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Autore: Beauty    23/02/2014    5 recensioni
Cosa succederebbe se le principesse delle favole vivessero nel mondo reale?
A Garden Hill, vivono vite differenti Blanche (Biancaneve), Evelyn (Cenerentola), Jasmine, Ariel, Annabelle (Belle), Caroline (la Bella Addormentata), Esmeralda, Marion (Lady Marian), Roxanne (Cappuccetto Rosso), Penn (Rapunzel) e le sorelle Elsa e Anna. Vite comuni, fra lavoro, università e amici, con i vari problemi, i vari sogni e le varie speranze. Una festa di Halloween in cui niente andrà per il verso giusto farà incrociare queste dodici vite, riportandole sulle tracce di un omicidio dietro al quale si celano storie dimenticate e loschi personaggi, dove nulla è come sembra e che, apparentemente, sembrano collegate all'azione del serial killer che terrorizza Garden Hill, da tutti conosciuto come "il Lupo". E, a mano a mano che le cose si faranno più complicate e pericolose, il lieto fine sembrerà essere sempre più lontano...o forse no?
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 3
 
C’era una volta
(terza parte)
 
Once upon an ancient time
Beauty was born in a someone.
She was the Snow-White of mine
And if you’re no copy, my darling, become one.
Snow-White skin, ebony hair
And lips as red as blood.
 
[Xandria, Snow-White]
 
Officina meccanica Bob’s, Tulip Street n. 18
 
Logan Nichols gettò lo straccio sporco su una seggiola accanto alla Honda a cui stava lavorando, riemergendo dal cofano aperto dell’auto che metteva bene in mostra il motore. Era inutile perderci troppo tempo: la cinghia era partita, il che equivaleva a dire che la macchina era buona solo per la discarica. Logan sbuffò, pulendosi malamente il volto sporco di grasso con una manica della tuta grigia dell’officina. Era mezzogiorno, lui era in piedi dalle cinque, non aveva fatto colazione e stava morendo di fame. La sua mente stava vagando al suo borsone gettato in un angolo di quel vecchio garage adibito a officina meccanica abusiva, e al sandwich al tonno e maionese che sua sorella Annabelle gli aveva preparato quella mattina. Abbassò un poco la cerniera della tuta, allontanandosi dalla Honda.
- Ehi, Bob, io mi prendo una pausa!- annunciò urlando rivolto al suo capo, in quel momento chino a esaminare il motore di una Volvo grigia. Bob rispose con un grugnito, tornando al suo lavoro.
Logan recuperò il pranzo dal borsone e uscì dall’officina.
Questa non era altro che un garage, un vecchio portico che poteva contenere fino a un massimo di tre automobili per volta, se si voleva tenere dentro anche il materiale necessario per ripararle e qualche gomma di scorta, oltre alle cassette per gli attrezzi che lui e il suo capo – gli unici due dipendenti dell’officina – dovevano portarsi da casa ogni giorno. Altre automobili – un furgone bianco con il paraurti pressoché sbriciolato, una Kia e una Plymouth del ’57 – erano parcheggiate all’esterno, invadendo quasi mezza corsia della strada peraltro poco trafficata. Niente di tutto ciò era anche solo minimamente regolamentare; Logan lo sapeva, l’aveva sempre saputo sino al momento in cui aveva iniziato a lavorare lì otto anni prima, e tutto ciò che gli era concesso era solo sperare che a nessuno venisse mai in mente di fare una telefonatina alla polizia, altrimenti sia lui che il vecchio Bob avrebbero passato un per nulla gradevole soggiorno al fresco.
Non era una bella vita, quella, sempre a farsi saltare il cuore alla gola ogni volta che udivi una sirena della polizia in lontananza, ma in fondo Logan non aveva granché di cui lamentarsi. La paga non era quella di uno sceicco, ma comunque abbastanza buona; aveva un lavoro, cosa che molti dei suoi amici o comunque degli altri ragazzi della sua età che vivevano in Tulip Street non avevano; lui era, come diceva sempre sua sorella Kate, un pezzente rotto in culo esattamente come tutti quelli della loro famiglia e aveva ragione, ed era stato già abbastanza fortunato ad aver trovato un mestiere onesto e per di più che gli piacesse: non poteva pretendere anche che tutti i cavilli legali fossero al loro posto.
Lui portava a casa la pagnotta ogni giorno con quel lavoro, e questo gli bastava. E poi, lui ci aveva sempre saputo fare, con i motori. Si poteva quasi dire che fosse più bravo con quelli che con le persone.
Logan addentò il suo sandwich, ringraziando di avere una sorella minore tanto brava nel cucinare: se non ci fosse stata Annabelle, pensava spesso, tutti loro sarebbero morti di fame. Si chiese distrattamente dove fosse lei in quel momento, dato che non riusciva mai a ricordare gli orari esatti delle lezioni all’università. Quel pensiero lo fece sorridere: Annabelle era sempre stata il genietto di casa, come la chiamava sempre papà, e di conseguenza l’unica di loro ad aver avuto le palle per affrontare l’università dopo il diploma. Quello, sua sorella Theresa nemmeno l’aveva preso – aveva mollato a sedici anni per stare con quel coglione che alla fine aveva sposato –, mentre Kate se l’era bruciato ben presto, finendo a lavorare in quello schifoso locale dove ballava mezza nuda per un branco di idioti che avrebbero concluso la serata masturbandosi in qualche latrina pubblica; suo fratello Simon, beh, frequentava ancora le medie e con parecchia fatica dato il suo handicap, e Logan sapeva già da adesso che molto probabilmente nemmeno lui sarebbe arrivato a laurearsi.
