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Autore: Akita    20/06/2008    8 recensioni
Storia in fase di profonda revisione ed aggiornamento
Lsyn è una Spia, legata al suo regno fino alla morte da un vincolo d'obbedienza più forte di ogni cosa. Un orribile incidente le ha stravolto la vita. Per cinquant'anni, allora, vaga, alla ricerca del Principe. La sua redenzione. O forse la sua rovina. Perchè il compimento del suo destino di avvicina. Lei però non lo sa. [...]Da quel momento in poi, mi sarei giocata la vita. Beh, non che m'importasse molto. La mia esistenza si era svolta sempre così, perennemente a contatto con la morte, giocandoci come con una vecchia amica venuta a prendere il tè. Che cosa buffa. Vivere, per prepararsi a morire. Lo fanno tutti, o è il destino di ogni Spia?[...]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie dei Rinnegati.'
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Mi chiamo Lsyn Amarto, figlia delle Spie

Mi chiamo Lsyn Amarto, figlia delle Spie.

Il mio primo nome è quasi una burla del mio Maestro, Amarto Sindjisk, colui che mi ha allevata.

Lsyn. Un misero liquore di bacche del sottobosco, l’infernale lsyn che scotta la lingua, nero come l’abisso.

Tipico di lui, accidenti, un elfo così geniale, così buono, ma così dedito ad innumerevoli e disastrosi flirt con l’alcol da restarne per sempre segnato.

Il mio saggio Maestro.

Un tempo ero una delle migliori servitrici di quello che  era il Regno di Normar, ed ora è solo il Regno, semplicemente il grande Regno.

Concepita, nata, cresciuta ed allevata Spia, creata per non dire altro che si, mia signora, per tutta la mia schifosamente lunga vita di elfo.

E sì, quanto ci riuscivo bene. Quanto mi piaceva!

Per tutti, io ero Ombra.

Ancora a volte risento questo nome. Ancora fa paura, e quanti anni sono passati!

Già. È passato molto tempo, ormai. Ora chi mi incontra tende più a chiamarmi Mostro, allontanandosi con evidente timore.

No, no, niente paura. Forse mi sono espressa male.

Sono una semplice elfa, cosa c’è di strano in me? Non ho tre teste, e non sputo fuoco. E non ho nemmeno capelli color dell’arcobaleno.

Sarei il simbolo della banalità, se non fosse per un piccolo particolare.

Il frutto di un insignificante errore che ha rovinato per sempre la mia vita un tempo gloriosa.

Sembrava una missione normale, una delle tante nel mio lungo servizio di Spia.

Il fratello della nostra Regina, la nostra magnifica sovrana, possano per sempre gli Dei averla in grazia, era scomparso senza lasciar traccia.

Di lui non rimaneva altro che una lettera macchiata di sangue, recapitata due settimane dopo la sua sparizione.

Una lettera in cui implorava aiuto. Una lettera strappalacrime e tanto misteriosa.

Cosa mai poteva essere successo al Principe del Regno?

Una situazione abbastanza antipatica.

Eravamo entrati allora noi in azione: gli occhi onniveggenti del Regno, gli infallibili segugi che tutto fiutano.

Io ero stata scelta per la missione, io, perla rara tra le Spie.

Ero sola.

Non avevo voluto nessun compagno per quest’impresa tutto sommato facile. La mia superbia e la mia indipendenza erano proverbiali.

Io ero la migliore, e nessun intralcio si crei per Ombra!

Beh. Forse non sono del tutto sincera con me stessa.

Avevo esultato quando ero stata scelta, ma come avrei esultato per qualsiasi altra missione. Non avevo mai fatto storie per un po’ di compagnia.

Forse c’era un altro motivo. Ben più importante della mia tracotanza.

Amavo Chekaril, il giovane Principe: in quel periodo della mia vita, il mio apogeo, ero bella, fiorente e forte, e la relazione che avevo intrecciato con lui tempestosa e precaria.

Gli avevo dato persino una figlia, nata più per casualità che per amore, una bellissima piccola.

Ero ligia alle tradizioni, allora.

L’avevo ceduta alle Spie, e non aveva che qualche mese!

