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Autore: Samarskite    18/02/2014    4 recensioni
Il muro subì un violento colpo, seguito da un ruggito di rabbia; il ricordo di Scott e del suo abbraccio, dall'altra parte della barricata, guizzò come un ologramma difettoso. “Voglio una risposta.”, tuonò l'essere, adirato. E per l'ennesima volta ripetè: “Tutti ce l'hanno, ma nessuno può perderla. Cos'è, Stiles?”, scandì. Cos'è, Stiles? Pensa.
[Spoiler!3B]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lydia Martin, Stiles Stilinski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Urla nel sonno

A Budds e Sofia, per il betaggio
E a Margherita, ancora



 

 

“Ma oh, il mio cuore era fallato,
conoscevo la mia debolezza
Perciò stringimi la mano, non consegnarmi all’oscurità
Striscio sul ventre finché non cala il sole,
non indosserò mai la tua corona spezzata
Ho preso la corda e ho imprecato fino alla fine
in questo crepuscolo, come osi parlare di grazia?”
(Broken Crown, Mumford&Sons)

Mentre cercavo di rimanere fermo ed immobile all'interno del macchinario per rilevare la TAC, il mio cervello impazziva. Ero assolutamente certo che il medico avrebbe rilevato una sovrattività nella corteccia cerebrale, o una qualche diavoleria che segnalasse la bufera che mi sentivo in testa. È davvero difficile da spiegare, ma mi sentivo come se i due lobi del mio cervello fossero divisi non solo da un solco, ma da un vero e proprio muro barcollante; e se da una parte si continuava ripetutamente a girare la scena che avevo vissuto poco prima - il mio abbraccio con Scott, la sua promessa di essere sempre al mio fianco - dall'altra sentivo qualcuno dal volto fasciato che batteva calci e pugni contro la muraglia, per demolirla.
Dalla prima parte, Scott mi stava dicendo “Se hai la malattia di tua madre, troveremo un modo. Troverò una soluzione”, dalla seconda c'era quel qualcuno che continuava ad urlare come un ossesso, “Tutti ce l'hanno ma nessuno può perderla, cos'è?” Ormai era da tempo che avevo quel fastidioso qualcosa a fare pressione contro il muro, così tanto tempo che ormai non ricordavo nemmeno più cosa si provasse a vivere senza. Ero arrivato persino a domandarmi se tutti non ne fossero provvisti e fossi solo io il cretino che stava impazzendo per tenerlo a bada.
“Stai, zitto, okay? TACI”, mi ritrovai a pensare in un ultimo, disperato tentativo di intercessione diplomatica tra il mio cervello e quell'essere urlante. Non ero del tutto sicuro di cosa sarebbe successo una volta crollato il muro, ma conoscendo la mia fortuna non sarebbe stato nulla di buono.
“Non posso stare zitto se non rispondi al mio indovinello, Stiles. Tutti ce l'hanno, ma nessuno può perderla. Cos'è?”, mi chiese il qualcosa, smettendo solo per qualche secondo di battere il muro con calci e pugni. Stavo notando sempre più spesso che quando gli davo retta lui smetteva di fare pressione sul muro, ed il mio cervello aveva un po' di pace. Certo, dopo avevo problemi sul piano reale e non mentale - mi ritrovavo in posti strani, non ricordavo alcuni momenti della giornata - ma quantomeno nella mia testa c'era il silenzio.
“Non so quale sia la risposta, d'accordo? Non ne ho idea. Alle elementari arrivavo sempre ultimo alle gare di indovinelli, ho sempre pensato che fossero per cervelloni antipatici ma ho sempre finto che in realtá mi intrigassero, perché Lydia li adora e penso che questo la faccia pensare che io sia intelligente almeno un po', e...” Il muro subì un violento colpo, seguito da un ruggito di rabbia; il ricordo di Scott e del suo abbraccio, dall'altra parte della barricata, guizzò come un ologramma difettoso.
“Voglio una risposta.”, tuonò l'essere, adirato. E per l'ennesima volta ripetè: “Tutti ce l'hanno, ma nessuno può perderla. Cos'è, Stiles?”, scandì.
Cos'è, Stiles? Pensa.


