'Oscuro Signore praticamente per tutta la sua vita. E sarà proprio attraverso i suoi numerosi ricordi che, sedici anni dopo, lo stesso Silente e il Bambino Sopravvissuto intraprenderanno un viaggio che li condurrà negli angoli più bui e mai esplorati della vita del più grande e temuto Mago Oscuro di tutti i tempi.
[Versione revisionata e migliorata di una pubblicazione precedente.]
Genere: Azione, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Silente, Harry Potter, Nuovo personaggio, Tom O. Riddle
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '"All that's done is forgiven"'
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Capitolo dodici: Riunione di famiglia

 

 

For the life of me I cannot remember.

For the life of me I cannot believe.”

 

(“Freshmen”; The Verve Pipe)

 

 

< Pizzica > si lamentò Phoebe Hool spostando istintivamente la testa, mentre l’unguento molle e appiccicoso si appoggiava sulla ferita in mezzo ai suoi capelli causandole un pizzicore veramente insopportabile.

< Se tu stessi ferma a quest’ora avremmo già finito > la rimproverò Tom Riddle con tono distratto, mentre cercava di concentrarsi sul modo in cui stendeva la pomata, nel tentativo di renderla uniforme su tutti i punti. < Purtroppo non conosco nessun incantesimo che faccia ricrescere i capelli, ma appena torniamo a scuola faccio un salto in Biblioteca. Per ora, questa dovrebbe bastare per far rimarginare la ferita senza problemi.>

La ragazzina, che si era seduta a gambe incrociate sul tavolo di legno dopo aver allontanato e sistemato in disparte le pentole sporche, teneva la testa piegata in avanti e con le mani sollevava i lunghi capelli neri, che Tom aveva prontamente liberato dal loro consueto laccio. Le dita del ragazzo facevano una pressione dolce e gradevole, mentre massaggiavano la porzione di cuoio cappelluto ferito. Poco dopo, l’altra percepì il contatto compatto e sfrusciante di un pezzo di garza che veniva posizionato sopra l’unguento, in modo che non si disperdesse o le macchiasse in qualche modo i vestiti. L’aveva resa un po’ appiccicosa, perché non si muovesse da dove l’aveva posata.

< Voltati > le ordinò con tono calmo, allontanando le dita dalla garza.

Phoebe si voltò, ubbidiente, allungando le gambe e lasciandole penzolare dal bordo del tavolo. Le mani del ragazzo le scivolarono dietro le orecchie, dove le dita ricominciarono a pigiare piano la garza nel tentativo di farla aderire perfettamente.

La ragazzina percepì distintamente la faccia avvampare a poco a poco sotto il contatto dolce dei pollici di lui, che si muovevano lentamente sulla linea delle sue guance. Lui si avvicinò di un passo, senza mettere fine allo scorrere leggero delle sue dita sul pezzo di garza. Era così vicino da farle mancare il fiato. La ragazza aveva smesso di pensare: esistevano solo gli occhi di Tom. Lo stomaco le sfarfallava tanto forte che sembrava volesse prendere il volo da un momento all’altro e aveva perso sensibilità nelle gambe: le sentiva molli e tremavano enormemente. Era in completa balia di quelle mani morbide, di quegli occhi…era completamente, incondizionatamente e volontariamente in suo potere. In quell’esatto momento, acquisì la chiara consapevolezza che avrebbe fatto qualunque cosa. Per lui.

Improvvisamente Tom allontanò le mani dal suo viso, bruscamente. E anche Phoebe si riscosse in malo modo, quando il ragazzo le domandò a bruciapelo:

< Perché mi stai guardando in quel modo?!>

< Oh! No! Niente…io…devo essermi incantata > farfugliò in risposta lei, abbassando lo sguardo e arrossendo ancora più di prima. Ricominciò a respirare normalmente solo in quel momento: si sentiva come se fosse stata risvegliata da un incantesimo, come se fosse uscita malamente da una prolungata seduta di ipnosi.

< Ad ogni modo >, cominciò il ragazzo con il suo consueto tono distaccato, come se avesse ripreso una discussione che avevano lasciato in sospeso, < se proprio vuoi utilizzare il Flipendo durante un combattimento, cerca almeno di tenere salda la bacchetta e di prendere bene la mira.>

La ragazzina, sempre con lo sguardo basso, fece un cenno di sì con la testa e subì senza dire nulla la frecciatina dell’amico.

Lui si allontanò di qualche passo e si diresse verso la poltrona sfondata, dove il proprietario della catapecchia era stato sistemato e giaceva ancora privo di sensi, rimanendo a osservarlo per qualche istante.

Prima di occuparsi di Phoebe e delle sue ferite Tom si era assicurato che l’uomo fosse veramente fuori combattimento e, dopo averlo rimesso a sedere, aveva puntato la bacchetta verso la folta e trascurata chioma di capelli, pronunciando con decisione:

< Incarceramus.>

Immediatamente, la punta della bacchetta aveva rigettato un gran numero di corde che si erano avventate velocemente sul corpo esanime, ricoprendolo interamente e legandolo stretto.

In questo modo, l’uomo non avrebbe più avuto possibilità di muoversi e sarebbe stato più…gestibile.

Non lo imbavagliò: dubitava che fosse il tipo che si mettesse a urlare per cercare aiuto ma, soprattutto, dubitava che qualcuno si sarebbe preso il disturbo di risalire il colle e attraversare la fitta boscaglia per soccorrerlo. Poi, con meno esitazione di prima, armeggiò con le logore mani chiuse a uncino, che stringevano ancora con forza la piccola lama e la vecchia bacchetta. Le allontanò dallo “zio” e le fece sparire in una delle tante tasche del mantello nero. Mentre era indaffarato a sfilare dalla mano sinistra la bacchetta, la sua attenzione fu richiamata verso una specie di brutto anello nero che circondava il dito medio dell’ubriacone. La foggia non era delle migliori, somigliava più ad un pezzo di legno intagliato che a un gioiello. Ma ciò che lo attirò più di tutto il resto fu la grossa e rozza pietra incastonata, decorata da una P maiuscola piena di svolazzi e ghirigori, che doveva essere una specie di blasone. Rimase a pensare per qualche secondo poi, strattonandolo con forza e rischiando seriamente di spezzare il dito dell’uomo, fece scivolare il gioiello via dalla sua mano. Doveva essere passato parecchio tempo dall’ultima volta che lo aveva tolto, perché la parte che fino a quel momento era stata nascosta dall’anello era più chiara e più pulita del resto della mano. Tom si allontanò lentamente, rigirandosi il monile fra le dita.

