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Autore: MelodramaticFool_    23/02/2014    0 recensioni
Quel giorno il tempo era un inganno. Un cielo azzurro come lo dipingono i bambini con le tempere. Non una sola nuvola a gettare ombre confuse sulla superficie dei marciapiedi, il sole galleggiante nel profondo blu come un capitano che osservava dall'alto le sue truppe. L'aria era gelata quel giorno, sotto lo zero, le uniche nubi le facevano gli aliti dei passanti, sbuffi di condensa che fuggivano in alto, sopra le teste, sopra i tetti dei palazzi. Quel giorno ebbi la strana sensazione che sarebbe successo qualcosa di terribile e che non avrei potuto fare assolutamente niente per impedirlo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Quel giorno il tempo era un inganno. Un cielo azzurro come lo dipingono i bambini con le tempere. Non una sola nuvola a gettare ombre confuse sulla superficie dei marciapiedi, il sole galleggiante nel profondo blu come un capitano che osservava dall'alto le sue truppe. L'aria era gelata quel giorno, sotto lo zero, le uniche nubi le facevano gli aliti dei passanti, sbuffi di condensa che fuggivano in alto, sopra le teste, sopra i tetti dei palazzi. Quel giorno ebbi la strana sensazione che sarebbe successo qualcosa di terribile e che non avrei potuto fare assolutamente niente per impedirlo. Era questa seconda parte a gettarmi nell'inquietudine, perché di cose terribili ne succedono continuamente. Mentre io sono qui, che parlo con voi, da qualche parte nel mondo una ragazzina si è appena gettata dal cornicione di un grattacielo, una madre ha appena dato alla luce un bimbo morto, ad un padre di famiglia è stato appena diagnosticato un tumore. Questo, almeno, secondo le statistiche, e per deformazione professionale sono molto portata a credere alle statistiche. Mi stanno simpatiche, mi è più facile considerare le vite come numeri, grafici, istogrammi non in pila, soprattutto se si tratta di morti. Ma quel giorno in particolare non ne sapevo niente di stime internazionali e di piani cartesiani, ero solo un'adolescente che era ancora una bambina con un grosso, enorme, brutto presentimento, il brutto presentimento che non avrei potuto impedire che il male accadesse. Non sapevo nemmeno che genere di male avrei finito per incontrare, ma era quel fottuto brutto presentimento ad angosciarmi, era quella l'ombra maligna che mi pedinò per tutto il viaggio di ritorno verso casa e che cercai inutilmente di scacciare, come si fa con le mosche o i pensieri molesti, così, con un gesto della mano. Ma quella non se ne voleva andare. Si era affezionata a me, immagino. Da quel giorno non mi abbandonò più, il male.
Feci l'ingresso in casa mia con la mia consueta non-grazia: chiavi sbattute a forza nella serratura, ticchettii metallici della porta che si sbloccava, lo scricchiolio mentre la spingevo a ruotare sui suoi cardini vecchi e consunti, le suole delle scarpe strofinate sul tappetino dell'ingresso con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, l'urlo "Sono a casa!" che rimbalzava sulle pareti, mescolandosi al baccano delle voci provenienti dalla televisione accesa e dal fornello in funzione.
Lanciai lo zaino a terra e buttai la giacca sulla sedia accanto al mobile dell'ingresso, mi diressi in salone e allora la vidi.
Dovete sapere che mia madre era una donna molto bella, davvero, bellissima, con questi capelli biondi e lunghi che le avvolgevano la nuca, le caviglie e i polsi sottili e le mani forti e nodose che potevano posare una carezza su una guancia e allo stesso tempo aprire un barattolo con sole cinque dita senza difficoltà.
Allora provate ad immaginare l'impatto del vederla distesa a terra, a pancia in basso, il viso schiacciato sul pavimento, quei capelli bellissimi che le circondavano il viso come un'aureola dorata, il maglione grigio che scopriva un po' i fianchi e gli stivaletti marroni e consumati di cui decantava sempre la comodità.
Mia madre era bellissima ed era distesa sul parquet chiaro del nostro salotto, nel corridoio tra lo schienale del divano e la parete della cucina.
Mia madre era crollata a faccia in giù davanti alla televisione accesa sul programma del pomeriggio, gli ospiti in studio di quel giorno furono gli unici a vederla cadere, a vedere la sua fronte colpire il pavimento con violenza.