 

“Ci vuole solo un attimo perché il mio mondo crolli
Oh, sono sicuro che a distanza tu possa sentire questo suono terribile” (Suggestions, Orelia)

Ombre. Nell'auto di Lydia si susseguivano ombre di ogni tipo. Stava guidando, stava andando da qualche parte - non ricordava più nemmeno dove stesse andando - quando qualcosa, uno strano rumore, aveva iniziato a trapanarle il cervello. Era martellante come un'incudine elettrica, un continuo rotolare di tonfi che le risuonavano nel cervello e le facevano dolere la testa. Lydia non era mai stata brava a definire cosa provasse quando provava l'impulso di urlare. Stiles le aveva chiesto più volte di descrivergli la sensazione - come se fosse stato realmente interessato! - ma non ci era mai riuscita con precisione. Non le veniva da urlare per la frustrazione, come alle volte poteva sembrare; era più una cosa che partiva dai polmoni, come un sospiro o uno sbadiglio, qualcosa di incontrollabile ma in qualche modo liberatorio. E mentre urlava, una sensazione occlusiva le chiudeva lo stomaco, facendola sentire d'un tratto a corto di energie e in procinto di morire di freddo.
Ma tutto questo, pensò con amarezza Lydia mentre provava a non urlare, gliel'aveva spiegato Stiles: a quanto pareva, lo sforzo che Lydia impiegava ad essere sè stessa come banshee (testuali parole) portava ad un dispendio eccessivo di energia e spingeva l'organismo ad abbassare alcune difese per sopperire alla mancanza di energia. In questo modo, anche le reazioni più istintive come rizzare i peli venivano inibite, e il riscaldamento nel suo corpo iniziava a fare cilecca. E lei aveva freddo.
Sicuramente, pensò Lydia, la faccenda delle difese immunitarie poteva essere vera; ma era profondamente convinta che la faccenda del sentire il freddo dipendesse dal fatto che poteva percepire quando moriva qualcuno - e questo non era per niente carino, come diceva sempre Stiles.
Ma il problema era che in quel momento, nella macchina, la morsa che di solito le chiudeva lo stomaco spingendola ad urlare era diversa dalle altre volte. Era più violenta, più aggressiva; ed il cervello, per qualche assurdo motivo, non voleva che Lydia urlasse. Continuava a mordersi le labbra, a portarsi le mani alle tempie, come se quella volta urlare fosse una sconfitta e lei non volesse accettarla, come se urlare segnasse definitivamente la morte della persona che stava per morire.
Forse, si disse Lydia, stava per morire qualcuno a lei caro. Forse, si disse, sarebbe stata sua madre. Forse sarebbe stato Scott, o uno dei gemelli. O forse, pensò cercando di contrastare il rumore martellante e rotolante nella sua testa, forse era Stiles. Stiles, che stava facendo degli esami medici per il sonnambulismo - così le era stato detto, e...
Il cuore di Lydia mancò un colpo.
Quello che sentiva era il rumore di una TAC. Lydia sentì la morsa farsi più violenta; i biscotti della colazione minacciarono di farsi sentire di nuovo in bocca, il respiro le si fece corto. Non aveva mai sentito così freddo in vita sua, tranne forse quando il nogitsune l'aveva marchiata - o quando era stata preda della fuga psicotica. Sentiva nella testa i rumori della TAC mischiati ad un sibilo e ad una voce femminile che le sussurrava, con la voce dell'insegnante di lettere: “Urla, Lydia.”
Non voleva. Significava ammettere che Stiles sarebbe morto. E lei non voleva che morisse Stiles; il dolce, gentile, geniale, imbranato Stiles. Non poteva essere lui la vittima.
“Urla, Lydia. Urla.”
Gli occhi le si riempirono di lacrime; la morsa ed il gelo erano insopportabili; si coprì le orecchie, come se non sentirsi potesse mascherare la realtà delle cose; aprì le labbra martoriate dai denti e dallo sforzo di tenerle serrate; poi, urlò.
 
