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Autore: Icharus_    23/02/2014    4 recensioni
Prendete gli Amis de l'ABC in viaggio sul transatlantico più sfortunato di tutti i tempi nell'Aprile del 1912, unite un Enjolras stanco della propria famiglia, attaccata al denaro e sempre pronta a disprezzare tanto i passeggeri di terza classe quanto gli ideali del figlio, che avrà per caso un incontro con gli Amis e con uno in particolare: l'ubriacone dalle ottime doti artistiche che avrà un particolare effetto sul Marmoreo Amante della Libertà, mescolate il tutto e otterrete questa storia dal titolo che è tutto tranne fantasioso.
E' la mia prima fanfiction e spero di non aver fatto strafalcioni anacronistici (ho cercato di attenermi alle originali descrizioni del Titanic) o peggio, spero di non aver reso questa e/R troppo simile alla storia di Jack e Rose (per la quale tra l'altro non nutro molta simpatia).
Detto questo buona lettura a tutti!
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Enjolras, Grantaire, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Prima di iniziare, un ringraziamento molto molto speciale a Letz, che ha aspettato questa fanfiction e che spero di non deludere.

Capitolo 1

 10 Aprile 1912
12:20


Stava in piedi al centro di quella che per i prossimi dieci giorni sarebbe stata la sua stanza, i bagagli ancora fatti e ammassati in un angolo come se avesse potuto trovare una via d’uscita e scappare da lì all’ultimo momento.
Purtroppo però era già in mezzo al mare sul più grande transatlantico esistente con i più grandi tronfi, deprecabili borghesi esistenti.
Se ne stava lì, immobile, testardo fino all’ultimo, pensando a quanto gli bruciava che la sua famiglia facesse parte di quel pezzo di società da lui tanto odiato. Non era tanto perché erano i suoi genitori, quanto perché lui era loro figlio, aveva il loro sangue e questo lo rendeva parte di quella dannata classe borghese.
 
Si riscosse al terzo isterico “Enjolras muoviti, ci aspettano per il tè!” di sua madre.
Pescò dei vestiti a caso dalla valigia e ghignò tra sé e sé di soddisfazione quando realizzò di aver appena trovato uno dei peggiori capi d’ abbigliamento in suo possesso. Lo avevano costretto ad andare su quella nave? Ad abbandonare la sua Parigi? Bene. Se lo sarebbero tenuto così, volenti o nolenti.
 
