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Autore: ringostarrismybeatle    17/02/2014    2 recensioni
“Non hai niente da dirmi?”
“Riguardo a cosa?”
“A ciò che hai fatto l’altra sera. A te. A noi.”
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon, Paul McCartney
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il corridoio era silenzioso, quando Paul lo attraversò con lo sguardo basso. Il suo corpo si muoveva stancamente, la sua figura passava da una stanza all’altra quasi come se quello fosse l’ultimo posto in cui volesse essere. Ecco, in realtà non era un corpo. Solo una figura. Una stupida figura che si trascinava per i corridoi di quella casa, con l’anima trafitta da centinaia di lame affilate. Una figura senza vita, senza più sogni né speranze. Una figura cresciuta in quella casa, accanto alla persona che amava. In una casa comprata insieme, quando il mondo sembrava ancora offrire felicità e colori ai loro cuori giovani. Paul non ricordava neanche come fossero i colori. Non sapeva descriverli, non sapeva riconoscerli. Semplicemente perché adesso, intorno a lui, si espandeva solo un immenso e profondo grigio. Le pareti, i mobili, persino i quadri all’interno di quella casa apparivano come una di quelle fotografie in bianco e nero che lui e la sua metà, il suo John, avevano scattato quando ancora c’era un sorriso ad illuminare le loro vite.

Casa.

Paul rise sarcasticamente al solo pensiero. Il solo riempirsi la bocca con quella parola gli aveva fatto venire voglia di sputare a terra, sul pavimento di quella grigia prigione che lui aveva pensato a costruire, lentamente. Si sentiva imprigionato, sì, dietro le sbarre che ormai incatenavano i suoi sogni di felicità.

Sogni.

Ecco un’altra parola che Paul volle ripetere più volte nella sua mente. Cosa ne sapeva, ormai, dei sogni? Non era neanche sicuro che fosse possibile sognare. In passato era stato capace di farlo, ma capì che era stato solo un gioco. Un’illusione, un incantesimo che aveva provato ad offuscare la sua mente e a portarlo lontano da una realtà che molte volte era stata crudele con lui. Eppure..

No, non piangere.

Provò a trattenere le lacrime, quando il pensiero di John arrivò forte nella sua mente. Già, eppure con John quei sogni, quelle illusioni, potevano sembrare qualcosa di più. Poteva quasi sembrare che la sua vita stesse diventando uno di quei sogni in cui amava perdersi, sdraiato sul letto a fissare il soffitto. Con John sembrava che le cose potessero andare, per una volta, come diceva lui. Come dicevano loro. Perché loro erano in sintonia, una sintonia che nessun altro avrebbe potuto comprendere. Ma evidentemente, anche quella sintonia era un’illusione. I loro baci lo erano. Le loro carezze, i loro abbracci, le loro mani intrecciate. Persino il sesso, così concreto e pieno d’amore, era un’illusione. Forse proprio perché era pieno d’amore. E l’amore non era altro che una mera, stupida e inspiegabile illusione.

Ma tu lo ami.

No, cazzate. Paul non lo amava, così come John non amava lui. Nessuno nel mondo sapeva cosa fosse l’amore, mentre cercava di capirlo. Tutti credevano di essere innamorati, o di essere stati innamorati almeno una volta nella vita. E tutti credevano che, prima o poi, l’amore sarebbe arrivato anche per loro. Paul rise alla solo idea di persone che pronunciavano quelle parole, provando un po’ di pena per loro. Ma soprattutto, pena per sé stesso.

Tu lo ami.

Eccolo. Ecco il motivo per cui provava così tanta pena per sé stesso. John gli aveva dato tanto, era vero. E Paul lo aveva dato a lui. Ma ora, era tutto sparito. Come se una folata di vento avesse fatto volare via quei sentimenti, evidentemente troppo deboli per restare al loro posto. E lui, nonostante quei cambiamenti e quell’amarezza costante nel cuore, era rimasto lì. Per amarlo, sì. Ammetterlo costava a Paul più di quanto la sua razionalità potesse concepire. Ma quella era la verità e Paul non avrebbe mai potuto cambiare nulla. Un’illusione, forse, ma che per lui valeva quanto la sua stessa vita.

E per John, cosa c’era di concreto? Nulla. Per lui non c’era più concretezza, non c’era più illusione, non c’era più vita. E questo era successo solo da un po’ di tempo, Paul lo ricordava bene. Anche lui aveva delle speranze, aveva dei sogni accanto al suo compagno. Ma un momento nella sua vita aveva mischiato le carte in tavola, stravolgendo ogni sua consapevolezza.

Un incontro, un dannato incontro. E non con una persona, che aveva cambiato il suo modo di vedere ed i suoi atteggiamenti. Quello sarebbe stato più facile da sopportare per Paul. Un incontro con un oggetto. Uno? No, tanti oggetti. Tutti uguali agli occhi di Paul, tutti uguali per la mente di John. Così assuefatto, così sottomesso al potere che una cosa così piccola potesse avere su di lui.