Chi nasce tra di noi non ha che un destino: essere un Cane. Non c’è scappatoia che regga. Gli infanti vengono fin dalla più tenera età allontanati dalle famiglie, e affidati ad un maestro, che li alleva ed allena, dandogli il proprio nome come cognome, quasi un marchio di appartenenza.

Così era per me, così era stato per lui, e per altre infinite generazioni di Spie, tornando indietro di secoli e millenni.

Così è stato anche per la mia bambina.

Ma preferisco evitare di indugiare troppo in certi ricordi, potrebbero farmi perdere.

Dov’ero?

Ah, certo.

Insomma, stavo cercando Chekaril. La pista che stavo seguendo mi dava quasi la certezza di un rapimento a scopi politici.

Niente di più ovvio.

I miei contatti mi avevano avvertita del nascondiglio: una grotta in un bosco. Ero dunque lì per appurare la realtà dei fatti.

Mi avvicinai silenziosa, come solo un’elfa allenata da secoli sa fare. Mi nascosi tra gli alberi.

Tsk, che idiozia, rapire un Principe e poi disseminare indizi come novellini! E nessuno era stato capace di trovarlo!

Spiai, guardai.

Mi venne un colpo al cuore.

Solo, prigioniero di una radura all’imboccatura della caverna, senza nessuna sentinella o essere a fargli da guardia, legato ed in ginocchio, c’era lui.

Chekaril.

Bisbigliai il suo nome, esterrefatta, e, per la prima ed ultima volta nella mia carriera, commisi un’imprudenza fatale. Mi precipitai verso di lui, ignorando la stranezza della cosa.

Un lampo. E fu tutto buio.

 

Quando mi svegliai, ero bendata da capo a piedi, e il peggior dolore che avessi mai provato mi ossessionava.

Non appena mi mossi un poco, mi arrivò all’orecchio una voce gentile, che intimò di fermarmi.

Ero al Lazzaretto da ormai quindici giorni.

 

Ci volle un altro mese per farmi riprendere.

Ero stata presa dalla tomba per i capelli: una famiglia di boscaioli mi aveva trovata, ustionata orrendamente, in una radura, sola, e mi aveva pietosamente aiutata.

Avevo abbracciato la morte.

Di Chekaril nessuna traccia.

La grotta non esisteva. Non era mai esistita.

Quella a cui ero andata incontro era una sola cosa: una trappola.

 

Venne il giorno in cui dovettero sbendarmi: nessuno sapeva cosa avrebbero trovato sotto le bende. Forse sarebbe rimasto qualche segno, mi dissero.

La prima volta che, tremante, mi vidi allo specchio, quasi svenni.

Mi era rimasto ben più di qualche segno. Mi sarebbe rimasto per sempre.

Metà intera del mio corpo era una sola, orrenda cicatrice.

Nemmeno il viso, il mio bel viso, era rimasto indenne: da una parte la mia pelle lattea era intatta, liscia come una buccia di pesca.

Dell’altra si era salvato solo l’occhio, fortunatamente, che luccicava malevolo come giaietto.

I capelli si erano bruciati, ed avevano scavato solchi come corde sulla mia nuca.

Ero quasi calva, fatta eccezione per una vaga lanugine che cominciava a crescere.

Piansi, per la prima volta dopo tantissimo tempo. Mostro. Mostro. Mostro!

 

Quel nome cominciò a perseguitarmi.

Di bisbiglio in bisbiglio, di bocca in bocca, Ombra moriva lentamente, soffocata da un altro fardello.

E da gloriosa Spia, di Lsyn Amarto non rimase altro che una miserabile cicatrice vivente.

Non accettai, né mai ho realmente accettato, cosa divenni.

Gli specchi diventarono i miei peggiori nemici, gli unici davanti ai quali tremavo di paura.

No, non volevo essere messa di fronte alla mia miseria, al mio fallimento.

Cominciai ad indossare quella che sarebbe divenuta la mia tenuta, immutabile e ammonitrice.

Mi nascosi, nascosi il mio viso sfigurato sotto una maschera di porcellana, bianca, fatta eccezione per due linee nere che, come lacrime, mi scendevano dalle fessure per gli occhi, tutto quello che volevo fare vedere di me.