E in quel momento, dopo essersi distanziato dal tavolo e da Phoebe ed essersi appoggiato al muro vicino alla finestra, l’aveva nuovamente estratto dalla tasca e si era rimesso a esaminarlo. La ragazzina, ancora seduta sul tavolo e leggermente scossa, lanciò uno sguardo prima al ragazzo e poi un altro verso il suo aggressore, che ancora dormiva con il capo che ciondolava pesantemente da un lato. Ritornò a guardare Tom e, non riuscendo più a trattenersi, domandò incerta:

< Cosa ti fa pensare che…che lui sia tuo zio?>

Lui non rispose subito. Sembrava che non l’avesse nemmeno sentita. Faceva scorrere i polpastrelli sulla P decorata, assorto nelle sue riflessioni. La ragazzina aspettò un po’ poi, cominciando seriamente a pensare che non l’avesse proprio sentita, aprì la bocca per parlare di nuovo, ma lui fu più veloce di lei e, dopo aver lanciato uno sguardo indecifrabile verso l’uomo legato alla poltrona, rispose:

< Ho fatto delle ricerche.>

Phoebe Hool non poté fare a meno di trattenere il fiato per un secondo. Erano anni che il suo migliore amico non faceva altro che riempirle la testa con tutte quelle cose: il suo incontrollabile desiderio di rintracciare la sua famiglia, di scoprire chi fossero i suoi genitori e quali fossero le sue vere origini, così da capire un po’ meglio anche chi era lui davvero. Gliene aveva sentito così tanto parlare, lo aveva seguito per così tanto tempo nelle sue fantasticherie che era arrivata al punto di considerare tutti quei progetti e tutti quegli obiettivi al pari di sogni sfocati, qualcosa che sapeva gli appartenessero completamente ma che, allo stesso tempo, sapeva fin troppo bene che non sarebbe mai riuscito a raggiungere o afferrare a piene mani.

Era possibile che ce l’avesse fatta davvero?

< Lui è…un Riddle? > domandò ancora la ragazza, sbalordita. < Quest’uomo è fratello di tuo padre?>

< NO!> sbottò il ragazzo, lanciandole un’occhiata rabbiosa. Aveva risposto con più slancio di quanto avesse voluto – se n’era accorto anche lui – perché subito dopo si calmò, mentre osservava Phoebe che lo ricambiava con uno sguardo confuso. Lei non sapeva nulla e lui non era ancora pronto per parlare di suo padre. La rabbia gli scattava ancora dentro come una molla impossibile da fermare, quando pensava a quello che era, con tutta probabilità, il suo genitore Babbano. Non riusciva a sopportare l’idea che, fra i suoi genitori, non fosse il padre a essere un mago, perché questo voleva dire che, allora, doveva essere per forza sua madre a essere una strega. E il fatto che l’uomo che l’aveva aggredito possedesse una bacchetta e che fosse riuscito a lanciare l’Incantesimo di Disarmo, confermava ampiamente questa ipotesi.

Ma allora, perché sua madre era morta dandolo alla luce? Perché non aveva usato le sue capacità magiche per salvarsi? Perché non era rimasta in vita per stare con lui?!

Scrollò leggermente il capo, per scacciare quei pensieri che facevano più male di quanto volesse. Ricacciò l’anello nero in tasca e, mettendo mano alla tracolla di pelle, si avvicinò al tavolo di legno dove la ragazzina lo osservava ancora in silenzio. Rimase con il braccio immerso nella borsa per qualche istante e, infine, ne estrasse alcuni rotoli di pergamena avvolti con cura. Tom li porse a Phoebe e rimase in silenzio a guardarla, mentre con mano esitante li disfaceva piano.

Prima che riuscisse ad afferrarle, tre foto in bianco e nero le caddero in grembo. Raffiguravano due ragazzi e una ragazza, tutti con la divisa scolastica di Hogwarts: Phoebe ipotizzò che il suo amico le avesse recuperate dagli album scolastici che la scuola conservava in un reparto riservato della Biblioteca. Evitò di pensare a come fosse riuscito a procurarsele. Sul retro, scritti con la grafia curata e netta di Tom, c’erano segnati tre nomi.

Orvoloson Gaunt, la cui foto era decisamente più vecchia e deteriorata.

Orfin Gaunt. Osservando il volto giovane e abbastanza piacente ritratto nella foto – l’unica e sola cosa che stonava era l'evidente strabismo dello sguardo – la ragazza faticò a riconoscere in quell’Orfin l’uomo che, circa mezzora prima, l’aveva assalita strappandole i capelli. Aveva un’espressione seria e ostile, ma aveva anche una bella forma del viso, labbra piene e lunghi e sottili capelli neri, perfettamente pettinati e legati in una bassa coda di cavallo, che gli circondavano il viso. Per un momento, pensò che la piega imbronciata delle labbra di quel giovane Orfin somigliasse in maniera sorprendente alla piega che assumeva la bocca di Tom, quando era arrabbiato o infastidito per qualcosa. Intravide lo sguardo del suo amico in quello burbero e arrogante di Orvoloson, che guardava verso l’obiettivo con una saccente aria di sfida. Ed era sicura di avere già visto nel suo migliore amico anche quel taglio della bocca, deformato in un ghigno spocchioso. Per quanto riguardava il resto del volto, sicuramente Tom non aveva ereditato nulla dai Gaunt: non c’era la minima traccia dei loro geni sul viso e il corpo perfetto del ragazzo. Solo alcune espressioni li accomunavano.

