Fanfic su attori > Jamie Campbell Bower
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Autore: herflowers    23/02/2014    5 recensioni
Ginger, convinta di aver finalmente voltato pagina e aver cominciato il primo capitolo della sua vita, si troverà di fronte a bivi che la costringeranno a prendere decisioni, alcune sbagliate e altre meno.
Dividersi in quattro per amicizia, amori e per se stessi è difficile. Amori complicati, ma allo stesso tempo unici. Amori condivisi, espansi alla solita relazione di “coppia”. Un triangolo stravolgerà ogni cosa. Quali occasioni verranno sprecate? Quali problemi sorgeranno e cosa succederà?
L’amore è proprio tutto quello di cui si ha bisogno per sentirsi vivi e parte di qualcosa?
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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03: 00 a.m.

Avvolta dal buio, seduta su un seggiolino morbido dei primi posti di un autobus, tentavo di rimanere sveglia. L’autista frenava spesso, la mia testa stanca cadeva in avanti ogni volta e ognuna di esse brontolavo qualcosa di incomprensibile persino per me stessa. Avevo un bisogno disperato del mio amato letto sovrastato da piumone e coperta aggiuntiva. Nonostante amassi particolarmente le giornate invernali di inizio Novembre, dove il vento cominciava a farsi veramente freddo e pungente, soffrivo molto il freddo.
Con il cellulare tra le mani, rigirandolo più volte giocherellandoci, pensai se fosse opportuno mandare un messaggio a Lewis per incontrarci in caffetteria. Avevo bisogno di smaltire la mezza sbronza della notte passata tra drink, salatini e persone sudate ed eccitate che si muovevano a tempo di musica. Verso metà della festa avevo deciso saggiamente, cosa del tutto anomala, di andarmene lasciando due o tre della compagnia lì a divertirsi fino all’alba. A quel punto sbloccai lo schermo del cellulare e cominciai a comporre un messaggio:
A: Lewis
Adesso. Caffetteria?
X Gin.

Schiacciai il piccolo tasto a lato del cellulare, bloccandolo, e tornai ad ascoltare l’immenso e piacevole silenzio di quel momento. Solamente il rumore fievole del motore riecheggiava nell’abitacolo, ma non disturbava affatto. Mi aiutava a rimanere sveglia evitando che le palpebre superiori incontrassero le loro gemelle facendo combaciare le lunghe ciglia piene di mascara. Comincia a rivedere alcuni spezzoni della festa nella mia mente. Alcuni dicevano che quando si sogna ad occhi aperti è perché il cervello deve recuperare il sonno perduto e crea una sorta di sogno reale ad occhi aperti.
Finalmente era ora di scendere. Mi alzai dal mio posto con le gambe instabili e la testa pesante cercando a tastoni il tasto rosso per prenotare la mia fermata.
<< Dove cazzo..>> Sussurrai tra me e me.
<< Fanculo >> Sentenziai avviandomi verso la porta e chiedendo all’autista di fermarsi. Frenò di colpo e fortunatamente riuscii a stare in piedi senza fare figuracce come mio solito. Scesi dall’autobus e m’incamminai verso la caffetteria in centro dove avrei aspettato Lewis. Dopo circa un chilometro arrivai davanti all’edificio, in mattoni rossi separati l’uno dall’altro da un centimetro di cemento, ed entrando il suono di una campanella accompagnò l’aprirsi della porta. Quella caffetteria era aperta tutta notte nonostante non ci fosse quasi nessuno dopo la mezzanotte. Camminai lentamente verso il nostro tavolo abitudinario e mi sedetti vicino alla finestra. Solitamente piaceva a Lewis sedersi in quel posto per il semplice fatto che poteva guardare i fianchi e le lunghe gambe delle ragazze che passavano sculettando sul marciapiede. Io, invece, amavo quel posto perché mostrava i paesini lontani dal centro di Dublino. Con il buio non si vedeva molto, ovviamente, ma ne approfittavo comunque quando era possibile. La suoneria mi avvertì dell’arrivo di un messaggio.

Da: Lewis
Sarò lì tra due minuti, sono per strada.
X

 