E non emise un singolo lamento, mia madre, nemmeno un'imprecazione mentre collassava a terra, non un singolo gemito di dolore quando l'osso frontale urtò il duro legno.
Ho chiesto loro se ha sofferto, quel giorno, mentre moriva. E' l'unica domanda a cui i medici hanno risposto quasi volentieri, la sola domanda facile a cui li ho sottoposti, e loro sanno quello che la maggior parte della gente vuole sentirsi dire.
"Sul colpo, non se n'è nemmeno resa conto."
Solo che io non faccio parte della gente normale e a quel punto del colloquio ero scoppiata a piangere, ricordo le lacrime che scorrevano sulle guancie, gli occhi del patologo che si abbassavano a terra, la mano di mio zio che mi stringeva forte la spalla, che mi teneva in piedi, che mi teneva in vita. E io piangevo perché già le era toccata questa stronzata del morire, a mia madre, in più non aveva nemmeno avuto la possibilità di dare l'ultima occhiata al mondo, sì, certo, dal basso del pavimento, e sì, nel dolore della botta, ma era pur sempre la sua ultima occhiata, l'immagine che sarebbe rimasta racchiusa nei suoi occhi per l'eternità. Noi uomini, noi vivi, non conosciamo il concetto di 'ultimo', siamo convinti che non ci sia mai l'ultimo biscotto del barattolo, l'ultimo bacio di un amante, perchè siamo maestri nel trovare le scorciatoie più strampalate per evadere dalla limitazione dell'ultimo, compriamo nuovi pacchi di biscotti, rubiamo un'altra carezza dalle labbra di una persona amata.. L'ultimo per noi non esiste. Non ci piacciono gli addii. Siamo abituati ad infinite possibilità per sfuggirgli, ma ding-dong, miei cari vivi, notizia shock: prima o poi arriverà, quel benedetto ultimo, è il prologo di quella cosa oscura che ci piace chiamare morte, la anticipa, la precede. Avremo tutti il nostro ultimo pranzo, l'ultima stretta di mano a chi veglierà al nostro capezzale, la nostra ultima notte di agonia. L'idea dell'ultimo ci spaventa così tanto che ci siamo persino inventati il Paradiso e l'Inferno, un genio chi li ha pensati per primo, e credere ad una nuova vita dall'altra parte ci dona sollievo, ci toglie il terrore dell'ultimo, della grande minaccia. Però mi sarebbe piaciuto, sapete? Mi sarebbe piaciuto che mia madre si rendesse conto di quell'ultimo istante di vita. Se lo sarebbe goduto. E invece non le era stato concesso.
Mia madre è crollata in avanti, come un birillo urtato da una palla da bowling, è finita lungo distesa con un braccio sciacciato sotto il peso morto del suo ventre e l'altro abbandonato lungo il fianco.
E ricordo lucidamente come mi sono gettata su di lei, mi sembrava quasi di essere stata strattonata verso il suo corpo, come se mi avessero tirata con una corda legata attorno alla vita. Mi sono gettata su di lei senza cura e riguardo, perché la cautela smette di esistere nello stesso istante in cui vedi tua madre sdraiata a terra a faccia in giù. Mi sono gettata su di lei urlando perché tanto sapevo già che nessuno mi avrebbe ordinato di abbassare la voce. L'ho girata su sé stessa, senza nemmeno fingere di ignorare il suo volto livido, gli occhi spalancati. Deve essere proprio bellissima, la morte, perché quando coglie la gente all'improvviso questi hanno sempre un'espressione sbalordita, come se aprissero tutti gli occhi solo per accogliere la sua grazia. Mia madre li aveva spalancati e aveva la fronte tumefatta, e sangue sul viso. E non aveva più battito. E allora scoppiai a piangere, e urlai ancora e ancora, e urlai piangendo e piansi urlando, stringendola tra le braccia, appoggiando la guancia sui suoi capelli fradici delle mie lacrime. Quei momenti ti fregano, perché nella disperazione hai ancora quella speranza incancellabile che sia tutto un brutto sogno, uno scherzo di cattivo gusto.
Non era nessuno dei due.
L'ho chiesto io, ai medici, glielo abbiamo chiesto tutti, come poteva una donna bella, giovane e in salute come lei morire così, come per caso, come se il destino l'avesse pescata dalle sorprese dell'Ovetto Kinder, come è possibile?
E tutti i neurologi erano concordi,
"Una sincope", dicevano.