L’ultima foto, quella della ragazza, sembrava essere la più stropicciata, come se qualcuno se la fosse tenuta davanti agli occhi per molto, molto tempo. Aveva gli stessi capelli neri e sottili del padre e del fratello, con il quale poi condivideva anche lo stesso strabismo, sebbene in modo molto meno accentuato. A differenza degli altri due, però, il suo sguardo e la sua espressione non presentavano nessuna traccia di insolenza o superbia, nessun sentimento di sfida o di ostilità: a Phoebe sembrò che fosse…irrimediabilmente triste. Ma non quel tipo di tristezza passeggera, quella che forse l’aveva colpita il giorno in cui si era fatta scattare la foto e che era sparita il giorno seguente. No. Sembrava una tristezza più profonda, saldamente radicata nel suo animo. Talmente a fondo che, oramai, era diventata una parte di lei.

Girò la foto e lesse il nome: Merope Gaunt.

Sebbene la calligrafia fosse sempre quella precisa e sicura di Tom, la ragazza notò delle leggerissime, quasi impercettibili sbavature nel tratto. Possibile che la mano del ragazzo stesse tremando, quando aveva scritto quel nome?

< Se le mie ricerche sono giuste >, disse lui, rompendo il silenzio e sfilandole piano dalla mano la foto, < lei doveva essere mia madre.>

Phoebe alzò lo sguardo verso l’altro: fissava la foto con un’amarezza che non gli aveva mai visto, in tutti gli anni che si conoscevano. Le si strinse il cuore. Avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo forte, fare qualsiasi cosa che potesse confortarlo almeno un po’, che potesse fargli capire che nonostante tutto lei era ancora lì con lui. Ma non fece nulla di tutto questo. Dopo tutti i loro litigi non aveva idea di che tipo di rapporto fosse diventato il loro. Non riusciva nemmeno più a immaginare come Tom avrebbe potuto reagire di fronte a un suo abbraccio. Quindi si limitò ad appoggiargli una mano sul braccio, stringendoglielo piano.

Lui si riscosse immediatamente e, in meno di un secondo, sparì anche l’espressione triste che aveva avuto fino a quel momento. E parlò, con tono duro, come se non sopportasse il fatto di aver avuto quell’attimo di…di cosa?

< Dopo il giorno in cui trovai quella medaglia di bronzo, decisi di interrompere le ricerche su mio padre e di concentrarmi invece su quel nome: Orvoloson Gaunt. Era un vecchio battitore della squadra di Quidditch di Serpeverde e, infatti, mi sono imbattuto nel suo nome in diversi altri riconoscimenti. Certo, all’inizio non ero sicuro che potesse trattarsi davvero di…mio nonno, ma il nome Orvoloson non è molto diffuso e, basandomi sugli anni in cui frequentò Hogwarts, sono riuscito a calcolare la sua data di nascita. Aveva l’età giusta per esserlo. Così, mi sono concentrato ulteriormente su di lui e sulla sua famiglia.>

Detto questo, fece un lieve cenno col capo verso le altre pagine di pergamena che Phoebe teneva in mano. La ragazzina fece scorrere velocemente lo sguardo su tre fogli: nella sua solita maniera scrupolosa e dettagliata, Tom aveva segnato e preso appunti su tutte le informazioni rilevanti che riguardavano la carriera scolastica dei tre Gaunt: Orvoloson aveva conseguito diversi premi sia sportivi che scolastici, ottenendo anche i titoli di Prefetto e Caposcuola, mentre Orfin, al contrario, aveva raggruppato diverse segnalazioni per cattiva condotta e comportamento violento. La lista di Merope era decisamente la più scarna, sembrava quasi che non avesse nemmeno frequentato la scuola di magia o che non avesse concluse l’intero percorso di studi. C’era anche una parte dedicata alle poche e brevi informazioni sulla carriera lavorativa, ma nessuno dei tre doveva aver perso molto del proprio tempo a lavorare o a cercare un qualsiasi tipo di attività.

< A questo punto >, continuò il ragazzo, dopo una brevissima pausa, < quando scoprii che Orvoloson aveva una figlia, i miei dubbi cominciarono ad affievolirsi. Ora sono quasi completamente certo che sia lei mia madre. Ma ho bisogno di qualcosa di concreto, di una certezza assoluta. Per questo ho cercato l’ultimo indirizzo conosciuto della famiglia Gaunt: è stato un giochetto da ragazzi trovarlo, in mezzo ad alcuni documenti di vecchi censimenti.>

Si fermò di nuovo, ma questa volta la pausa fu molto più lunga. Raccolse rapidamente le pergamene e i fogli, li ficcò senza troppi complimenti all’interno della tracolla e si mise a fissare Phoebe dritto negli occhi, con un’intensità maggiore del solito. E disse in un mormorio lento:

< E questo è il motivo per cui, ora, siamo a Little Hangleton e per cui ti ho portata con me in questa spedizione. Chiunque altro non capirebbe. Io…io volevo che ci fossi tu, stasera.>

La ragazzina rimase a guardarlo ammutolita, senza sapere cosa dire o fare. Rimase in silenzio e si limitò a ricambiare lo sguardo di Tom, sperando che potesse percepire quanto quelle parole l’avessero resa…felice. Lui si allontanò all’improvviso, senza lasciarle il tempo di aggiungere altro o di pensare a qualcosa da aggiungere, sfoderò la bacchetta impugnandola con fermezza e si avvicinò a Orfin.

< E ora che cosa vuoi fare?> domandò Phoebe, scendendo dal tavolo e raggiungendolo.

< Ora credo che sia giunto il momento di fare due chiacchiere col mio amato zietto.>

 

 

 

 

Dopo il brusco risveglio, Orfin fece saettare il suo sguardo feroce sulle due facce che gli si erano parate davanti. Sembrava un animale ferito che, andando avanti e indietro per la gabbia in cui era rinchiuso, calcolava e stabiliva le proprie possibilità. Non aveva avuto bisogno di muoversi per capire che era stato legato, né di allungare le mani per capire che era stato disarmato. I denti rotti e marci erano orribilmente digrignati: Phoebe pensò che l’uomo non si sarebbe fatto nessuno scrupolo a compiere un atto di cannibalismo. Se glielo avessero permesso, probabilmente avrebbe divorato la giugulare a entrambi.