Quei pozzi, neri, vuoti, bui. Abissi.

Era il deserto, il nulla in cui si era trasformata la mia anima.

Il niente che io ero.

Celai il mio corpo sotto pesanti abiti neri ed un mantello che lasciava scoperto solo il volto. I capelli ricrebbero, ricci e scuri come sempre. Ricadevano, come un sipario, ai lati del mantello.

Non ero più io, né lo sarei più stata.

Ombra, l’astuta Spia, l’assassina, sempre vincente e fedele, era sparita. Al suo posto nacque Mostro, derelitto nulla e buco nero, che mai più esercitò il proprio mestiere...

 

La Regina, possano gli dei averla in eterna grazia, non ha mai dimenticato.

Mi chiamò al suo cospetto, chiamò me, Il Mostro, la spia decaduta ed inutile, ad apparire davanti a lei, splendente di oro e gioielli.

Ella mi guardò, vide il tetro fantasma che ero divenuta, e sorrise, piena di veleno, di disprezzo.

Avevo fallito miseramente, ero stata giocata come una novellina.

Per colpa mia il fratello era ancora prigioniero.

Chekaril, sì, il mio amore.

Dov’era? Come stava? Qualcuno aveva notizie di lui?

“Abbiamo tutti subito una grande perdita, Lsyn”.

Mi disse, con la sua voce dolce come miele, continuando a sorridere, come giocandosi di me.

“Ed io non ho perdonato questo tuo enorme fallimento. Non perdono facilmente. Mio fratello è l’unico capace di poter preservare il mio sangue e la mia stirpe. Io non posso avere figli: senza Chekaril, il nostro regno sarebbe preda dei feroci avvoltoi della successione, e piomberebbe nel caos. E tu cosa fai? Giochi all’inseguimento? Comprendi al meglio la portata della tua imprudenza, ora? Ti chiedo ora l’ultimo favore. Vai, e cercalo, e dopo sarai libera”.

Come mi sentivo umiliata, ma come quelle parole furono per me campane a festa, gioia e luce in una camera buia!

Sì, avevo ancora una possibilità. La mia Regina mi aveva fatto un regalo.

Provai un’immensa gratitudine per lei, che aveva capito l’entità della mia pena.

Cosa potevo fare, se non obbedire?

Non sopportavo più la mia vita inerte, l’orrore che suscitavo al mio passaggio, i miei incubi, i miei ricordi.

Volevo fuggire, scappare via, volare in alto e ritornare ad essere forte.

Radunai le mie armi e tutto ciò di cui avevo bisogno, e mi misi in viaggio.

L’ultima missione.

 

Passarono ore. Giorni, settimane, anni.

Cinquant’anni.

Non sono molti, per un elfo, in realtà. Nella sua vita non cambia nulla.

E nella mia ci fu spazio solo per il vagare, il cercare, come un cane rognoso e randagio.

Per cinquant’anni, vagai.

Per cinquant’anni, non conobbi altro che fuggevoli illusioni, veglie crudeli e cocenti delusioni.

Per cinquant’anni fui la tetra pellegrina, l’oscura viaggiatrice.

E, per cinquant’anni, non ebbi notizia alcuna di Chekaril.

 

Ora voglio raccontarvi una storia.

La storia di come bevvi l’amaro calice fino alla feccia.

Perché, si, come ogni viaggio, anche il mio doveva avere un termine.

Me ne sarei resa presto conto.

 

 

 

Angolo di Akita xD: come vedete, non è affatto granché  .____. conto di migliorare...o lo spero O.ò I capitoli sono corti, lo so, ma preferisco così (almeno non ci si ammazza al solo vedere la lunghezza xD). Beh, in ogni caso, vi piaccia o meno questa storiella senza pretese, lasciate una bella recensione? Fa bene alla salute, sapete... Soprattutto a quella dell’autrice. Graaazie xD

ps: questo prologo è stato corretto e migliorato. Era tempo che volevo farlo, ma purtroppo non ne ho mai avuto l’occasione. Provvederò a sistemare anche gli altri capitoli quando potrò.

Akita

 

 

  
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