LSD. Dannato, maledetto LSD. La droga che aveva trascinato John con sé, sempre più giù, fino a fargli toccare il fondo. Fino a fargli dimenticare ogni cosa. I suoi amici, la sua vita, il suo nome. Fino a fargli dimenticare persino lo stesso Paul. Era successo lentamente, ma lui se n’era accorto dal primo momento. Il suo tocco era diverso, i suoi gesti erano cambiati giorno dopo giorno, fino a quando John non era diventato un perfetto sconosciuto agli occhi del suo stesso compagno. Fino a quando, una sera, John aveva perso la pazienza. Forse non era neanche colpa sua, forse era solo quella droga del cazzo che lo faceva agire. Ma quando quella sera John aveva colpito Paul, con violenza e senza un minimo di colpa negli occhi, quel filo ormai quasi invisibile che li legava era stato spezzato. Strappato, massacrato dallo scontro delle sue mani su quel corpo che non aveva colpe.

E bruciava.

Sì, bruciava più dei lividi sulla pelle candida di Paul. Più delle lacrime che scendevano sulle guance, rosse per gli schiaffi che il più grande aveva riservato solo a lui. Più di qualsiasi dolore fisico che Paul avesse mai dovuto sopportare. Bruciava, bruciava davvero. Perché negli occhi di John non c’era stato alcun rimorso. Non una parola, non un gesto che potesse provare a cancellare quelle immagini dai dolci occhi del più piccolo. Solo confusione, disperazione, incomprensione nei confronti dell’unica persona che ancora credeva in lui e che cercava di sottrarlo a quella prigionia.
E Paul non era più disposto ad aspettare.

Si avvicinò alla porta dello studio cercando di non fare rumore. Sospirò una volta, poi un’altra. Sapeva che quel momento non poteva più attendere. Non aveva forza, non aveva coraggio. Fu la disperazione ad agire per lui. Bussò lievemente per due volte.

“John?”

Dall’altra parte, nessuna risposta. Solo un’interruzione da parte di una matita, dapprima presa a scrivere su un foglio.

“John, posso entrare?”

No, John non sembrava voler rispondere. Volere. Che verbo stupido da utilizzare. Come se la volontà di John, sotto quell’effetto, potesse valere qualcosa. E allora, cosa contava adesso rispettare o meno ciò che la sua mente pensava, senza comunicare? Paul sapeva che doveva farlo, che doveva entrare e provare almeno a parlare con lui. E così fece. Senza attendere ancora e senza pensare troppo alle conseguenze.

Fu tutto come si aspettava. La stanza, disordinata come sempre. Il tavolo, pieno di fogli e di corde usate per la chitarra. Le pasticche, accanto al braccio dell’uomo, abbandonato sul legno freddo. John, indifferente. Fissava il foglio su cui stava scrivendo qualcosa, probabilmente incomprensibile per il resto del mondo, senza considerare il suo ospite.

“John?”

Niente sembrò destarlo. Niente lo fece muovere dalla sua posizione. Né la voce del suo compagno, né il suo corpo, tremante e ancora spaventato per ciò che era successo qualche sera prima. Contavano solo quelle parole, scritte in modo confuso su un foglio stropicciato.

“John, ti prego.”

Paul provò ancora, guardando verso i suoi occhi, ben nascosti dietro gli occhiali, ma sempre visibili per lui. Aspettava un altro lungo, interminabile silenzio. Ma questa volta la sua voce aveva fatto scattare John, che mosse il viso indirizzandolo verso quello dell’altro. Le parole che seguirono furono peggiori del suo silenzio.

“Non vedi che sto scrivendo?”

Gli occhi di Paul minacciarono di piangere, mentre le sue gambe rischiarono di cedere davanti a lui. Era così, quindi? John non aveva più nulla da dirgli? La verità era così chiara davanti ai suoi occhi, eppure lui faceva tutto pur di non vederla. E ancora tentò di farlo ragionare, con la paura che, ancora una volta, avrebbe sfogato tutta la propria frustrazione su di lui.

“Non hai niente da dirmi?”
“Riguardo a cosa?”
“A ciò che hai fatto l’altra sera. A te. A noi.”

John lo osservò per qualche secondo, prima di rispondere. E ancora una volta, la sua mente vagò in luoghi inesplorati, colse come fiori delle parole che mai, se fosse stato cosciente, avrebbe utilizzato con lui.

“Ti ho già detto tutto ciò che ho da dire. Sto scrivendo e non voglio essere disturbato. Se vuoi sapere qualcosa, parla con il mio avvocato.”

Il respiro di Paul si mozzò in gola, mentre la sua testa girò velocemente. No, non poteva aver detto cose simili. Non poteva pensarle. Semplicemente, non poteva essere lui l’uomo di cui Paul si era innamorato. C’era solo una certezza, ormai, nella sua mente. Restare lì era inutile.