L’uomo si maledisse pensando alla propria stupidità, che aveva permesso a quei mocciosi di stordirlo e di legarlo, alla pari di qualsiasi altra feccia. Si era fatto gabbare come un bambino mezzosangue al primo anno a Hogwarts. Ma la somiglianza tra il ragazzo che aveva di fronte e quel Babbano era a dir poco incredibile! Per questo non aveva fatto caso alla bacchetta che gli aveva puntato addosso appena entrato e per questo se n’era completamente scordato, mentre si occupava della ragazzina. Per questo si era come pietrificato, quando aveva udito pronunciare la formula dell’incantesimo. Era un mago, senza ombra di dubbio. Eppure erano identici Due gocce d’acqua! Forse un po’ troppo giovane, ma come poteva non essere quel Babbano?!

Si maledisse ancora e ancora. E bestemmiò.

Tom rimase in silenzio per molto tempo sostenendo lo sguardo furibondo dell’uomo, con la bacchetta precisamente puntata verso il petto stretto fra le corde. Phoebe era dietro di lui: teneva la propria bacchetta nella mano stringendola con forza e osservava la scena in un silenzio angosciato. Angoscia per ciò che Orfin avrebbe potuto fare e, soprattutto, per ciò che avrebbe potuto rivelare loro.

Finalmente, il ragazzo si decise a parlare. La sua voce era controllata e perfettamente calma:

< Tu sei Orfin Gaunt, giusto?>

L’altro aspettò qualche secondo, poi, muovendo convulsamente la gran massa di capelli sporchi, si lasciò andare in una risatina folle che risuonò sinistra e terrificante sulle pareti vecchie e malandate della baracca. Continuò a ridere, risucchiando malamente l’aria ed emettendo così degli orrendi grugniti, che lo fecero assomigliare ancora di più a un animale.

< Fottiti, mezzosangue > mormorò, continuando a ridacchiare. Nonostante i vari fori dei denti rotti, il linguaggio soffiante e sibilante del Serpentese arrivò alle orecchie dei due ragazzi in modo chiaro: anzi, sembrava che parlasse molto meglio quella lingua magica piuttosto che l’inglese.

Questa volta toccò al ragazzo sorridere, abbassando un poco il capo e scuotendolo in un gesto di divertita disapprovazione. Ritornò a guardare Orfin, sorridendogli con arroganza. Quest’ultimo perse il sorrisetto folle che gli aveva stirato il viso fino a pochi minuti prima; forse perché non si aspettava quella reazione o forse perché, in quell’espressione, per un fugace momento aveva rivisto suo padre.

< Dovresti stare attento a quello che dici. Non sei l’unico a conoscere questa lingua, sai?> gli rispose Tom, ancora sorridendo malignamente. < Stasera giochiamo ad armi pari, Orfin!>

Quelle parole, pronunciate in quella lingua di cui credeva essere l’unico padrone, furono come una doccia ghiacciata che investì l’uomo, inondando e inabissando tutte le sue certezze. A Phoebe sembrò davvero che si fosse afflosciato, come un palloncino che perdendo tutta l’aria che conteneva di colpo dimezzasse la propria grandezza.

< Lo parli > disse, continuando a fissare il volto del ragazzo con grandi occhi sbarrati di incredulità. Non ci poteva davvero credere…infatti, più che un’affermazione, le sue parole suonarono come una domanda.

< Sì. Lo parlo.>

La furia dell’uomo era sparita. Risucchiata alla massima velocità. Se ne stava con occhi sgranati e imbambolati a fissare Tom. Era come se il ragazzo avesse distrutto tutte le certezze su cui lui aveva basato la sua vita, la sua esistenza. Continuò a non parlare, per molti minuti.

< Dov’è Orvoloson?> domandò ancora Tom, vedendo che l’uomo non accennava a riprendersi e a parlare.

< Morto. Parecchio tempo fa.>

Questa volta toccò al ragazzo tacere: il suo sguardo si rabbuiò un poco ma continuò a fissare lo zio, che lo guardava a sua volta con il solito sguardo di adorante confusione, come se fosse stata una qualche specie di divinità che gli era apparsa in tutta la sua magnificenza. Phoebe fissò il ragazzo e l’espressione corrucciata che aveva assunto. Probabilmente, mentre progettava la sua spedizione a Little Hangleton, aveva sperato di poter parlare direttamente con il capostipite dei Gaunt. Il fatto che Orfin, un animale pazzo e incontrollabile, fosse il suo unico e solo referente non lo rallegrava per niente.

< Io…io avevo creduto che tu fossi…quel Babbano…> disse all’improvviso Orfin con tono sognante, rompendo il silenzio.

Il ragazzo si irrigidì. Lanciò un’occhiata fulminante all’uomo e, quasi ringhiando, domandò con fervore:

< Quale Babbano?!>

< Quel Babbano…di cui si era invaghita la mia sorellina…> rispose l’altro con tono incerto, quasi cercasse di non irritarlo. < Ma sei troppo giovane…>

A momenti non gli permise nemmeno di finire la frase. E domandò ancora, con slancio:

< Tua sorella. Si chiamava Merope Gaunt, giusto?>

Orfin scosse la testa, facendo segno di sì. Per quanto sembrasse impossibile, la sua mente stava elaborando tutto ciò che stava succedendo in quel momento.

< Tu sei il figlio di Merope…> affermò con un barlume di certezza. Nella sua follia, l’uomo aveva guardato oltre la sua rabbia e i suoi pregiudizi – oltre ciò che c’era del Babbano che tanto odiava, oltre l’atteggiamento superbo e arrogante che apparteneva a lui ed era appartenuto anche a suo padre – e aveva rivisto la sua sorellina. Nel modo in cui le dita del ragazzo si contraevano per la tensione. Nel modo in cui i suoi piedi spostavano il peso dall’uno all’altro, cercando di ostentare una calma e un sangue freddo che in realtà non aveva ancora. Nel modo in cui la lingua passava sulle labbra secche, velocemente, umettandole per l’eccitazione.