 
<< Raccontami, cosa avete fatto?>> Mi domandò sbadigliando e tenendo tra le mani una tazza grande di ceramica contenente del caffè.
<< Le solite cose.>> Risposi semplicemente facendo spallucce e guardando i cerchi al centro della mia tazza di tè caldo.
<< Di che genere? Sai, ogni volta fate cose diverse dal solito, Gin..>> Precisò.
<< Abbiamo rotto il ghiaccio con una bevuta e abbiamo ballato, tutto qua. Le solite cose.>>
<< Strano che questa volta non vi siate fatti!>> Disse veramente sorpreso.
<< Quello è successo dopo >> Risposi alzando lo sguardo di colpo e incontrando i suoi occhi. Sul suo viso potevo notare un pizzico di delusione nei miei confronti e un po’ di ilarità.
<< Avanti! Scherzo!>> Risposi ridendo e appoggiandomi allo schienale della sedia di ferro con una piccola imbottitura al centro di esso. Portai la tazza alle labbra e sorseggiai il mio tè.
<< Lo sai che non fumo quella merda, non amo nemmeno particolarmente la nicotina e il tabacco, dovresti saperlo >> Aggiunsi appoggiando la tazza con delicatezza sopra il piccolo centrino davanti a me. Non ero totalmente d’accordo con quelle persone, come alcuni miei amici di New York, che fumavano per divertimento e per far vedere la loro “superiorità”. Vedere arrivare il proprio figlio a casa fatto, ubriaco e drogato non era il massimo della contentezza dal mio punto di vista. Io, quando abitavo con i miei prima di andarmene di casa, mi concedevo alcune serate insieme a loro, ma non toccavo mai quella roba. Bevevo solamente qualche drink fino quando non sentivo che era il momento di smettere. Non arrivava mai il momento in cui dovevano portarmi davanti alla porta di casa e io mi piegavo in due in mezzo alla siepe per riporre tutto l’alcool nel mio stomaco.
<< Lo so benissimo, ma non è che sei completamente “vergine ” riguardo queste cose >>
<< Lo so >> Risposi semplicemente, girai il viso verso la finestra e cominciai a guardare la luce fievole del lampione dall’altra parte della strada. Passò un cane che si fermò proprio sotto la luce del lampione e alzando la testa incontrò il mio sguardo attraverso la finestra. Mi sorpresi di poter vedere il suo sguardo da così tanta distanza, ma i suoi occhi indifesi e sinceri erano fissi nei miei fin quando non cominciò ad allontanarsi scodinzolando. A quel punto mi voltai verso Lewis e guardai il suo profilo. Era un tipo un po’vanitoso e gli piaceva quando una persona, specialmente una ragazza, lo ammirava. Io mi soffermavo spesso sui suoi lineamenti e ogni volta mi incantavo. La mano sotto il mento che sorreggeva la testa, le lunghe ciglia che sbattevano e si incontravano, pronte a proteggere i suoi occhi verdi. E le labbra carnose, di un rosso intenso erano pronunciate verso l’alto.  Notai quel filo di barba su tutta la lunghezza e sotto la mascella, arrivando a metà della lunghezza del collo. Gli donava particolarmente e lo faceva sembrare più maturo, ma le apparenze ingannano, no?
<< Ti dona quel filo di barba che hai >> Dissi con lo sguardo fisso sul suo profilo.
<< Ah, dici?>>
<< Certo, dammi retta.>> Risposi incrociando le braccia al petto e appoggiandole sulla superficie di legno a pochi millimetri da me. Mi rivolse proprio quello sguardo, quello che usava per dire “Visto? Non sono poi così male come dici..”. Odiavo quello sguardo perché se lo sarebbe ricordato a vita.
<< Non montarti la testa, femminuccia >> Dissi sorridendo, ma cercando di essere più acida del solito.
<< E tu non ridere sotto i baffi, nano >> Ribatté. Cominciai a ridere, la mia risata si diffuse in gran parte della caffetteria, forse mi avrebbe sentito anche il personale in cucina nonostante la porta chiusa.
<< Abbassa la voce!>> Mi ammonì.
<< Nano?>> Lo imitai ridendo a tratti cercando di calmarmi.
<< Esattamente >> Rispose sorridendo. Il suo sorriso, la cosa migliore che una persone potrebbe vedere durante tutto l’arco della giornata, meglio del tramonto e dell’alba. Quando mostrava quella fila di denti pari e bianchi come la neve candida ogni donna sarebbe caduta ai suoi piedi, ogni donna eccetto me. Non sarei mai riuscita ad innamorarmi del mio migliore amico. La vedevo strana come cosa. La persona che conosce tutto di me, proprio tutto e forse anche più di quanto io possa conoscere me stessa, che mi bacia e mi coccola. No, proprio no. Era come se avessi baciato mio fratello, orribile!
<< Senti nano..>> Cominciai  << ti va di venire da me per una maratona di film?>>
<< Mi farebbe piacere, ma..>> Disse abbassando lo sguardo e giocherellando con le dita, le parole gli morirono in gola. Alzai un braccio e aprii la mano scuotendola in segno di resa prima che quei quattro nervi rimasti addormentati si svegliassero e saltassero come molle dentro me.
<< Tranquillo, ma renditi conto che non abbiamo più un momento per stare insieme da quando frequenti quella. Ormai al centro del tuo cervellino in prognosi riservata c’è solo lei. Migliori amici del cazzo, proprio..>> Sentenziai chiudendo il discorso. Mi alzai di colpo prendendo tra le mani la tazza di tè sul tavolo e tracannandolo fino alla fine. Mi asciugai una goccia di tè appoggiando a lato della bocca il polsino della felpa che indossavo. Strappai decisa la giacca dallo schienale della sedia sulla quale ero seduta e infilandomela lasciai qualche Euro sul tavolo.
<< Ciao Lewis >> Dissi andandomene. Seriamente, non sopportavo quando mi rimpiazzava con altre ragazze. Odiavo come potesse dimenticarsi di me, la sua migliore amica da due anni, per una ragazzetta che lo avrebbe lasciato di lì a pochi mesi.
<< Ginger..>> Mi richiamò, ma lo ignorai.
Aprii la porta e quell’insulsa campanella suonò ancora. Il freddo pungente colpì il mio viso facendomi stringere nel giubbotto. Cominciai a camminare tranquillamente, tranquilla del fatto che non avrebbe provato a seguirmi, fermarmi o, meglio, scusarsi. Lo conoscevo troppo bene: sarebbe rimasto seduto a quel tavolo per un’altra ora buona a riflettere. Si sarebbe ucciso interiormente con tutti i suoi discorsi mentali, con tutti quei pensieri e prima o poi avrebbe saputo che cosa fare. Era sempre così.
Non avevo voglia di tornare a casa, ma nemmeno di starmene in mezzo alla strada al freddo. Per calmare i bollenti spiriti, ogni volta, inconsapevolmente mi ritrovavo sempre nello stesso posto, ero cresciuta in posti come quello. Il conservatorio.
Quando, da adolescente, abitavo ancora a New York mi rintanavo spesso in una stanza con un pianoforte al conservatorio dopo qualche litigata furiosa con i miei, dopo qualche discussione innocua con mio fratello o semplicemente per stare sola, solamente con me stessa e i miei pensieri. Da quando vivevo a Dublino non ero mai tornata nella mia madre patria e non ne avevo nemmeno la voglia. Da più di un anno, circa, Lewis mi aveva detto di una sottospecie di conservatorio pubblico dove le persone potevano entrare e imparare a suonare senza dover pagare nulla. Un uomo sulla trentina aveva trasformato completamente un vecchio garage in quell’edificio apportando delle modifiche alla struttura e allargandolo di parecchi metri quadrati. Infine si era offerto di insegnare a bambini, adolescenti e adulti a suonare uno o più strumenti programmando lezioni settimanali. Io ero andata a qualche lezione rimanendo in disparte, in un angolino buio, dove nessuno mi avrebbe potuto vedere per ascoltare le sue parole e ascoltare il modo in cui suonava il pianoforte. Un giorno, dopo una lunga lezione con dei bambini, gli chiesi se potevo avere una copia della chiave che apriva la porta principale dell’edificio. Ricordavo ancora le sue parole: “Se sai dimostrarmi che nasconderti nella penombra e ascoltare quei pochi conigli utili che do serve a qualcosa, okay”.
Quella sera mi fece suonare un pezzo a pianoforte e ci lavorammo tutta la notte mostrandomi i punti in cui sembravo più insicura. Infine, alle prime luci dell’alba decise di darmi una copia della chiave. Da allora uso quel posto quando più ne ho bisogno.
 
