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Autore: Nimue_    15/02/2014    5 recensioni
1944, una giovane donna viene prelevata con la forza e condotta in un luogo di cui nemmeno nel peggiore dei suoi incubi avrebbe immaginato l'esistenza.
Settantaquattro anni dopo la storia si ripete, ma quando Sybil Crowford ne capisce il disegno è troppo tardi.
Sua sorella è sparita. Loro sono venuti a prenderla, e lei ha detto di sì.
[Distopica - YA]
Dal capitolo:
"Che succede se me ne vado senza salutare? E se mi invento una scusa qualunque? Sono libera di andarmene quando voglio. O forse no. Dipende tutto da lui.
- Tua sorella è davvero, davvero un'ottima chimica , - sorride.
Poi la porta del laboratorio si spalanca."
Genere: Azione, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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PROLOGO.

Dicembre 1944

Aleggiava un odore dolciastro, nell'aria. Il solito.
Nessuno lo definiva mai in quel modo, perché nel Campo i nomi venivano perduti insieme a tutto il resto e ogni cosa prendeva a chiamarsi in modo diverso, ma lei non avrebbe saputo in che altro modo descriverlo. Il lezzo di carne che bruciava diventava insopportabile vicino ai Forni, ma non c'era un solo centimetro - nemmeno agli angoli estremi delle Recinzioni - dove si riuscisse a respirare normalmente. Era diventato parte dell'aria stessa, quell'effluvio di morte, sospeso nella cenere.
Il fumo aveva ripreso ad uscire da qualche ora, ormai, ma non la stavano portando nelle Camere. Lo aveva capito dopo che il terrore viscerale che le aveva consumato le vene si era intirizzito di nuovo nello stomaco, ritirandosi dal cervello un po' per volta, mentre due soldati la costringevano ad avanzare nella poltiglia di ghiaccio sciolto. Se ne prendevano tre o quattro alla volta, avevi qualche speranza. Se volevano uccidere, ti sparavano un colpo in testa all'istante, oppure ti prelevavano insieme ad altre cento persone; non appena il primo di loro aveva messo piede nel dormitorio, però, lei si era resa conto che qualcosa, negli schemi, era cambiato. Camice lindo, immacolato, una mascherina di stoffa sulla bocca. Non era una guardia, l'uomo che era  venuto a prenderla, scegliendola personalmente insieme ad altre cinque ragazze di cui nemmeno conosceva il nome. Aveva semplicemente fatto correre lo sguardo sulla carne del loro corpo scheletrico, poi aveva controllato i numeri che le catalogavano e aveva annuito. Non una parola, nient'altro. Pochi secondi dopo erano fuori.
In quel momento si stavano dirigendo ai blocchi speciali, quelli che tutti facevano finta non esistessero. Si vociferava che ci vivessero i Dottori, lì dentro, ma pochi sapevano che cosa significasse.
Arrivati ad uno dei tanti edifici di mattoni, i soldati bussarono alla porta una volta sola, scambiando qualche parola con chi si trovava dall'altra parte.
Le costrinsero ad entrare, e una delle ragazze si artigliò a un lembo della sua gonna sgualcita con le mani scorticate dal gelo. In alcuni punti mancavano strati su strati di pelle.
Avrebbe voluto dirle di non avere paura, ma sapeva che nessuno ci riusciva più dal primo giorno in cui avevano scorto i cancelli del Campo, tanto che la spaventava riuscire a sentire qualcos'altro, in quel momento. La spaventava che oltre il panico e l'orrore, nel suo cervello, si fosse acceso un barlume di curiosità.
- Silenzio!
Le altre ragazze smisero di piagnucolare all'istante. Quando l'ordine arrivava, le lacrime non erano più un diritto.
Sbigottita dalla sensazione dell'aria tiepida sulla pelle, ci mise un po' per capire dove si trovasse. L'interno del blocco era lindo, quasi asettico, con lunghi banconi pieni di fogli, strumenti e persone chine su di essi. Dottori e Dottoresse. C'erano davvero dei medici.
Respirando a fatica, con la paura che se si fosse guardata intorno l'avrebbero punita, tentò di avanzare qualunque spiegazione si celasse dietro quella convocazione, ma l'ambiente la confondeva. Si era appena accorta della fila di porte sulle pareti, quando le divisero, parlando concisamente tra di loro. Le gemelle furono tenute nell'atrio dell'edificio, mentre ad ognuna delle rimanenti veniva assegnata una porta da oltrepassare. Alcuni dei Dottori non si accorsero nemmeno del loro arrivo, quasi fossero invisibili. Avrebbe voluto strappargli gli occhi e puntarli su di sé.
Le guardie si sistemarono in coppia per controllarle. Due a testa, ebbe la forza di contare. Più la pistola puntata al centro della schiena che premeva contro una delle sue vertebre sporgenti come scogli aguzzi.
Scambiandosi un'ultima occhiata con la ragazza dai capelli rasati e il labbro spaccato, si accorse di aver perso sensibilità alla parte destra del volto. Tentò di muovere le labbra per dirle qualcosa, ma metà della sua faccia era ridotta a un formicolio insopportabile. La spinsero dentro prima ancora che avesse il tempo di terrorizzarsi all'idea di cosa avrebbe potuto trovare oltre quella parete.