Enjolras si recò nel salottino con lo stomaco che ribolliva d’indignazione alla vista di tutta l’opulenza che lo circondava, per non parlare poi dell’arredamento in stile Luigi XV e Luigi XVI, sembrava l’avessero fatto apposta per prendersi gioco di lui, lui che tanto detestava quei due sovrani causa di tante sofferenze per il popolo di Francia, li odiava nonostante le loro monarchie fossero ormai storia, avrebbero potuto ripetergli all’infinito che “E’ solo gente morta da secoli, non capisco perché tu te la prenda tanto” non li avrebbe ascoltati. Ostentare tutto ciò era uno scherno oltraggioso. Cosa credevano? Che gli fosse sfuggita la massa di gente che s’imbarcava con un solo borsone lacero a famiglia, valigie di cartone e un sorriso speranzoso che di allegro non aveva niente?
Enjolras aveva osservato, quasi contemplato quella scena e, lo sapeva perfettamente, così avevano fatto anche i suoi genitori, solo che loro si erano limitati a guardare e passar sopra a quella massa neanche si fosse trattato di scarafaggi.
Raggiunse il piccolo assembramento degli amici di suo padre, alcuni intenti a fumare il sigaro, altri attaccati a un bicchiere di Brandy, altri ancora a scrutarlo forse per i suoi capi consumati, seppur di buona qualità e, più probabile, per il rosso appariscente della sua giacca.
Mentre sentiva distrattamente qualche signora bisbigliare in tono di rimprovero: “Vero che starebbe bene anche con uno straccio, però…” si sedette in disparte aprendo il suo libro per poi immergervisi, deciso a non fare ritorno nel mondo reale prima dell’ora di cena. Purtroppo i suoi piani erano ben lungi dal realizzarsi
"Ehm, Ehm" suo padre aveva sempre quel tono irritato nel rivolgersi a lui, anche solo con un “Ehm, ehm”.
Enjolras alzò gli occhi dal libro senza dire nulla e li posò sul genitore.
"Non ho intenzione di guardarti fare il pezzo da mobilio per tutta la durata di questo viaggio, mi hai capito?"
"Se mi aveste lasciato a Parigi ora tu e la mamma non avreste questo grosso problema, o mi sbaglio?" lo provocò Enjolras, rimarcando le parole questo grosso problema nel caso non si fosse capito che era riferito a se stesso.
Se lo sguardo dell’uomo fosse stato in grado di lanciare fulmini, avrebbe incenerito l’intera nave.
"Adesso ascoltami figliolo…" sibilò, ma il figlio non gli permise di finire, si alzò in piedi sempre guardandolo dritto in faccia – era quasi più alto di lui – e sputò le parole più lapidarie, ma anche più vere che aveva chiuse in testa da quando si era imbarcato su quel dannato transatlantico
"No" fece, attento a scandire bene ogni sillaba e lanciando uno sguardo anche a sua madre che si sforzava di rimanere rigida, composta, impassibile " Non chiamarmi “figliolo”. Preferirei essere dovunque piuttosto che qui e appena potrò farò ritorno a Parigi, che voi ci siate o no non mi interessa minimamente" sentenziò, ora tutta la sala lo stava guardando. Prese ancora un ultimo, profondo respiro, compiacendosi delle facce esterrefatte dei bevitori di Brandy "Mia madre è la Repubblica!" quasi gridò l’ultima frase.
Dopodiché, senza aspettare un commento su quanto fossero privi di veridicità e di senso i suoi ideali, voltò le spalle ai presenti e corse dritto verso il ponte. Aveva bisogno d’ossigeno che non fosse condiviso con gente del genere e se l’essere lì sopra aveva un solo lato positivo era il fatto di muoversi costantemente e velocemente, così che l’aria all’aperto cambiasse di continuo.
 
Appena messo piede fuori, il ragazzo si trovò in mezzo a un miscuglio eterogeneo di persone; tutti i passeggeri, di qualunque classe, gironzolavano sul ponte, godendo dello stesso vento fresco e del tepore dello stesso sole. Notò due ragazzi, di terza classe a giudicare dai vestiti e dal poco contegno che tenevano mentre correvano verso prua, dovevano avere circa la sua età e sembravano le persone più felici del mondo.
Tutto ciò lo fece sentire immensamente meglio, riuscì a dimenticare la sua famiglia e riportò alla mente le sue solite riflessioni. Pensò alla Francia, che gli sembrava enormemente più importante dei suoi tanto odiati genitori, come a una nave invece di una nazione, un immenso transatlantico nel bel mezzo dell’oceano in cui tutti convivono e collaborano per far sì che il bastimento continui a muoversi. Ma no, si disse, non avrebbe funzionato. Si sarebbero ritrovati esattamente com’erano adesso: divisi per classi, per soldi, la classe benestante a sottrarre spazio a quella più miserabile fino a ridurre quest’ultima a soggiornare in delle nicchie troppo spesso visitate dai topi.
Ripensandoci in questo frangente, alla fine, la sua Patria non era poi così diversa dal posto in cui si trovava.
 