Il figlio di Merope…

< E’ morta, vero?> aggiunse Orfin con una lontana nota di triste consapevolezza, che trapelò dal suo tono piatto e trasognato. Il ragazzo era rimasto in silenzio fino a quel momento, non sapendo cosa rispondere. Per qualche strano motivo, sentiva che il lutto e il dolore per la morte di sua madre era qualcosa che poteva condividere soltanto con lui.

Con Orfin, il fratello di sua madre. Suo zio.

< > rispose, semplicemente. < E’ morta quattordici anni fa, dandomi alla luce.>

L’uomo scosse il capo senza dire nulla, tenendo lo sguardo abbassato. Phoebe pensò che ci avrebbe messo parecchio a riprendersi da quella notizia. Non aveva ancora digerito che Tom conoscesse il Serpentese, figuriamoci la notizia della morte della sua unica sorella! Ma, con sorpresa di entrambi i ragazzi, dopo poco alzò il volto trascurato verso di loro con un piccolo sorrisetto.

< E’ grazie a lei, quindi, che conosci questo linguaggio> disse, ridacchiando appena. < La nostra gloriosa famiglia la conosce da secoli!>

Tom rise e, dopo aver guardato il marciume e la sporcizia che invadevano la baracca, con aria ironica domandò:

< Gloriosa?! Se qui c’è della gloria, l’hai nascosta molto bene.>

Invece che risentirsi di quella battutina, Orfin ricominciò a ridacchiare trasformando ben presto il suo sorrisetto in una sonora e sghignazzante risata, molto simile alla prima che aveva fatto. Ma stavolta, invece che di follia, quel ghigno era sfigurato da una profonda derisione.

< Non lo sai…NON LO SAI! Tu davvero…non sai niente. NON SAI NIENTE DI NIENTE!>

Prima che Phoebe potesse afferrarlo per il mantello per impedirgli di avventarsi contro di lui, il ragazzo si era già lanciato verso lo zio e, strattonandolo per quello che avrebbe dovuto essere il logoro bavero dei suoi malridotti abiti, lo attirò verso di sé e gli puntò la bacchetta a pochi centimetri dalla faccia sogghignante, ringhiando:

< Chiudi quella bocca. Di cosa diavolo stai parlando?!>

< Dovresti già saperlo, o almeno averlo capito> continuò a ridacchiare l’altro, per nulla intimorito dallo sguardo duro e furente del nipote. < Dal medaglione che ti ha lasciato tua madre.>

< Non ho nessun medaglione.>

A quelle parole, gli occhi di Orfin si ridussero a due fessure che lo fecero assomigliare incredibilmente a un serpente.

Era lui quello furibondo, ora.

Avvicinò pericolosamente il viso verso Tom, che non arretrò di nemmeno un millimetro, sibilando come una vipera pronta ad attaccare la sua preda:

< Non hai il medaglione?! Quel prezioso medaglione, che vale anche più della tua insulsa vita da mezzosangue! Mi stai dicendo che il MEDAGLIONE DEL GLORIOSO SALAZAR SERPEVERDE E’ ANDATO PERDUTO?! Quella sgualdrina di tua madre, oltre che averci derubato, ha anche portato il disonore sulla nostra famiglia smarrendo il medaglione!>

Il ragazzo mollò il colletto di Orfin, che ancora stava urlando contro di lui, con sguardo confuso. Non aveva ascoltato l’insulto rivolto a sua madre: il suo cervello si era bloccato su quel nome tanto conosciuto, che sentiva almeno una volta al giorno a scuola.

Salazar Serpeverde.

Cosa c’entrava uno dei quattro fondatori di Hogwarts, il capostipite della sua Casata, con la famiglia andata in rovina dei Gaunt?

< Cosa c’entra Salazar Serpeverde?> domandò ancora Tom, senza rabbia. Anche Phoebe fissava l’uomo senza capire. L’altro sembrò calmarsi un po’, anche se lo sguardo era ancora ostile e collerico, voltò lo sguardo e senza porsi alcun problema scatarrò sul pavimento. E una volta ritornato a guardare il ragazzo domandò, come avrebbe fatto un genitore mentre rimprovera il figlio:

< Ma cosa diavolo insegnano ai giovani d’oggi? Davvero non sai che Salazar Serpeverde è uno dei più importanti Rettilofoni che siano mai esistiti?!>

< Quello che non capisco >, precisò il ragazzo, sorvolando sulla ramanzina, < è cosa c’entri un personaggio tanto importante…con te.>

Orfin sorrise compiaciuto. Si era raddrizzato il più possibile con la schiena, assumendo un’aria quasi maestosa, inorgoglito da ciò che la sua bocca stava per pronunciare. Articolò le parole lentamente, con chiarezza:

< Io sono l’ultimo discendente vivente di Salazar Serpeverde.>

< Cazzate > commentò Tom, sbuffando.

< Guarda l’anello > rispose l’uomo, senza perdere il suo sorrisetto soddisfatto. Phoebe sussultò un poco: l’ultimo membro dei Gaunt si dimostrava ancora una volta più scaltro di quanto in realtà sembrasse o non volesse dimostrare. Si era accorto, senza fare una piega, che l’anello nero che portava al dito gli era stato sottratto dal nipote. Quest’ultimo, senza scomporsi o negare, estrasse il gioiello dalla tasca e lo tenne sollevato davanti al viso, fra il pollice e l’indice.

< Quella P decorata >, continuò Orfin, sicuro, < rappresenta lo stemma nobiliare della famiglia dei Peverell, parenti diretti di Serpeverde. Quell’anello è stato tramandato nella nostra famiglia di generazione in generazione e ci decreta come discendenti del grande Salazar.>

Phoebe era completamente allibita. Il suo sguardo abbandonò l’uomo legato alla poltrona per posarsi sul suo amico, che fissava concentrato il blasone incastonato nell’anello.

Tom Orvoloson Riddle, uno degli eredi viventi di Salazar Serpeverde? Il bambino che era nato e cresciuto solo e abbandonato da tutti, in uno squallido orfanotrofio Babbano, aveva delle origini così antiche?

Era…era incredibile!