Quanto a lui…Logan ammetteva di non averci neppure mai pensato, e forse era meglio così: era sempre stato un emerito caprone a scuola, avrebbe soltanto gettato via del denaro che alla sua famiglia serviva per mangiare. E poi, la sua passione erano sempre state le auto: sin da ragazzino, gli bastava gettare una sola occhiata al motore di una macchina per capire cosa c’era esattamente che non andava, e non aveva mai sbagliato un colpo. Aveva frequentato i corsi commerciali al liceo e, non appena si era diplomato, aveva subito iniziato a cercare lavoro. Era stato prima un fattorino, poi un magazziniere e infine cameriere in una tavola calda. Non aveva grandi speranze di poter trovare qualcosa che gli permettesse di conciliare la sua passione con una busta paga – e, date le condizioni in cui versava la sua famiglia in quel momento, si sarebbe accontentato di qualunque lavoro, fosse stato anche pulire le fogne con uno spazzolino da denti –, ma poi era capitato da Bob’s ed era stato abbastanza fortunato da farsi assumere. L’officina era abusiva, non c’era alcun rispetto per le più elementari norme di sicurezza, il suo capo puzzava di benzina, sudore e cavoli bolliti, ma…lo pagavano, gli piaceva il suo lavoro e lui era contento. Ed era abbastanza.
(Per te, forse sì…ma che mi dici di Ryan?)
Quel pensiero inaspettato fu in grado di smorzare un poco il suo entusiasmo, ma Logan non ebbe il tempo di farsi prendere dalle mille preoccupazioni che il nome Ryan e ciò che esso rappresentava inevitabilmente portavano con sé, perché il rombo di un motore – una moto, nessun dubbio – si fece sentire dal fondo della via, prima che il mezzo in questione comparisse in lontananza. Logan ingoiò l’ultimo pezzo di sandwich, sporgendosi un poco dal marciapiede su cui era seduto per vedere meglio.
La moto si diresse a tutta velocità verso l’officina e, a mano a mano che si avvicinava, il ragazzo iniziò a comprendere di chi si trattasse. Si alzò dal marciapiede e, un attimo dopo, la moto si arrestò di fronte a lui. Logan gettò un’occhiata all’interno per assicurarsi che Bob non stesse guardando.
- Ehi, Logan!- lo salutò amichevolmente il guidatore, con il volto ancora nascosto dal casco. Quando se lo tolse, Logan poté vedere il gran sorriso che gli stava rivolgendo il suo amico Robin. Ricambiò, un po’ incerto.
- Come te la passi?- domandò, chiedendosi come mai fosse venuto da lui. In genere, loro due s’incontravano quando entrambi avevano terminato la giornata lavorativa, spesso la sera in compagnia di altre persone. Era rarissimo che venisse a fargli visita sul lavoro. E in questi casi, Robin aveva sempre un motivo.
Robin McAllister. Logan avrebbe anche potuto scriverne la biografia, talmente tanto era il tempo che lo conosceva: figlio di irlandesi trasferitisi da Dublino a Garden Hill, suo padre era un ex muratore rimasto infortunato sul lavoro e sua madre una casalinga. Trent’anni – tre più di lui –, un diploma rivelatosi buono solo come carta straccia, un lavoro da magazziniere alla Garden Hill’s University che non bastava nemmeno per arrivare a fine mese, e uno stipendio che se ne andava tutto per pagare le spese mediche di suo padre.
Uno che per tutta la vita aveva campato annaspando nella merda in cui era nato, proprio come lui.
Non serviva essere dei geni per capire come mai loro due fossero divenuti amici.
Robin fece spallucce, ponendosi il casco sottobraccio e restando in equilibrio sulla moto ferma. Questa, osservò Logan, era un rottame vecchio di almeno quindici anni, ma che comunque faceva ancora la sua figura grazie al modo in cui la teneva il suo proprietario, sempre pulita e revisionandola periodicamente. Unica pecca: sulla fiancata destra c’erano almeno una decina di righe che la volta precedente non c’erano.
- Che hai fatto?- domandò Logan, accennando all’ammaccatura. Era quasi come se Robin avesse…sbandato, e strisciato contro qualcosa, un muro o un ostacolo. Il ragazzo comprese al volo, e si corrucciò. Robin, per tutta risposta, sfoderò una borsetta femminile nera firmata Gucci, iniziando a rovistarci dentro.
Logan lo guardò, indietreggiando di un passo.
- L’hai fatto di nuovo?- incalzò, incrociando le braccia al petto.
- Non ho mai smesso, a dire il vero. Ehi, guarda cosa abbiamo qui…!- esultò, estraendo dalla borsetta un cellulare touch screen ultimo modello e un portafoglio in pelle targato Armani.- Non male come bottino, eh?- ammiccò, ignorando lo sguardo di rimprovero di Logan.- Tua sorella le sa scegliere bene le amicizie…
- Hai scippato la borsetta a mia sorella?!- Logan strabuzzò gli occhi.