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Non aveva idea di come fosse finito lì sopra. L’alcol, pensò, il che era perfettamente plausibile, ma proprio non riusciva a ricordare come tutto fosse iniziato. Sapeva solo di essere su una branda non troppo diversa dal suo letto in quella topaia che aveva il coraggio di chiamare casa e che la testa gli pulsava tanto da fargli credere che stessero bussando alla porta.
"R! Ei, Grantaire, mi apri o no?" ottimo, ora sentiva anche le voci.
"Grantaire, per Dio, apri questa dannatissima porta!". No, forse stavano bussando davvero ed era il caso di andare ad aprire.
Era Bahorel.
"Finalmente!" esordì entrando e superando l’ubriacone, ancora mezzo addormentato "Sono venuto a raccattare un paio di cose, poi torno dai ragazzi. C’è della gente che si è messa a suonare, sai, pianoforte, fisarmonica… e Courf è lì che canta, ‘Ferre ovviamente è scappato con la scusa di assistere Joly in una crisi di mal di mare, ma ci sono un paio di belle figliole che mi dispiacerebbe troppo lasciar da sole, per cui…" detto questo, senza aspettare qualsiasi tipo di risposta da parte dell’amico, Bahorel uscì quasi volando e non si vide più fino all’ora di cena.
Grantaire decise di rinunciare nell’impresa di ricordare almeno in parte cosa ci facesse su quella nave, perché una nave doveva essere, non era possibile che fosse ancora così ubriaco da sentirsi muovere il pavimento sotto i piedi. Poi però si disse che se c’erano anche Bahorel e gli altri, non doveva essere qualcosa di eccessivamente preoccupante.
Rassicurato da questo pensiero prese il blocco da disegno e uscì; disegnare era da sempre un buon metodo per gestire le sbornie.
Arrivato sul ponte impiegò qualche minuto per trovare una posizione congeniale alle sue esigenze, poi si concentrò nella ricerca di un soggetto qualsiasi. Aveva adocchiato un padre intento ad insegnare al figlio a usare una trottola e gli erano sembrati una buona fonte d’ispirazione, era già pronto a posare la matita sul foglio, ma si fermò.
A quanto pareva anche il dio del Sole viaggiava in nave.
Un ragazzo alto, i cui ricci biondi seguivano le curve del vento, stava appoggiato al parapetto scrutando il mare con aria seria. Era bellissimo. Il suo sguardo non lasciava trasparire alcun tipo d’emozione, poteva essere assorto nei suoi pensieri ma al contempo vigile e attento.
Grantaire si sentì mancare il respiro davanti alla sua figura. Se non fosse stato certo del contrario, avrebbe detto che quel ragazzo appariva più luminoso del sole, era un universo a sé, non c’entrava niente con tutti gli altri passeggeri che passeggiavano e chiacchieravano, lui era lì e non c’era bisogno che interagisse con altri esseri umani, bastava la sua presenza a trasmettere un senso di perfezione assoluta. Grantaire non aveva mai creduto in niente prima di allora. Lui, che si era sempre crogiolato nel suo scetticismo, ora pensava che se quel ragazzo, un perfetto sconosciuto, gli avesse chiesto qualsiasi cosa l’avrebbe seguito senza alcuna esitazione, avrebbe creduto in lui, sempre e comunque.
Si diede dell’idiota tempo sei secondi, ma non poté trattenersi dal cominciare a muovere la matita tracciando sul foglio linee morbide e sinuose dando formai ai capelli che a breve avrebbero fatto da cornice ai tratti severi, ma insieme divini e puri del viso di Apollo.
 
Disegnò per un sacco di tempo, era ormai il tramonto e il dio se n’era tornato dentro da un pezzo, ma Grantaire era rimasto lì ad aggiungere dettagli al suo disegno fino a che non si era sentito piuttosto affamato e aveva deciso di rientrare dentro anche lui. Chissà, forse l’avrebbe incontrato a cena…
Una volta raggiunti i suoi amici tuttavia notò con un po’ di delusione che l’unico biondo presente aveva i capelli lisci e sembrava più un bambino che il dio del Sole; a Grantaire ricordava, chissà perché, uno dei suoi amici, Marius Pontmercy, rimasto a Parigi per quella ragazzina che vedeva tutti i giorni al Lussemburgo. Entrambi quei ragazzi erano eterni innamorati dall’anima in pena per giovani donne benestanti che neanche conoscevano.


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Note:
ebbene questo era il primo capitolo, spero davvero che non sia stato un totale disastro, non so ancora bene come muovermi qui, quindi ho il terrore di aver combinato qualche danno...
In ogni caso a voi i commenti. *incrocia le dita e spera di non essere messa alla gogna*
Icha_
  
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