Il ragazzo continuò a restare in silenzio. Osservava attentamente i disegni floreali e circolari di quella P dorata, come se volesse collocarli saldamente nella memoria. Non rispose nulla. Si limitò a tacere e a rigirarsi fra le dita il gioiello. Poi, come se niente fosse, lo lanciò in aria in direzione della poltrona e, con una velocità e una bravura magistrale, mosse con grazia la bacchetta facendo così sparire le corde che tenevano imprigionato Orfin. Quest’ultimo, con riflessi da biscia, acchiappò al volo l’anello. I suoi occhi sospettosi vagavano sul viso del nipote, cercando di cogliere qualsiasi minimo segnale di una trappola o di un trabocchetto.

Si fronteggiarono con lo sguardo ancora per qualche secondo, poi, dopo aver riposto la bacchetta nella tasca del mantello e aver afferrato con delicatezza il polso di Phoebe, Tom si congedò, senza usare il Serpentese:

< Se quello che dici è solo lontanamente vero, Orfin, allora sbagli ancora. Io sono l’ultimo discendente vivente di Salazar Serpeverde!>

Gli lanciò uno dei suoi sorrisetti arroganti e, dopo aver lasciato la bacchetta e il pugnale dello zio sul tavolo di legno, senza minimamente preoccuparsi di ciò che avrebbe potuto fare, gli voltò le spalle e si diresse verso la porta, trascinandosi dietro la ragazzina.

Avevano appena aperto l’uscio e accennato a fare un passo verso l’esterno, quando la voce sibilante e maligna di Orfin li richiamò:

< E’ tornato, sai.>

Tom lo fulminò con un’occhiataccia e, simulando alla perfezione un certo disinteresse nella voce, domandò annoiato:

< Di cosa stai parlando, ora?>

< Tom Riddle. Il Babbano con il quale Merope è fuggita. E’ tornato a casa, la sua bella e grande casa lassù, in cima alla collina > rispose l’altro, mentre si rimetteva con cura l’anello al dito. In qualche modo, sapeva di stare giocherellando con un nervo scoperto e, soprattutto, sapeva che la cosa lo faceva divertire follemente.

Phoebe sentì la stretta del ragazzo sul suo polso diventare più rigida, al punto che arrivò anche a farle un po’ male. Tutto il suo corpo era in tensione: ora non avrebbe più potuto fingere che quell’informazione non gli interessasse. Faticava anche a mascherare lo sconvolgimento che gli aveva alterato il volto. Era impossibile che Orfin stesse sbagliando, che si fosse confuso con un’altra persona. Aveva pronunciato chiaramente e con assoluta sicurezza il nome di suo padre.

Suo padre era…vivo? Come era possibile?! Lui era morto.

Doveva essere morto!

Se era vivo…perché non lo aveva mai cercato, in tutti quegli anni? Doveva essere morto, perché se fosse stato vivo sarebbe andato certamente a riprenderlo all’orfanotrofio. Se fosse stato vivo sarebbe andato a cercare il suo unico figlio. Avrebbe dovuto cercare il suo unico figlio!

< Tu non sai cosa stai dicendo> disse Tom, tornando a usare la lingua dei serpenti. Cercava di infondere sicurezza alla propria voce, anche se malamente e senza troppa convinzione.

< Io c’ero, sai?> continuò imperterrito Orfin, sorridendo perfido. < Io so com’è andata. Cosa abbia combinato esattamente tua madre, beh, quello non te lo so dire con precisione. Io ero rinchiuso ad Azkaban, in quel periodo. Ma in qualche modo era riuscita a farsi sposare dal suo bel Babbano. E poi sono fuggiti insieme. Con questo affronto, mischiare il puro sangue di Serpeverde con sporco sangue Babbano, ha fatto morire di crepacuore il mio dannato vecchio, quella puttana…>

Il ragazzo scattò come una molla.

Lasciò andare il polso di Phoebe, piantandola ammutolita davanti alla porta, e colmando a grande velocità il poco spazio che lo separava dalla poltrona si avventò sullo zio. Lo afferrò nuovamente per il bavero ma questa volta, con una rabbia feroce, lo obbligò ad alzarsi. I loro volti si potevano quasi toccare. Phoebe lo sentiva respirare affannosamente a causa della collera e si spaventò anche lei, quando il ragazzo urlò:

< Parla ancora così, riferendoti a mia madre, e ti assicuro che ti squarcerò la gola con le mie stesse mani. Cosa ha fatto Tom Riddle? CHE COSA LE HA FATTO?!>

Orfin gli rise in faccia, squisitamente divertito.

< L’ha abbandonata. Mentre era ancora incinta > disse lui, quasi vomitandogli addosso quelle parole crudeli. < L’ha ripudiata e l’ha lasciata sola, senza nulla, a parte il suo ripugnante marmocchio. E poi, come se niente fosse, è tornato candidamente alla casa dei suoi genitori, dimenticandosi di tutto, come se fosse stato solo uno…spiacevole incidente. Si è dimenticato di Merope. Si è dimenticato di te!>

Tom urlò di nuovo – uno straziante urlo di odio e di dolore – e lanciò nuovamente l’uomo contro la poltrona, dove rimase a fissarlo mentre perdeva il controllo e si lasciava sopraffare dal furore, con un ghigno di gioia sadica. Il ragazzo tremava da capo a piedi e gli occhi erano paurosamente iniettati di sangue. Le narici fremevano come non mai e le dita delle mani gli si contraevano convulsamente, come se non sapesse se chiuderle a pugno o lasciarle aperte.

Fino a quel momento l’aveva soltanto disprezzato, suo padre. Ora lo odiava. Lo voleva morto.

Anzi, lo voleva uccidere con le proprie mani!

Come aveva potuto. Come si era permesso, quella feccia, quell’insulso Babbano, di abbandonare sua madre, una discendente di Salazar Serpeverde? Di trattarla come una donnaccia qualsiasi? Mentre lui se ne stava beato, nel caldo accogliente della sua sfarzosa e ricca casa, Merope moriva come una vagabonda, tra i dolori del parto, in un povero e orribile orfanotrofio. Come aveva potuto farle questo? Come aveva potuto fare questo a lui!