“Sarai con tutto il resto delle persone sole
Quelle che vivono in un luogo buio e freddo
A volte è meglio correre che affrontare il dolore”
(Kitchen Table, Jake Bugg)

“È l'ombra, d'accordo? L'ombra!”, urlai rivolto all'essere, esasperato. “Tutti ce l'hanno ma nessuno può perderla, è la fottuta, fottutissima ombra.” Il muro smise di tremare, l'essere iniziò a scoprirsi il volto. Non volevo vedere cosa ci fosse sotto; avevo paura che potesse esserci il volto di Gerard - le loro voci erano così simili! - o, peggio ancora, il volto di Derek, o di Scott. O di mio padre, quella sembrava tanto la sua giacca. Un brivido mi attraversò la schiena quando pensai che avrebbe potuto essere Isaac. Ma mentre elucubravo ipotesi su ipotesi, l'essere aveva finito di togliersi le bende - e mentalmente mi diedi dell'idiota.
Era l'opzione più ovvia, la peggiore di tutte.
L'essere era me stesso. Ma aveva gli occhi scuri, cattivi. Non cattivi come quando io avevo fatto vomitare apposta il mio compagno sul pullman - e comunque lo avevo fatto per una buona causa. Erano cattivi come se stessero cercando il modo migliore per farti soffrire nel modo peggiore possibile, eppure erano così innocenti nella loro vacuità. Sembravano, pensai, gli occhi di un bambino molto, molto malvagio: “Li uccideremo tutti, Stiles, i tuoi amici. Uno ad uno.”
Scossi la testa, non poteva essere possibile, perché stava parlando al plurale? Dovevo essermi addormentato durante la TAC, sicuro. Papà mi avrebbe ucciso, il dottore mi aveva detto di non fare alcun movimento e quando io dormo tendo a girarmi su un fianco.
Era un brutto scherzo della mia testa, non era reale. Non avrei mai ucciso Scott o Isaac. O Lydia. Il me stesso cattivo mosse un passo verso di me: “Vedi, Stiles, questo è il nostro problema.”; storse la bocca. “Siamo così orribilmente naif.”
Mi offesi: io non ero affatto naif. Naif è un aggettivo che si attribuisce ai bambini. Io ero stato più volte sul punto di fare sesso, anche se una di quelle era stato più per la mia incolumità che per vero desiderio. Io non ero affatto -
“Oh, non naif nel senso che siamo infantili. Stiles, siamo ancora troppo umani. A noi importa ancora dei nostri amici, ma facciamo resistenza, mentre non dovrebbe importarcene.”
Per la prima volta da quando lo percepivo, sentii il muro divisorio traballare e il ricordo dell'abbraccio di Scott svanì del tutto, sgretolandosi ed inondando la mia mente. Per la seconda volta in poche settimane, mi sentivo affogare.
“Li uccideremo tutti, vero, Stiles?”, mi domandò la voce con dolcezza, ma non somigliava più a quella di Gerard. Era quella di Lydia. “Non salveremo nessuno.”
La certezza che lei mi stesse parlando in quel modo, e fosse quindi dalla mia parte, mi fece crollare; annuii.
“Non salveremo nessuno.”
La marea di schegge che ormai era il ricordo dell'abbraccio di Scott svanì, lasciando solo un arido deserto - al centro del quale stava ancora il muro, coperto di sabbia, in rovina, scalcinato e sofferente. Seduto in cima al muro stava il bambino cattivo di me stesso, sorridente.
“Non ci fanno paura le lucciole.”, disse, con la voce tornata profonda.
“Non ci fa paura più niente.”
In lontananza, qualcuno urlava.

  
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