- Non a lei, alla sua amica. La famiglia dei miei amici è zona proibita, lo sai…
- Robin, quanto ancora pensi di poter andare avanti in questo modo?- il ragazzo gettò un’occhiata alla borsetta.- Ti beccheranno prima o poi, lo sai…
- Quando e se accadrà me ne preoccuperò. Per ora, il mio problema resta arrivare a fine mese e pagare le spese mediche di mio padre…
Logan non replicò; sapeva che sarebbe stato inutile, e comunque non se la sentiva di ribattere. Che avrebbe potuto dirgli? Non si ruba, Robin, piuttosto abbandona tuo padre al suo destino e vivi una vita onesta. No, neanche per sogno. Non sarebbe stato da lui, e si sarebbe trattato solo di falso moralismo, oltre che di idiozia pura. Sebbene Logan disapprovasse ciò che faceva il suo amico, lui stesso non era nelle condizioni di poter fare il santarellino. Nessuno che abitasse in Tulip Street lo era.
Da sempre, quel quartiere era la zona più povera e malfamata di Garden Hill. Gli affitti erano ben più bassi rispetto ad altre zone della città – e quantomeno chi abitava lì sopportava di meno la bestia nera-Storm –, ma in compenso ci sarebbe stato da andare in giro con il giubbotto antiproiettile. Gli edifici erano cadenti e malandati, e nella maggior parte di essi vivevano delinquenti come Ryan o poveracci come lui e la sua famiglia. O ladruncoli come Robin e quella che lui definiva la sua banda: cinque sbandati che vivevano tutti insieme in un appartamento solo, stipati dentro come bestie, e che campavano barcamenandosi fra lavoretti saltuari e mal pagati e piccoli scippi e furtarelli per arrotondare lo stipendio. Logan sapeva che avrebbe dovuto tenersi alla larga da gente come lui e quei ragazzi, ma in fondo non se la sentiva di giudicarli male. Era amico di Robin da tanti anni, e Johnny era stato suo compagno di banco alle elementari, e peraltro Alì era un ragazzo simpatico. Erano brave persone, in fondo, e che, nonostante tutto, erano molto meglio di gente come il marito di Theresa.
Tulip Street era il regno popolato da persone come lui. Di giorno, dovevi guardarti le spalle prima che qualcuno arrivasse di soppiatto e ti rubasse anche i vestiti che avevi addosso, o di piantasse un coltello nella schiena per fregarti il portafogli. Di notte, era meglio se ti chiudevi in casa con la doppia serratura e un buon sistema d’allarme, se avevi la fortuna di potertelo permettere: Logan aveva provato sulla sua pelle i brividi di paura di quando terminava il lavoro in officina più tardi del solito e si ritrovava a percorre e a piedi il tragitto che lo separava dalla porta di casa sua. I portici e i garage abbandonati di Tulip Street erano completamente bui, c’era un lampione che funzionava ogni dieci, e ogni angolo che svoltavi dava accesso a qualche vicolo laterale semibuio dove chiunque avrebbe potuto nascondersi pronto a farti la festa non appena gli fossi capitato sotto tiro. Dovunque ti girassi incontravi prostitute ubriache che fumavano spinelli o sigarette in attesa di qualche cliente, alcolizzati che uscivano barcollando da qualche bar o coinvolti in qualche rissa, disgraziati che si nascondevano in qualche angolo per bucarsi, clochard raggomitolati in cappotti sudici che dormivano in mezzo ai bidoni della spazzatura, pusher che intascavano mazzette di dollari per un pacchetto di eroina.
Spesso e volentieri, sul giornale leggevi di qualche sparatoria o di qualcuno che era stato accoltellato proprio in Tulip Street. E ancora più spesso si trattava di gente che non c’entrava nulla. In effetti, bastava veramente poco per ritrovarti in mezzo a qualche casino senza c’entrarvi nulla.
Una sera, quando aveva vent’anni, Logan era tornato a casa con un occhio nero e il labbro sanguinante; mentre Annabelle gli disinfettava il taglio lui, con un pacchetto di surgelati premuto sullo zigomo, aveva raccontato a tutti cos’era successo: tornando dal lavoro era incappato in una rissa fra ubriachi. Aveva cercato di fermarli, ma l’unico risultato era stato quello di venire coinvolto a sua volta.
Invece di consolarlo o di congratularsi con lui per ciò che aveva tentato di fare, suo padre era andato su tutte le furie e l’aveva afferrato per il bavero della maglietta urlandogli che era un emerito imbecille, che solo un pazzo o un idiota si sarebbe messo in mezzo in una situazione simile e in un quartiere come il loro. Vedesse di non fare più una cosa del genere, gli aveva detto; aveva già perso una moglie, non voleva perdere anche suo figlio.
Logan tornò a guardare Robin. Il suo amico aveva scovato ben cinquecento dollari dal portafogli; ne intascò metà, porgendogli gli altri duecentocinquanta. Il ragazzo scattò all’indietro, scuotendo il capo.
- Non li voglio - disse fermamente.- Io la roba rubata non la tocco.
- Perché, credi che il tuo capo i pezzi di ricambio li compri su Ebay?- fece Robin, porgendogli i soldi con insistenza.- Fammi sentire un po’ meno una merda: dai, prendili, lo so che ti servono.
- No!- Logan scosse il capo con forza.- Io i soldi me li guadagno, non li rubo alle poverette come fai tu.
- Una che ha potuto permettersi una borsa come questa sicuramente avrà anche la possibilità di ricomprarsela. E’ per questo che rubo sempre nei quartieri alti. Mi sento meno in colpa…dai, prendili.
- Robin, no…Non voglio la carità.