Si voltò di scatto, procedendo a passo spedito verso l’uscita. Spintonò di lato Phoebe, che era rimasta immobile davanti alla porta, e uscì inoltrandosi nella vegetazione che circondava la casa, senza rallentare. La ragazzina si risvegliò dal suo torpore solo quando, qualche istante prima che l’amico la spingesse via, lo vide sfoderare la bacchetta.

Poteva aver deciso di fare soltanto una cosa…

Quel pensiero la terrorizzò e anche lei uscì di corsa dalla baracca, inseguendolo nel sottobosco. La risata cattiva di Orfin la accompagnò per un lungo pezzo del tragitto.

< Tom!> lo chiamò, mentre correva a perdifiato per lo stesso sentiero che avevano percorso precedentemente. < Tom! Cosa stai facendo? Che cosa vuoi fare?!>

Lui non le rispose, non si voltò e non decelerò. Continuò la sua marcia spedito, senza esitazione. Nonostante lo avesse raggiunto, la ragazzina dovette continuare a correre per potergli restare a pochi passi. E con il fiatone continuò a parlargli cercando di fermarlo, di farlo desistere:

< Tom, ti prego, non farlo! Non puoi andare da lui. Cerca di ragionare! Cosa vorresti fargli una volta che lo avrai davanti? Ucciderlo?! Tom! Fermati!>

Phoebe allungò una mano e lo afferrò appena per un lato del mantello ma, sempre camminando, il ragazzo si scrollò di dosso quella presa, rischiando di fare cadere e inciampare la ragazzina. Erano stati così veloci che, a quel punto, la casa di Orfin era nuovamente sparita nel bosco e, attraverso i rami sempre più isolati, potevano vedere la figura nera della dimora dei Riddle, che nella sua magnificenza li guardava dall’altra parte della valle.

< Non puoi essere sicuro che ciò che…ha detto tuo zio sia vero > affermò ancora lei, mentre le sue energie cominciavano a defluire. < Orfin è una serpe velenosa! Chi ti dice che non si sia inventato tutto?! Chi ti dice che non ti abbia detto quelle cose solo per farti infuriare?>

Lui continuò a ignorarla. Erano appena usciti dal boschetto: di fronte a loro si apriva un immenso prato verde che, con una leggera pendenza, si gettava fino al fondo della valle, dove cominciava il villaggio Babbano. In quel preciso momento – più per casualità che per una vera e propria volontà – Phoebe, che non aveva smesso di correre, inciampò in una delle tante, ultime radici della vegetazione boschiva che sporgevano di parecchio dal terreno e cadde scompostamente in avanti. Finendo direttamente addosso a Tom.

Il ragazzo, troppo concentrato sul suo obiettivo e non aspettandosi di essere fermato in quel modo, non riuscì a fare resistenza e si ritrovò sospinto in avanti. A causa della pendenza e della forza di gravità, rotolarono malamente per qualche metro giù per la discesa. Fortunatamente il pendio era ricoperto per la maggior parte di erba, così, quando finalmente si fermarono su un piccolo dislivello dove la pendenza era quasi nulla, si ritrovarono le mani e il viso ricoperti solo di pochi e leggeri graffi. Senza sapere come e sorprendendo anche se stessa, Phoebe si alzò rapidamente per prima e si parò davanti a Tom con le braccia aperte, sbarrandogli il cammino. Il ragazzo si mise in ginocchio e, guardandola con sguardo ostile, ordinò scandendo le parole:

< Togliti di mezzo.>

< No, dovrai schiantarmi se vuoi che mi sposti. Non ti permetterò di compiere una tale follia > rispose la ragazzina, ricambiando l’altro con la propria espressione decisa. Cielo, nemmeno lei sapeva da dove aveva tirato fuori tutto quel coraggio! Non si era mai opposta all’amico in quel modo così netto. Forse, ciò che la spingeva a non gettarsi a terra tremante e con le braccia a proteggere la testa, era il solo e semplice desiderio che lui non marcisse tutto il resto della sua esistenza ad Azkaban! Quando lo vide alzarsi e sovrastarla le sue ginocchia ebbero un tremito violento, ma si affrettò ad aggiungere con fermezza: < Non puoi farlo, Tom! E’ una cosa sbagliata. E’…>

< IO LO UCCIDERO’!> gridò il ragazzo, il volto paonazzo per la collera e l’indignazione. Aveva lanciato le mani in avanti e afferrato Phoebe per il maglione blu. < E nessuno – tantomeno tu! – me lo impedirà. Lo farò pentire di essere nato! Lo…lo…>

La bacchetta gli tremava nel pugno in maniera incontrollabile. Phoebe Hool era certa di non aver mai visto Tom Riddle così: era completamente fuori di sé! E le sembrava a dir poco impossibile. Tom era sempre stato una persona controllata, sia nelle emozioni positive che, soprattutto, in quelle negative. Cercava di dissimulare al massimo i propri umori perché, come diceva sempre lui, se il nemico è a conoscenza dei tuoi stati d’animo gli è più facile sapere dove colpire. E Orfin aveva colpito. Con violenza e crudeltà, dove sapeva di poter fare il più male possibile.

Tenendo sempre le spalle dell’altra strette nelle sue mani, il ragazzo la allontanò di un passo con un movimento deciso ma meno rabbioso. E la ragazzina, temendo che l’amico riprendesse con la propria folle marcia di vendetta, cominciò a parlare di getto, senza pensare:

< Ti prego, Tom, non farlo…è una pazzia! Tuo padre è stato un miserabile, un codardo...e si merita tutto ciò che di terribile tu stia immaginando di fargli. Ma non ora! Non sei in te, finiresti per commettere qualche errore e...e...>

Non era sicura che l'avesse sentita. L'altro fissava ostinatamente il contorno della villa, poco più in alto di loro e completamente avvolta nell'oscurità. Se il suo sguardo avesse potuto darle fuoco l'avrebbe fatto sicuramente! Ma nonostante le spalle fossero ancora rigide e tese e il respiro fosse ancora un poco ansante, stava lentamente smettendo di tremare; le dita stavano ritornando ferme. Poi finalmente, facendo un respiro profondo, Tom abbassò lo sguardo su di lei. Continuò a fissarla per molti minuti in silenzio ma in modo strano, come se non riuscisse veramente a vederla.