Sincope è un termine generale che indica una perdita di coscienza temporanea che causa collasso e svenimento, che nella lingua dei medici singifica fondamentalmente che non avevano una cazzo di idea sul perché mia madre fosse morta mentre andava da un capo all'altro del salotto. Poteva essere stata scatenata da una lista infinita di motivi, li ho studiati tutti e giuro che li potrei citare a memoria uno per uno: per il sangue, per i neuroni, per lo stress, per l'ossigeno, per l'influenza, per gli zuccheri, per i geni, e per altri miliardi di milioni. Loro non sapevano quale di questi potesse essere stato e, di conseguenza, non potevo saperlo nemmeno io. E provate voi a spiegare ad una bambina che sua madre è morta da un giorno all'altro per uno scherzo del destino, davvero, provateci, perché a me quando l'hanno detto sono stati costretti a trascinarmi immediatamente via dalla stanza, in due a tenermi, un infermiere e mio zio, che è ben piazzato, mai lo avrei immaginato a trattenere una bambina di dodici anni dall'azzannare un neurochirurgo laureato. Una bambina di dodici anni pretende risposte e non accetta mezze considerazioni. Vuole certezze, finché può ottenerle. Però, in quel caso, aggredire come una selvaggia il medico che ritenevo direttamente responsabile della diagnosi non mi avrebbe giovato, perché i medici bravi sono quelli che darebbero dieci anni di notti insonni pur di aiutare un paziente, e devo ammettere a me stessa di ricordarla, un po', quell'aria di sconfitta nei suoi occhi quando mi spiegò cos'era una sincope, sconfitto dai limiti della scienza su cui non poteva nulla, nulla. Ma io volevo qualcosa da accusare, e sono ormai dieci anni che lo cerco, questo qualcosa, perché è l'unico modo per impedirmi di sentire il senso di colpa annidiarsi nelle mie stesse vene, l'unico modo per evitare di pensare che 'se fossi arrivata dieci minuti prima, se non mi fossi fermata a parlare con i miei compagni di classe, sarei arrivata in tempo'. E dopo quasi dieci anni, forse, ma dico forse perché oso a malapena sperarci, mi verrà data una vera risposta, degna di essere tale.
A dodici anni sono andata a vivere con mio zio, che ha gli stessi identici occhi di mia madre. 
A tredici sono scappata di casa per la prima volta, ho dormito tre giorni nel sotto scala del capolinea della metropolitana prima che mi trovassero. 
A quattordici ho scoperto una striatura marroncina negli occhi di mio zio e sono riuscita finalmente a guardarlo di nuovo negli occhi. 
A sedici anni, la mattina dell'anniversario della sua morte, ho sputato sulla sua lapide, 
"Perché sei morta?!",
urlavo al vento,
"Perché mi hai lasciata da sola?!",
ero arrabbiata, talmente arrabbiata con lei che avrei lanciato una bomba sulla sua tomba, avrei goduto nel veder esplodere la lapide con inciso il suo nome e quelle due date insignificanti, avrei riso nel trovare i frammenti del marmo scuro incastrati tra le pieghe della giacca.
A diciannove anni sono tornata in quel cimitero e ho passato la notte sdraiata sul prato sottile che ricopriva come un telo quello che restava dell'autrice dei miei giorni,
"Perché sei morta?"
ripetevo trai singhiozzi, le lacrime che bagnavano la pietra levigata del suo epitaffio,
"Perché mi hai lasciata da sola?".
Ora di anni ne ho ventidue e nel giro di altri due avrò passato metà della mia vita senza la persona che mi ha data alla luce.
Mio zio si è sposato, intanto, è bello quasi quanto mia madre, solo che ha passato sei primavere a badare alla sottoscritta e ha perso parecchio tempo utile. Però ha una moglie degna di lui e della sua bellezza, e hanno una bambina di tre anni con i boccoli biondi e gli occhi da cerbiatto come quelli della sua zia. E' stata lei a trovarmi, stesa a terra sul tappeto della mia camera da letto con gli spasmi a gambe e braccia e il diavolo stampato in viso. E devo ringraziare mio zio che le ha insegnato già a quest'età a comporre il numero del pronto soccorso perché altrimenti non sarei mai riuscita a raccontare questa storia.
E il neurologo è appena entrato nello studio con i risultati dell'ultimo esame che ho fatto in questo mese, da quando mia cugina mi ha salvato la vita premendo una manciata di pulsanti sulla tastiera di un telefono.