- Non ti sto facendo la carità, ti voglio dare una mano - Robin scese dalla moto, assicurandola in equilibrio sul cavalletto, e andò incontro a Logan.- Per favore…siamo amici da quanto tempo, eh? Credi che mi piaccia rubare? Non piace né a me né ai ragazzi, ma finché questo schifo di città ci tratta come delle pezze da scarpe dobbiamo arrangiarci in qualche modo. Avanti, Logan…
- Robin…
- Cosa vi ha fatto ultimamente Ryan?
A quella domanda, Logan indietreggiò come se l’avessero schiaffeggiato. Vide il suo amico sogghignare; come sempre, lui e la sua verve erano in grado di colpire proprio i punti più sensibili.
- Me lo ricordo quello che mi hai raccontato, sai?- continuò Robin.- Perché invece di sottostare alle sue prepotenze non lo sbattete semplicemente fuori di casa?
- Lo sai il perché…
- Anche tua sorella ne trarrebbe vantaggio, credimi.
- Non è solo per Theresa. Lo sai meglio di me quello che fa.
- Io non so niente. Sarò un ladro, va bene; ma differenza sua, io non vendo la morte - Robin si fece improvvisamente serio.- Per quanto ancora intendete sottostare ai suoi ricatti? E non dirmi che fa parte della famiglia perché sarebbe la più grande cazzata che un essere umano potrebbe raccontare!
- Gli dobbiamo dei soldi, Robin. Parecchi - aggiunse Logan, con una smorfia di rabbia mista ad amarezza.- E non ci lascerà in pace finché non glieli avremo ridati, tutti, interessi inclusi. E poi, va’ a sapere in cosa è invischiato quello stronzo: non mi voglio mettere contro un pusher.
- Come vuoi. Ma in ogni caso, come hai appena detto, gli dovete dei soldi - Robin gli porse nuovamente la mazzetta, il sorriso un poco ritrovato.- Prendili. Ma…fammi un favore: nascondili. Non darli in mano a quel bastardo. Usali…non lo so, come preferisci. Aiuta tuo padre, pagagli le medicine, o impiegali per tuo fratello. O meglio ancora…- Robin ghignò.- Fai un bel regalo a quello schianto di tua sorella. L’ho vista stamattina: da quando era una ragazzina devo dire che è cresciuta bene!
- Ehi, idiota, giù le zampe da Annabelle!- Logan rise, dandogli una spintarella scherzosa. Si fece di nuovo serio, e guardò prima la mazzetta poi l’amico.- Grazie, Robin…- mormorò, prendendo i soldi con incertezza.- Te li restituirò, te lo giuro.
- Non li rivoglio indietro. E’ un regalo - Robin sorrise.- Piuttosto…- si schiarì la voce.- Ho una proposta da farti…
Logan inarcò un sopracciglio, in attesa che continuasse. L’amico sembrò in difficoltà; prese a guardare il marciapiede, mettendosi le mani in tasca.
- Scusami. Forse avrei dovuto chiedertelo prima, ma ti giuro che l’averti dato quei soldi non c’entra nulla con ciò che sto per proporti. Voglio che tu mi risponda sinceramente, senza sentirti in obbligo.
- E’ qualcosa di illegale?
Robin annuì.
- Come sempre, quando si tratta di me - tornò a guardarlo, abbozzando un sorriso.- Sabato prossimo ci sarà una festa di Halloween. Al Grand Hotel di Garden Hill, hai presente? L’organizzano…certi Woods, gente benestante. A quanto pare sarà presente tutta l’alta società della città…
- E…?
- Ho trovato chi ci farà entrare - proseguì Robin.- E’ un dipendente dell’albergo. Siamo già d’accordo: lui ci farà entrare dal retro mentre sta lavorando. Non se ne accorgerà nessuno. Non parteciperemo alla festa, naturalmente.
- Tu e gli altri andrete lì per rubare, vero?
- Sì. Non c’è un obiettivo preciso: si tratta semplicemente di entrare e arraffare tutto ciò che è possibile senza che nessuno se ne accorga, e poi filarsela.
- E cosa c’entro io?
- Un uomo in più mi farebbe comodo - Robin allargò le braccia, guardandolo negli occhi.- A fine serata divideremo il bottino, e tu potresti portare a casa abbastanza da tenere buono Ryan per un po’ di tempo. Per aiutare la tua famiglia…tuo padre è stato appena licenziato, vero?
Logan non rispose, né confermò. Chinò il capo, a disagio: sì, era vero, suo padre era stato licenziato. Quei pidocchi della fabbrica in cui lavorava avevano preferito lasciarlo a casa, invece che sopportare le periodiche visite a cui Maurice si sottoponeva per via dei suoi problemi al cuore. I soldi che lui portava a casa dall’officina bastavano a malapena per mangiare e per pagare le bollette; Annabelle faceva qualche lavoretto qua e là per arrotondare, e il denaro che guadagnava se ne andava tutto nelle spese mediche di papà e di suo fratello; Kate si era sempre rifiutata di portare in casa i soldi del suo stipendio, preferendo spenderlo in abiti succinti e cosmetici; Theresa non aveva mai lavorato in vita sua, e non faceva altro che fingere malesseri e piangere giorno e notte a causa di quello stronzo di suo marito; e Simon, povero bambino!, aveva un disperato bisogno di cure da logopedisti e psicologi che loro non erano mai stati in grado di permettersi.