Un corridoio. Lungo, in discesa, immacolato; di un bianco che feriva gli occhi e dilatava lo spazio fino a inghiottirla. Si sentiva sospesa in un nulla di follia infinita come il bianco, quel bianco dappertutto. La costrinsero a percorrerlo, svoltando di tanto in tanto come in un labirinto incolore, ma fu certa che si stessero muovendo solo quando scorse una donna alla fine del percorso. Al suo fianco si stagliava un'altra porta, l'ennesima. Questa però era diversa: sembrava dovesse tenere a bada una bestia feroce.
La donna con il camice le fece cenno di avvicinarsi. C'era qualcosa di strano, in lei, e nel modo in cui le sue dita pallide artigliavano lo schedario, tendendosi fino a stirarsi sulle giunture.
Con un ordine secco le guardie le comandarono di fermarsi, in attesa che la donna finisse di leggere i documenti che stringeva preziosamente. 
- Che cosa mi volete fare?
Perché non mi uccidete e basta, perché non mi date fuoco e mi lasciate andare via una volta per tutte? Perché non mi lasciate vedervi marcire dall'alto? Perché era sicura che sarebbero marciti. Se c'era ancora qualcosa di sensato, in quel Mondo, sarebbe successo. Prima o poi quel cancro avrebbe cominciato a consumarsi da solo.
La donna continuò a tenere lo sguardo fisso, lontano dal suo, come se non l'avesse sentita. Una delle guardie la spinse tanto forte contro la porta da succhiarle via il respiro. Il candore delle pareti si tinse di rosso. Le ossa sporgenti delle ginocchia cozzarono l'una contro l'altra nello sforzo di tenerla in piedi.
- Per favore. Voglio solo sapere.
Lo sussurrò senza nemmeno pensarci. Per favore. In realtà erano in pochi a pronunciare quelle parole, e lei aveva giurato a se stessa di non farlo mai, ma la morte, comprese infine, era la promessa più antica del mondo, e trasformava in polvere tutte le altre.
Dietro gli occhiali a mezzaluna, degli occhi verdi si convinsero ad incontrare i suoi. Erano passati sei mesi dall'ultima volta in cui aveva scorto il colore dell'erba di primavera.
- Per favore, - ripeté, mentre le lacrime e il muco le bagnavano le labbra.
- Identify yourself.
 Un singhiozzo sordo lottò per uscirle dalla gola, mentre i soldati la tenevano stretta. La donna non era della loro stessa nazionalità.
- Identify yourself.
Era americana. 
Come gli Alleati che avrebbero dovuto seppellire il Campo e radere al suolo quell'abominio. Come chi, si sussurrava nei sogni infranti, sarebbe sicuramente venuto a salvarli, se avesse saputo quale orrore prendeva vita in quel posto. Come chi, evidentemente, sapeva, e non salvava nessuno.
- Figli di puttana, - disse ad alta voce.
La donna fermò il pugno della guardia prima che potesse spaccarle la testa, poi scandì lentamente le sue parole, stavolta in una lingua che potesse comprendere nonostante l'accento insolito.
- Identificati.
Strinse i pugni, digrignando i denti per non piangere. Tenne la schiena dritta, mentre qualcuno le sfrecciava di fianco per aprire la porta. Aveva lo sguardo troppo annebbiato per vedere qualunque cosa, ma il suono delle sicurezze che venivano sbloccate era distinto.
- Vittoria. Il mio nome è Vittoria.