Cercò di indietreggiare lentamente, ma senza rendersene conto si ritrovò a correre. La disperazione l’aveva avvolto, facendolo fuggire da quella stanza come se qualcuno, o qualcosa, lo stesse inseguendo. No, non si trattava di un qualcuno. Una persona avrebbe avuto occhi per guardare, orecchie per sentire. Un cuore per avvertire e capire che la sofferenza era tutto ciò che era rimasto nella vita di Paul. E John non capiva.
Raggiunse la camera da letto, mentre le lacrime ricominciavano a scendere sul suo viso affranto. Ma non era quello il momento di essere debole. E mentre prendeva uno zaino dall’armadio, Paul si accorse che avrebbe dovuto fare appello a tutte le sue forze per compiere quel gesto che a lui sembrava impossibile.
Aveva bisogno di poche cose, in quel momento. Sigarette, fotografie, ricordi. E uno zaino bastava per tutto questo. Ma non avrebbe mai pensato di lasciare il suo basso a marcire lì, in quella prigione. Lo accolse tra le sue braccia, appoggiandolo contro il muro solo un’ultima volta. Si sedette su quel letto, che emanò il suo odore più forte nel momento in cui Paul si appoggiò sul cuscino per scrivere qualcosa su di un foglio. Qualcosa che non avrebbe potuto dire a voce, qualcosa che John non era pronto ad ascoltare.

Passata la mezzanotte, John uscì dal suo studio, con un passo lento e confuso. Si appoggiò per due volte al muro, per cercare di rimanere in piedi, ridendo del suo stesso incedere. Si avviò verso la cucina, il bisogno di bere lo stava divorando.
Accese la luce con la poca coscienza che era tornata in lui. L’effetto della droga stava in parte sparendo e prima che John potesse prendere una nuova pasticca, notò qualcosa sul tavolo. Cos’era, un foglio? Si avvicinò al pezzo di carta, piccolo ma pesante. E non di certo per una pesantezza fisica. Era come se avvertisse un certo valore in quelle parole scritte con cura. Sistemò gli occhiali sul naso per cercare di leggere, anche se poco dopo avrebbe scoperto che quelle parole non sarebbero mai dovute arrivare ai suoi occhi. E tantomeno al suo cuore.

“Ho pensato a lungo che per noi potesse esserci una speranza. Ho pensato che il mondo ci avrebbe accettati, alla fine, anche se il nostro amore andava oltre i suoi confini. Ma come può esserci una speranza per noi, quando la verità è che non c’è per te? Come può il mondo accettare un qualcosa che anche io, ora, mi trovo a rifiutare? Forse non capirai queste parole, ma un giorno ti chiederai perché sono andato via. Ed io non sarò lì per rispondere. Se vuoi sapere qualcosa, John, parla con il mio avvocato. Addio. George passerà per prendere le mie cose.”

Non contava più l’effetto di quelle pasticche. Non contava più la confusione che aveva preso piede nella sua mente. Perché John aveva capito quelle parole. Aveva ricordato, improvvisamente. Come se un mare di immagini e di suoni si stesse riversando in lui. Immagini di Paul, infelice, straziato, steso a terra e ferito da lui, l’uomo che una volta diceva di amarlo. Parole, preghiere. Perché tutto quello finisse, perché un po’ di colore potesse tornare nella sua vita. E una frase, pronunciata senza sapere, senza capire. Una frase che aveva spezzato il cuore di Paul, che lo aveva fatto allontanare, per sempre.

Vicino a quel foglio, appoggiata sul tavolo, una foto sembrava osservarlo. La prese con delicatezza, cercando quasi di non ferirla. Ma in realtà, fu lei a ferire lui. Sembravano passati secoli da quel momento. Paul sorrideva, mentre le sue labbra erano attaccate a quelle di John e i suoi occhi erano chiusi. Un bacio immortalato da Ringo, su richiesta dello stesso John, mentre il resto del mondo non guardava e c’era spazio solo per loro.

E quando John si rese conto di essere solo, le mura iniziarono ad avvicinarsi al suo corpo, come se stessero per soffocarlo. No, non era un altro stupido effetto di quella droga. Quella era la realtà. Perché il suo cuore, in quel momento, si sentiva imprigionato in qualcosa di terribile, mentre la sua voce non riusciva a far altro che urlare il nome di Paul alla luna, sempre più lontana.



Che novità, un po' di angst! Ormai non so più quanto dannarmi per scrivere un qualcosa che si avvicini lontanamente al fluff >.< Non so, credo che le mie storie siano inversamente proporzionali al mio stato d'animo. Più sono felice, più vengono fuori le angst >.<

Spero che comunque la storia vi piaccia e non risulti banale :) L'ho pensata e scritta oggi, spero che non deluda chi si aspetta qualcosa di decente da me :D

Grazie mille a tutti quelli che continuano a leggere le mie storie :) e a Lui, che mi ispira con un solo sguardo :)

A presto!

Peace&Love,

ringostarrismybeatle
  
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