"Buongiorno."
"Buongiorno."
Si siede dietro alla scrivania, apre una cartelletta scura pescata da un cassetto, sparge delle lastre e dei grafici sulla superficie del tavolo.
La prende alla larga, il mio medico, gira attorno alla diagnosi, si lancia in un monologo sul mio esame, io lo ascolto con un sospiro, ma dopo cinque minuti non lo reggo più, aspettare è insopportabile.
"Senta, dottore, lei è un ottimo medico, lo credo davvero con tutto il cuore, davvero, ma la prego di piantarla con questa maledetta filippica e di rivelarmi la diagnosi adesso, perché è un mese che vengo in questo ospedale a fare un esame ogni tre giorni e questo era l'unico che mi mancava, no?, quindi, se avete scoperto finalmente cosa c'è di sbagliato in me, per favore, me lo dica subito, senza troppi giri di parole."
Quello mi guarda sbalordito, come se nessuno in tutta la sua carriera avesse mai avuto il coraggio di interromperlo. Con quei capelli brizzolati e bianchi sulle tempie e gli occhi spalancati dallo stupore mi ricorda molto un koala. Devo trattenermi dal ridere, non sarebbe molto educato nei suoi confronti.
Lo vedo ingoiare una risposta sui toni, sono pur sempre una sua cliente. Una cliente la cui vita è affidata nelle sue mani.
"Signorina," sospira, premendosi un occhio con il pollice, "lei ha l'epilessia."
"Epilessia?"
Epilessia.
"Sì, epilessia."
Epilessia.
"Ne è sicuro?"
Epilessia.
"Quello che ha fatto è l'unico esame in grado di poterla individuare con certezza. Non potrei esserne più sicuro."
"Ma stiamo parlando della stesa epilessia per cui il Tribunale d'Inquisizione mandava al rogo le contadine, accusandole di essere streghe?"
Di nuovo l'espressione da koala.
"Sì, quella, signorina."
"E potrebbe gentilmente spiegarmene l'origine?"
"Qualche minuto fa ci stavo giusto provando. Ho chiesto consulenza ad un collega esperto nel campo, e secondo lui potrebbe avere origine genetica. Per caso, qualcuno nella sua famiglia ha avuto precedenti?"
"Non che io sappia. Però quando avevo dodici anni ho trovato mia madre a terra in mezzo al salotto, morta per cause sconosciute. In realtà neanche del tutto sconosciute, l'hanno chiamata sincope, e lei essendo neurologo suppongo sappia cosa significa sentirsi dire che la propria madre è morta per aver perso coscienza senza motivo."
A quel punto ricordo di aver accuratamente tolto le perizie psichiatriche post-traumatiche dalla mia cartella clinica prima di consegnarla all'uomo davanti a me perché la studiasse. Povero. Alle volte dimentico quasi che perdere una madre a dodici anni non è uso comune.
"Quindi, dottore, potrei averlo ereditato da mia madre?"


Amo i cimiteri.
Non sono una persona particolarmente macabra, no, non ho in mente alcun ménage a trois con un cadavere putrescente o con uno scheletro senza più curve addosso, non sono neanche di quei folli convinti che basti bruciare le ossa di un morto per far evanescere un fantasma. I fantasmi restano finché decidiamo noi di farli sopravvivere, non sono altro che ombre di ciò che è stato tenute insieme da fragili ricordi.
L'avevo presa molto sul personale, la morte di mia madre, come se lo avesse fatto apposta, come se fosse morta solo per farmi in qualche modo del male. Mi aveva abbandonata. Incredibile come il nostro inconscio cerchi sempre un capro espiatorio, uno sfogo in cui riversare tutto l'odio, l'odio nei confronti del destino, delle perdite, degli allontanamenti. I sussidi che lo Stato mi elargiva li ho dati per anni ed anni in beneficenza, e non accettavo i complimenti per la mia generosità. Non erano soldi miei, non volevo fare altro che liberarmene. Questo cimitero mi piace perché custodisce tutto quello che mi resta di mia madre: la sua tomba. Niente di poetico, niente di filosofico, semplicemente, l'ho odiata a tal punto da vendere tutte le cose che le appartenevano, dagli elastici per i capelli all'appartamento in cui vivevamo, e poi ho speso fino all'ultimo centesimo i soldi ricavati in divertimenti futili, volanti. 