Una smorfia storta attraversò il volto della donna, come se avesse avuto labbra pesanti, di piombo.
- Il tuo numero.
Un suono lungo e grave echeggiò per il corridoio.
- Non sono un numero. 
Fu l'ultima volta, quella, in cui si guardarono, prima che la donna desse l'assenso. Bastò quello, un movimento del capo, e la ragazza venne prelevata di peso, spinta nella Stanza e chiusa dentro ermeticamente. Dai muri cominciarono a vibrare le grida delle altre donne, spaccandole la testa a metà, come decine di pallottole tutte insieme. Le porte si sigillarono di nuovo e lei seppe che era finita.
Dietro una parete riflettente, nel frattempo, una fila di uomini in camice bianco osservava lo spettacolo. Qualcuno era eccitato, ma la maggior parte aveva perso fiducia e sbadigliava con apatia.
- Cominciate.
Quando il Processo ebbe inizio, colse tutti di sorpresa. Erano abituati alle urla e alle suppliche disperate, e con il tempo il divertimento e l'euforia si erano trasformati in noia e mal di testa, ma quello spettacolo era insolito.
La ragazza gridava, e fino a quel punto non c'era niente di nuovo. La classica perdita di tempo rumorosa, aveva imprecato uno dei Dottori.
Ma poi aveva cominciato farlo così forte da coprire il suono delle macchine in funzione, e loro erano riusciti a cogliere qualcosa di sensato nel delirio.
Gridava il suo nome. 
Un uomo dai capelli corti e il sorriso bianco ammiccò alla donna dagli occhiali a mezzaluna che li aveva raggiunti nell'Osservatorio e che continuava a scrivere ininterrottamente sul suo taccuino.
- Questa è quella buona, - sussurrò a bassa voce, in modo che solo lei potesse sentirlo. Sembrava che non avesse mai visto niente di più divertente.
- C'è solo il 2,4% delle possibilità che funzioni, - rispose lei, senza tradire alcuna emozione.
- Da quanto tempo è arrivata?
- Sei mesi. Troppo poco. 2% delle possibilità.
L'uomo poggiò la fronte sulla parete riflettente, invitandola a guardare l'interno della Stanza.
- Guarda come combatte per sopravvivere. Non ho mai visto niente del genere, - sorrise.
- E' quella buona.








Angolo autrice: c'è un momento, nella vita di una fanwriter, in cui l'embrione di una storia propria e originale comincia a prendere forma e non si può far altro che provare a farlo crescere. E' un'impresa folle, ma la voglia di mettersi in gioco c'è tutta. Le tematiche non sono semplici, come avrete capito dall'ambientazione del prologo, ma penso di essere abbastanza matura da poter esprimere il mio pensiero riguardo a certi aspetti dell'esistenza umana. Scrivere una storia fantascientifica/young adult/distopica non è semplice, ma perché non provarci? Spero che qualcuno vorrà vivere quest'avventura con me, aiutarmi, consigliarmi e criticarmi quando serve. Spero che pubblicare il prologo mi darà l'imput per impegnarmi sul resto. Grazie a chiunque passerà e a tutti quelli che mi hanno tra gli autori preferiti. It means the World to me!

PS. Essendo una storia originale, il 98% dei personaggi mi appartiene totalmente; la storia è protetta da copyright.


 
   
 
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