Ma non poteva rischiare. Logan sapeva che, se qualcosa fosse andato storto, non li avrebbero rilasciati con una ramanzina come dei dodicenni. Il prossimo passo sarebbe stata la gattabuia, e lui non aveva nessuna intenzione di finire in carcere per un guadagno dubbio.
Tornò a guardare Robin e scosse il capo.
- Mi dispiace, amico, ma preferisco tenermi pulito, per quanto ci riesco…- mormorò.- Scusa. Non ti offendere…- sembrava quasi ridicola una simile conversazione a proposito di una rapina, quasi come se il suo amico lo avesse invitato a mangiare una pizza insieme, anziché derubare della gente.
- E chi si offende?- Robin gli rivolse un sorriso, dandogli una pacca su una spalla.- Comunque, se cambi idea, sai dove trovarmi.
Gli rivolse un cenno di saluto con una mano, quindi rimontò sulla moto, infilandosi il casco.
- Ci si vede, Logan!
Il ragazzo lo salutò, rimanendo a guardare finché l’amico non fu sparito in fondo alla via, con il motore della moto che ancora gli rombava nelle orecchie.
 
Garden Hill’s High School
 
La sala mensa era forse il luogo più brutto di tutto il liceo.
Jasmine si allontanò dal bancone dove le cuoche servivano il pranzo, reggendo in mano il vassoio stracolmo e facendo vagare lo sguardo per l’intera stanza alla ricerca di un posto libero. Quel giorno la mensa proponeva spaghetti al pomodoro con puree di patate e salsiccia come secondo, e yogurt per dolce. Jasmine aveva fatto il pieno di tutto, prendendo anche due salsicce: suo padre non voleva che lei mangiasse carne di maiale, dal momento che era contro le regole dettate dal Corano, e infatti a casa Sharifah cucinava sempre e solo carne di pecora o di montone. Ma lì il Sultano non poteva vederla, e quindi Jasmine poteva mangiare tutto ciò che voleva.
Si allontanò dalla fila di altri studenti che attendevano che fosse servito loro il pranzo, facendosi strada fra la calca. Si lasciò sfuggire una smorfia: stare nei luoghi troppo affollati non le era mai piaciuto, e la mensa era uno di questi. L’ora di pranzo equivaleva a un salto indietro nel tempo e nello spazio, nella giungla all’epoca giurassica in cui vigeva la legge del più forte. L’ambiente puzzava di cibo precotto, e l’aria era piena di vociare che rendeva l’atmosfera invivibile.
Jasmine iniziò a vagare per i tavoli, e si bloccò quando vide la scena di fronte a sé. Seduta da sola a un tavolino isolato rispetto a quello degli altri c’era Ariel Waters. La ragazza teneva lo sguardo puntato sul proprio piatto, rigirando gli spaghetti con la forchetta senza ingoiare alcun boccone. Non sembrava triste, solo…pensosa. Come se avesse in mente chissà quale problema di difficile risoluzione.
I capelli rossi erano sciolti sulle spalle, e la posizione china faceva in modo che i ciuffi le ricadessero sul volto così da coprirle gli occhi azzurri come il mare. Era vestita alla solita maniera, con dei jeans, scarpe da ginnastica e una felpa sportiva. Jasmine non ricordava di averla mai vista indossare altro se non abiti sportivi e comodi.
La ragazza si fece coraggio, avvicinandosi a lei.
- Ehm…ciao!- mormorò quando le fu a pochi passi di distanza, abbozzando un sorriso.
Ariel sollevò lo sguardo di scatto, evidentemente non si aspettava una visita o che qualcuno le si avvicinasse. La guardò come stralunata.
- Ciao…- soffiò, chiaramente perplessa.
- Posso sedermi?- chiese Jasmine, continuando a mantenere il sorriso. Ariel esitò un secondo, quindi annuì, facendole cenno di accomodarsi. La ragazza si sedette malamente sulla seggiola di fronte a lei, posando il vassoio sul tavolo con soddisfazione.
- Oggi c’è andata bene, non trovi?- commentò, riferendosi al pranzo.- Temevo che ci rifilassero gli avanzi della minestra della settimana scorsa…
Ariel abbozzò un sorriso di cortesia, ma non rispose; Jasmine fece finta di nulla, attendendo qualche secondo una replica o un commento che non arrivò. Sospirò, aprendo il suo yogurt e prendendone un cucchiaino. Ariel, di fronte a lei, sembrava ancora intenta a scrutare il suo piatto di spaghetti.
- Che palle matematica, eh?- ritentò Jasmine.- Tu ci hai capito qualcosa di tutta quella roba?
- Ehm…poco, a dire il vero - di nuovo, Ariel abbozzò un sorriso di cortesia, per poi tornare a fissare il proprio piatto. Jasmine sbuffò: evidentemente, o quella era un’asociale nata oppure non aveva voglia di fare conversazione. Decise di arrivare subito al punto: tirò fuori dalla tasca della felpa l’invito color crema che aveva raccattato dal cestino dell’immondizia e lo piazzò in bella vista sul vassoio di Ariel.
La rossa parve riscuotersi dal suo torpore, e sbatté le palpebre per la sorpresa.
- Ti ho visto che lo buttavi via, e così l’ho raccolto - spiegò Jasmine.- Ho pensato che di sicuro dovevi esserti sbagliata…
- Ehm…- Ariel prese brevemente l’invito fra le mani, quindi lo posò di nuovo sul tavolo della mensa.- No, io…in effetti, l’ho buttato di proposito…
- E perché?- fece la mora, strabuzzando gli occhi. Il Sultano di norma le proibiva di andare a qualunque festa, e l’ultima volta che qualcuno le aveva proposto di parteciparvi era stato in seconda elementare. Avrebbe firmato col sangue per essere stata lei quella a ricevere l’invito, invece di sbarazzarsene come aveva fatto Ariel.- E’ l’invito a una festa di Halloween, no?