 ≈
 
Sfilai le maniche della giacca dalle mie braccia appoggiandola sulla piccola sedia di legno classico e obsoleto, mi avvicinai al raccoglitore appoggiato su un tavolino basso. Sfogliando le varie buste di plastica trovai lo spartito che mi fece suonare quella sera. Il “Marcello” di Bach in adagio. Poteva sembrare un brano triste, ma rispecchiava il mio umore tutte le volte che lo suonavo. Forse, secondo me, lo migliorava in positivo. Dopo aver smesso di suonare, uscendo da quella sala, mi sentivo più.. rilassata.
Partii con la mano sinistra sui tasti bianchi seguita poi dalla destra. La melodia prendeva forma nella mia testa, ormai lo spartito era stampato nella mia mente, ma continuavo a prenderlo e ad appoggiarlo sul piccolo leggio per paura di dimenticare qualche cosa. Le dita leggiadre si appoggiavano sui tasti schiacciandoli con delicatezza e provocando quel suono malinconico, ma così dolce allo stesso tempo.
Finito il brano mi alzai mettendo via lo spartito e chiudendo il coperchio della tastiera. Presi le mie cose e tornai a casa. Entrata nel mio appartamentino andai direttamente in direzione della mia camera da letto. Buttai tutti i vestiti su una poltrona laccata di rosso antico e, infilandomi una maglietta soltanto, mi misi sotto le coperte chiudendo gli occhi e lasciandomi trasportare da Virgilio all’iferno.
   
 
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