< Tom...> lo chiamò alla fine lei, piano. La testa leggermente piegata da un lato. < Co-come...come ti senti....>

< Prestami il tuo petto.>

Prima che Phoebe potesse dire o fare qualsiasi cosa, il ragazzo aumentò di nuovo la pressione sulle sue spalle, costringendola così a inginocchiarsi sull'erba nello stesso modo in cui lo fece lui, e poi abbandonò il proprio capo in avanti appoggiando la fronte appena sotto il collo dell'altra. La ragazzina rimase talmente sbalordita da non riuscire nemmeno a provare imbarazzo per quel gesto inaspettato e inspiegabile.

Tom aveva ricominciato a tremare leggermente. Tutto ciò che era successo quella notte gli tormentava dolorosamente la testa. Non aveva ancora deciso come affrontare tutte quelle cose, ma ci avrebbe pensato il giorno dopo.

In quel momento voleva solo trovare un istante di pace, un solo istante di pace. Un istante in cui Orfin non esisteva; un istante in cui Merope non esisteva. Un istante in cui suo padre non era un viscido verme che aveva abbandonato senza nemmeno il più piccolo rimorso sua moglie e suo figlio.

E quando, infine, il profumo famigliare di Phoebe gli passò sotto il naso, superando l'odore dell'erba e del terriccio, tutte le sue difese crollarono. I singhiozzi cominciarono a scuoterlo. Cercava di trattenerli il più possibile, ma quelli riuscivano comunque a sfuggirgli. Le sue braccia cercarono bisognose la vita della ragazzina, stringendola forte e avvicinandola a sé più che poteva. Lei, nel frattempo, rimaneva immobile e ancora stordita da tutto quello che stava succedendo.

Tom...mi dispiace così tanto, pensò, mentre gli circondava le spalle con le braccia e lo teneva stretto.

E non lo lasciò andare. Nemmeno per un secondo.

 

 

* * *

 

 

Non si erano più detti una parola.

Per tutto il viaggio di ritorno, Tom Riddle era sprofondato in un ostinato mutismo e Phoebe Hool aveva deciso di non sforzarlo. Le sembrava già un miracolo il semplice fatto di essere riuscita a convincerlo a non reclamare a gran voce lo scalpo del genitore, quindi non voleva sfidare nuovamente la sorte!

Non disse nulla, mentre ritornavano a Hogsmeade in scopa. Non disse nulla, mentre ripercorrevano a ritroso il percorso del passaggio segreto passando attraverso la fogna, nel tunnel sotto il parco della scuola e nel sentiero interno alle pareti. Non disse nulla, mentre facevano scattare il meccanismo della statua della strega bambina e ne uscivano.

Ma soprattutto, non disse nulla quando entrambi furono costretti a coprirsi gli occhi con le mani per proteggersi dal raggio luminoso che fuoriusciva da una bacchetta puntata contro di loro. E la mano che reggeva la stecca era, come se non bastasse, quella della temutissima e inflessibile professoressa di Difesa Contro le Arti Oscure della scuola: Galatea Gaiamens.

La vecchia strega comparve nel loro campo visivo strusciando i piedi al suolo. La luminescenza opaca dell'incantesimo le illuminava in parte l'antico viso rugoso e spigoloso e creava ombre inquietanti sulla schiena ingobbita. I capelli grigi erano strettamente legati in un grosso chignon alla base della testa e i suoi occhietti scuri e perennemente strizzati erano ingigantiti dalle spesse lenti degli occhiali. Strizzò ancora di più gli occhi mentre cercava di mettere meglio a fuoco i due giovani studenti.

< Non posso fare a meno di constatare con disappunto che aveva ragione, signor McDougall > commentò aspramente la donna, facendo una smorfia cupa alle proprie spalle che creò un'intricata ragnatela di rughe sull'intero viso. Nel frattempo, dalle tenebre del corridoio comparve lentamente la figura elegante e tronfia del Caposcuola di Serpeverde che, con le braccia incrociate sul petto, lanciò un odioso cenno di saluto col mento ai due compagni di Casa trovati con le mani nel sacco. Poi, riportando lo sguardo verso il signor Riddle e la signorina Hool, la vecchia strega aggiunse, con una lievissima nota di sadico piacere: < Temo che questa volta le sue belle parole forbite non le saranno di nessun aiuto, signor Riddle.>

 

 

 

 

Note dell'autore.

 

Salve a tutti!

Eccoci con il nuovo capitolo di questa storia. Come sempre, chiedo perdono per l'immenso ritardo e vi ringrazio ancora sentitamente tutti quanti per non organizzare una spedizione punitiva nei miei confronti...me la meriterei tutta, davvero!

 

Allora, non voglio perdermi troppo in chiacchiere perché sono ansiosa di pubblicare. Quindi, spero davvero che questo capitolo vi piaccia: come il precedente, anche questo non é stato cambiato molto dalla versione originale. Ma sarà davvero l'ultimo: dal prossimo la storia cambia completamente! Come avrete capito anche da questo finale.

 

RINGRAZIAMENTI!

I ringraziamenti vanno a tutti: a tutte le persone che aggiungono la storia alle preferite, alle seguite o alle ricordate. E a chi legge soltanto! Ma un grazie va anche a chi decide di darmi comunque una possibilità, nonostante la mia inopportuna incapacità di essere puntuale con gli aggiornamenti – per non parlare delle risposte alle recensioni! Ora che ho pubblicato, prometto che mi metterò sotto e risponderò a tutti, anche magari solo con due righe veloci, ma risponderò a tutti voi! Giurin giurello ;)

 

Un ringraziamento particolare é d'obbligo per chi ha recensito lo scorso capitolo: ONDINA94, ELVASS, BLOOD_MARY95, ERODIADE, KURAPIKA95, CRY, ALEVILLY e ARTEMIDE22.

Grazie davvero di tutto cuore!

 

 

Spero di rivedervi al prossimo capitolo!

Un bacio. Latis.

   
 
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