- Ecco…sì, credo. Non ho letto molto bene…
- E non hai intenzione di andarci?- insistette Jasmine, sporgendosi in avanti. Per contro, Ariel si strinse le braccia al petto, appoggiando il dorso contro lo schienale della sedia di plastica. Abbassò lo sguardo: tutta quell’invadenza non le piaceva. Lei e Jasmine Bharrahaji erano compagne di classe da quattro anni, e non si erano mai scambiate più di due o tre parole. Che cos’era ora tutto quel comportarsi da migliore amica?
- No - replicò, piatta.
- Perché no?- fece la mora. Ad Ariel sembrava quasi una bambina in vena di capricci. Fece spallucce con noncuranza, buttando lì la prima bugia che le venne in mente:
- Non mi piacciono le feste.
- Tu sei matta! A chi è che non piacciono le feste?- Jasmine era incredula.
- A me. E poi, ho altro da fare…
- Tipo?
- Piscina. Ho gli allenamenti.
- Anche la sera di Halloween alle ventuno e trenta?- Jasmine le sventolò l’invito sotto il naso. Ariel voltò il capo di lato: stava iniziando a innervosirsi.
- Non mi va di andarci, ecco tutto - borbottò alla fine.- Prendilo pure. Buttalo nella spazzatura, se vuoi…
- O-okay…- mormorò Jasmine, perplessa. Ariel la fissò negli occhi per un breve attimo, quindi afferrò il proprio vassoio, si alzò in piedi e versò tutto il suo contenuto nella spazzatura; infine, senza una parola, uscì a grandi passi dalla mensa lasciando Jasmine con solo l’invito color crema in mano e una valanga di stupore.
Che diamine aveva fatto di male?
 
Casa Woods, Bluebell Road n. 3
 
- Posso esprimere un’opinione?
- Sì, certo, papà.
- Quello che stai facendo è una kitsch in piena regola!
Caroline Woods gettò il capo all’indietro, abbandonandosi a una sonora risata mentre si lasciava cadere sul sofà di velluto accanto al suo fidanzato, Philip Kingsley. Il rettore Woods inarcò un sopracciglio con fare severo, ma in fondo non ce l’aveva con sua figlia per quella reazione: quello che aveva detto corrispondeva a ciò che pensava, era vero, ma, sebbene disapprovasse il modo alquanto colorito e poco consono in cui sua figlia stava gestendo l’intera faccenda, ma le aveva pur sempre promesso che l’avrebbe lasciata fare, quindi non aveva di che lamentarsi, né tantomeno intromettersi.
- Papà, come sei antico!- commentò allegramente Caroline, scrutando con attenzione gli ultimi inviti restanti, quelli che le mancavano da spedire.- Quello che io e Philip stiamo facendo è all’avanguardia. Invece del solito party pieno di vecchi noiosi, sfrutteremo la serata di Halloween per divertirci e al contempo fare l’annuncio.
- Io resto comunque dell’opinione che una simile notizia sarebbe dovuta essere comunicata in maniera più sobria - fece il rettore Woods.- Capisco che siate ancora giovani e che i soliti party pieni di vecchi noiosi, come li chiami tu, vi annoino, ma si tratta comunque di un avvenimento importante.
- Papà, è un matrimonio, non un funerale!
- Appunto.
- Stephen, non fare il brontolone come al solito - l’ammonì la signora Woods, seduta tranquillamente su una poltroncina, anche lei intenta ad esaminare gli inviti color crema.- Hai dato loro carta bianca in proposito, ricordi? Lasciali fare. E poi, personalmente, credo che l’idea sia molto originale.
Caroline rivolse a suo padre un sorriso trionfante, consapevole dell’approvazione della madre. Stephen Woods, per tutta risposta, accese un sigaro. A quella vista, sua moglie chiamò una delle cameriere della casa dicendole di aprire la finestra.
Caroline riprese a scrutare la lista degli invitati, accoccolandosi ancora di più accanto al suo fidanzato. Philip era arrivato solo da mezz’ora, e si sarebbe intrattenuto a pranzo fino a quella sera, ma l’intera famiglia Woods era già in piedi e al lavoro dalle otto del mattino.
Erano tutti e quattro seduti in salotto, lei, Philip e i suoi genitori. L’intera casa – una villa a due piani con giardino e piscina – splendeva dalle fondamenta alla soffitta, e l’ambiente era reso ancora più luminoso dalla massiccia presenza del colore bianco e dei cristalli.
Sua madre adorava il bianco e i cristalli, pensò Caroline. Helen Woods aveva arredato personalmente la casa integrando elegantemente lo stile neoclassico con tutte le comodità dell’epoca moderna, senza scivolare nel volgare o nel pretenzioso. Era ciò che le ripeteva sin da piccola: la propria superiorità economica e sociale si dimostrava non attraverso il vanto e l’ostentazione, bensì con la sobria e discreta manifestazione del proprio buon gusto.