Ci ho messo un po' a capire il mio errore.
Non volevo costruire il mio futuro sui guadagni ottenuti, anche solo per via indiretta, della persona che più odiavo al mondo. Però il futuro non si può costruire senza un presente che faccia da base, senza un passato che agisca da presa, da ancora sulla vita. Dovetti confrontarmi con l'idea che non sarei mai riuscita, nonostante tutti i miei sforzi, a liberarmi del mio essere orfana, perché è ciò che sono, e non potevo cancellare la morte di mia madre dalla storia dell'universo. Ho provato a riscrivermi una nuova vita, a cambiare paese, a cambiare persino nome, ho fatto di tutto pur di eliminare il ricordo di quel giorno, di mia madre circondata da un'aureola di sangue, stesa a terra sul pavimento chiaro, quasi bianco, ma ogni volta che vedevo la mia stessa immagine riflessa in uno specchio riconoscevo il suo sguardo, vedevo l'autrice dei miei giorni in ogni mio gesto, mi perseguitava. E se i fantasmi ci danno la caccia e non c'è modo di mandarli via? Si impara a convivere con loro. Si accetta che sono anche loro a comporre ciò che siamo, a scavare le strade che attraversano quella cosa complicatissima che chiamiamo cervello. E io l'ho accettato. E' tutto un "se lei fosse stata qui..". Ma il passato non si fa con i se, quel che è stato è stato, dovremmo imparare tutti un po' a pensare di più a quello che viene dopo, o a quello che accade al momento, non cambia molto, ognuno ha le sue preferenze. E io l'ho imparato. E poi ci sono stati i rimpianti e i rimorsi, le due cose più brutte che la specie umana debba sopportare, davvero, non c'è niente di peggio, ma il passato è il passato e ogni secondo si allontana sempre di più dal nostro presente. Ho perso mia madre e mi manca ogni cinque minuti da oltre dieci anni, e alle volte fa veramente male, me lo ricordo ogni volta che guardo mio zio e mia zia con la loro figlia dai boccoli biondi, bella come un personaggio di una fiaba, me lo ricordo ogni volta che vedo una donna con un bimbo al braccio, o che guida un passeggino.
Questo cimitero l'ho visitato tante, tantissime volte, soprattutto da quando sono stata sottoposta a tutta questa sfilza di esami per stabilire cosa diamine ci sia di sbagliato in me. Non mi metto a parlare con le tombe, mi limito a fissare quella di mia madre, come se potessi trasmettere al marmo tutta l'ansia per i risultati deludenti e la speranza riposta in quelli successivi, perché dopo dieci anni di silenzio mi andrebbe bene qualsiasi risposta, anche la più tragica, purché sia una risposta vera.
Oggi è un po' diverso. Varco i cancelli con un mezzo sorriso sulle labbra, mezzo perché tento di nasconderlo, non sono un'esperta ma entrare in un cimitero con tutti i denti in bella vista, in fila e luccicanti non penso sia granché simpatico nei confronti di tutte quelle vedove così devote ai loro morti che zoppicano per i cortili e i prati. Attraverso la consueta fila di lapidi di varie forme, qualità e dimensioni, mi trattengo dal correre verso quella di Mamma per pura formalità, rispetto consumato. Ho come l'impressione che le croci attorno a me si inchinino quando passo loro davanti, come stessero accogliendo un'eroe tornato dalla guerra.
Lei è sempre lì, custodita dal legno e dalla terra.
Non cerco più di fermarmi dal sorridere.
"Ciao, Mamma", 
comincio, 
"avevi l'epilessia. 
Non potevi saperlo, non avevi avuto casi precedenti e dieci anni fa non potevano diagnosticarla. 
Non avremmo mai potuto saperlo, e soprattutto non potevamo sapere che l'avevi passata pure a me."
Mi fermo un istante a riflettere.
"Nessun rancore, mica avevi fatto apposta."
Sento di dover aggiungere qualcosa, ma non so cosa.
Dovrebbe essere un momento importante, no?
"Ti ho voluto bene, Mamma."

 
***
 
Un grazie alla meravigliosa WestboundSign_ che mi aiuta a dare un senso a questi abbozzi sputacchiati.
E grazie a tutti voi, che siete riusciti ad arrivare a leggere i ringraziamenti a fondo testo.

La Cretina Melodrammatica (più cretina e più melodrammatica che mai).
  
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