Lo stesso salotto in cui si trovavano aveva il pavimento rivestito di moquette chiara appena in contrasto con il sofà e le poltroncine foderate di velluto bianco come la mobilia tutt’intorno. Il tavolino era di vetro, così come la tavola della sala da pranzo in cui Caroline e la sua famiglia consumavano i pasti. La stessa camera da letto della ragazza era un tripudio di coperte, lenzuola e cuscini bianchi, e perfino le tende del baldacchino erano di quel colore. In qualunque ora del giorno e della notte, l’ordine assoluto regnava sovrano, e le tre cameriere e il maggiordomo si occupavano di rimuovere ogni granello di polvere che incontrassero, oltre a naturalmente svolgere le mansioni di tutti i giorni e servire i pasti. Un autista si premurava di accompagnare la signora e la signorina dove desiderassero – Stephen Woods aveva la patente, ma né Caroline né sua madre avevano mai avuto bisogno di imparare a guidare un'auto – e un ragazzo, Christopher White, veniva a casa loro una volta a settimana per occuparsi del giardino. Caroline non ricordava che in casa sua ci fosse mai stato trambusto o disordine: l’unico luogo in cui si poteva trovare qualcosa fuori posto, a cominciare dal colore della mobilia diverso dal bianco, era la cucina, dove una cuoca stava sempre chiusa a preparare i pasti perché come diceva sempre Goffman, ciò che non rientra nel teatro della vita quotidiana va escluso fisicamente da esso, anche se non si può eliminare.
Ed era proprio così. La signora Woods aveva organizzato la sua casa come il palcoscenico di un teatro, e orchestrava la vita di tutti i giorni come una rappresentazione in cui attori e costumisti si muovevano in un turbinio armonioso. Caroline sperava con tutto il cuore che, una volta sposata, sarebbe stata brava come sua madre nel fare altrettanto.
- In ogni caso, vi chiedo umilmente di spiegarmi che cosa c’entrano quegli inviti con la festa che state organizzando!- fece il rettore dopo poco.- Quel colore non ha nulla a che fare con Halloween.
- E’ color crema come le partecipazioni a un matrimonio - rispose Caroline.- Rimanda a quello. Così le persone intuiranno qualcosa, e rimarranno piacevolmente sorprese nel sapere che quella festa era stata organizzata appositamente per annunciare ufficialmente il nostro fidanzamento…- nel dire questo, la ragazza gettò un’occhiata compiaciuta all’anello di brillanti che portava all’anulare sinistro. Non era stata una vera e propria proposta di matrimonio, quella che Philip le aveva fatto: semplicemente, una sera, i Kingsley avevano ricevuto i Woods a casa loro e insieme avevano deciso che, beh, insomma, ormai Caroline aveva quasi venticinque anni e Philip ventisei, e dopo due anni di fidanzamento era il caso che si sposassero e formassero una famiglia loro. A quel punto, il suo fidanzato aveva tirato fuori l’anello e glielo aveva messo al dito, semplicemente, senza neanche una parola.
Sulle prime c’era rimasta un po’ male: sin da piccola aveva sempre sognato che il suo futuro marito s’inginocchiasse di fronte a lei e le facesse un discorso molto romantico, prima di chiedere la sua mano. Era stata un po’ deludente come proposta di matrimonio, tuttavia Caroline era ben intenzionata a passarci sopra: era una piccolezza, in fondo, e ciò che importava era che presto avrebbe sfilato lungo una navata avvolta in un bellissimo abito bianco.
E che, quel sabato, lei e Philip avrebbero annunciato ufficialmente il loro fidanzamento.
- Ma che c’entra con Halloween?- insistette Stephen.- Una festa del genere, poi…Con quello che si sente alla televisione…siete sicuri che non scoppierà qualche guaio? In queste occasioni la gente tende sempre a fare baldoria…
- Stia tranquillo, signor Woods - intervenne Philip.- Io e Caroline abbiamo selezionato molto attentamente gli invitati. Non sarà una vera e propria festa…più che altro, un ballo in maschera, se si può chiamare così.
- Per l’appunto. E, domando perdono se vi interrompo, abbiamo ancora delle persone da invitare. Quindi, avanti, rimettiamoci al lavoro…!- li incitò Helen, chinandosi a prendere delle buste posate sul tavolino.
- Ah, ecco! A questo proposito, mamma…- Caroline scorse velocemente la lista degli invitati.- E’ proprio necessario invitare…certe persone?
- A chi ti riferisci, cara?
- Beh, ad esempio, le due sorelle Snow.
- Chi?- Stephen si voltò a guardarla, inarcando un sopracciglio.
- Le proprietarie dell’Arendelle - precisò Helen.- E sì, Caroline, è necessario. Dopotutto, abbiamo acquistato le decorazioni per il ballo al loro negozio, e poi Elsa e sua sorella Anna mi sono sembrate due ragazze ammodo…
- Come vuoi - Caroline inarcò un sopracciglio, per nulla convinta.- E che mi dici invece della signora Marsh e delle sue figlie?
- La signora Marsh è la proprietaria del Grand Hotel, è una forma di educazione.
- A me però Tysha e Tamara Marsh non sono sembrate molto ammodo come dici tu…
- Abbi pazienza, cara.
- E, mamma, era proprio necessario invitare anche Grimilde von Schneider e i suoi figli, con quello che è appena successo? Trasformeranno la festa in un funerale vivente!
- Beh, quantomeno saranno in tema con la serata - commentò Helen Woods, tranquillamente.- E, a questo proposito, Caroline, ho dimenticato di informarti che ho organizzato un appuntamento fra te, Philip, e i due giovani von Schneider. Per domani sera.
- Che cosa?!- Caroline strabuzzò gli occhi, drizzandosi a sedere.- Ma…ma…mamma! Neppure li conosco! E poi, loro due saranno in lutto, e io devo pensare a organizzare la festa…
- Prendila come l’occasione adatta per conoscervi. Loro potranno distrarsi e tu anche…
- Ma…
- E’ una questione di rapporti sociali - spiegò Stephen, pacato.- Caroline, la signora von Schneider è una persona molto influente nell’alta società. E’ il caso di mostrarsi cordiali e poi, questo costituirebbe un passo avanti per te e Philip. Quando sarete sposati ed entrerete a far parte della cerchia influente di Garden Hill, avrete già due alleati su cui contare. Philip, mi avevi accennato di voler far carriera in politica, tempo fa, o sbaglio?
- No, signor Woods, non sbaglia.
- Bene. La famiglia von Schneider è la più indicata per…
- Ho sentito dire che Blanche von Schneider è una strega capricciosa - commentò Caroline, svogliatamente. Continuò a far scorrere lo sguardo sulla lista degli invitati, e sgranò gli occhi quando arrivò in fondo.
- Oh, no!- esclamò.- Mamma, ti prego, questo no!
- Qual è il problema, cara?
- Hai davvero intenzione di invitare Nathan Storm?!- sbottò la ragazza.- Oh, ti prego, mamma! Un uomo così…con quella faccia, poi…!
- Tu che ne sai?- fece Helen.- Non l’hai mai nemmeno visto.
- Ma so che sembra la morte in vacanza!
- Non ti preoccupare, tesoro - disse Stephen.- Non verrà. Non è mai più uscito da casa sua dopo l’incendio. In parecchi l’hanno già invitato a diverse occasioni pubbliche, e non si è mai presentato. Gli inviamo un invito solo per cortesia, ma sta’ pur certa che non si presenterà.
- Lo spero. Non voglio un individuo del genere, alla festa per il mio fidanzamento…
 
Casa Garcìa, Poppy Street n. 9
 
Era in ritardo. Di nuovo. Prima o poi l’avrebbero licenziata, lo sentiva. Ma lei che colpa ne aveva se le baby-sitter erano tutte delle gran ritardatarie?
E sei i cellulari finivano sempre nei posti più improbabili?
Esmeralda Garcìa si distese sul pavimento dell’appartamento al quinto piano in cui viveva, allungando un braccio sotto al divano sfondato nel disperato tentativo di recuperare il proprio telefono. Certamente doveva essere stato suo figlio a gettarlo fin là sotto. Anche se non riusciva proprio a ricordare in che frangente avesse potuto mettere in mano a un bambino di due anni un cellulare…
Sbuffò, raccattando finalmente il telefonino e tornando in ginocchio sul pavimento. Si guardò intorno: fra poco sarebbe arrivata la baby-sitter e il suo appartamento faceva orrore. Nell’unica stanza che fungeva da cucina, soggiorno e camera da letto per lei – prima dormiva nella camera accanto, ma da quando era nato suo figlio aveva imparato ad accontentarsi del divano – era invasa da giocattoli per neonati, qualche tutina azzurra e colorata buttata qua e là, più un biberon in precario equilibrio sul bordo del tavolo e un ammasso di piatti sporchi nel lavello. Avrebbe dovuto mettere in ordine prima, ma ormai era tardi per rimediare.
Esmeralda sospirò, abbandonando il capo contro il bordo del divano. Spesso pensava che avrebbe dovuto cercare una casa più grande. Quell’appartamento squallido in Poppy Street – il quartiere appena vicino a Tulip Street con cui faceva il paio per la pessima fama – sempre umido e sporco, dalle pareti scrostate in cui spesso pioveva dentro, non era il luogo migliore per crescere un bambino, lo sapeva. Ma poi, si ricordava sempre che i suoi amici Alain e Chase vivevano al piano di sotto, che lei faceva due lavori fissi più innumerevoli saltuari per tirare avanti, che non aveva un marito e che Daniel era ancora piccolo, e un trasferimento avrebbe potuto turbarlo troppo.
Non è che avesse molte scelte, in proposito.
Il campanello suonò.
Esmeralda si alzò da terra con uno sbuffo, borbottando un era ora!, fra i denti e andò ad aprire la porta.
Quella Roxanne Davies, chiunque fosse, iniziava veramente male.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: So che Blanche manca del tutto e che di Esmeralda c’è pochissimo, ma ho deciso di dare al capitolo un’impostazione diversa (facendo anche procedere la vicenda). Dal prossimo vedremo i preparativi per la festa, e nel frattempo…Logan accetterà la proposta di Robin? Caroline si sposerà oppure succederà qualcosa di inaspettato? E ancora, Storm deciderà di andare alla festa dopo anni di reclusione? E chi è Ryan e che cosa vuole?
Due comunicazioni di servizio: la prima è che ho deciso di aggiungere alla storia anche Rapunzel e Elsa e Anna di Frozen; la seconda, per chi se lo stesse chiedendo, è che Logan e Robin hanno i volti di Michael Socha e Tom Ellis. Ah, e Alain e Chase sono Clopin e Quasimodo ;). Ringrazio SognatriceAocchiAperti, Jessica21 e Princess Vanilla per aver recensito. Grazie, lo so che per ora è un po’ noioso, ma migliorerà presto :).
Ciao, un bacio,
Beauty
  
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