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Autore: Dolceamara    23/06/2008    6 recensioni
Vittima di un filtro da lui stesso creato Draco è costretto a rivedere i confini del proprio giardino.
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Coppie: Draco/Harry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella sera il mare era in tempesta. Non che solitamente non lo fosse, nella piovosa cittadina dove sua madre aveva deciso di far innalzare una deliziosa casetta sulla scogliera. Tonnellate di pietra e arzigogoli apparentemente gotici che davano a quella spiaggia desolata un aspetto ancora più inquietante.

Eppure, pensò Draco, quella sera era leggermente più luminosa del solito.

Che fosse la spuma delle onde illuminata dalla luce sottile del crepuscolo, che fosse quel rumore costante - quello sciabordare continuo normalmente così irritante -, che fosse la sensazione della sabbia umida sulle ferite, Draco non potè fare a meno di ammettere che era decisamente più rilassante del solito starsene seduti lì sulla spiaggia con lo sguardo perso nel nulla.

Si sentiva percorso da un leggero pizzicore – un delizioso coro di “nontiscordardimé” che le sue ammaccature troppo fresche stavano intonando a canone a contatto con qualche granello di sabbia troppo invadente -, ma da tempo non si sentiva così bene.

Quella sera, con il mare in tempesta e il tramonto alle porte, Draco si sentiva vivo.

Con le dita della mano destra - sbucciate e rigate di rosso - accarezzò i capelli di Potter, steso al suo fianco.

Erano bagnati e impiastricciati di sabbia. Non c’era da sorprendersene visto che se ne stava svenuto a pancia sotto sul bagnasciuga, le onde che giocavano a “un, due, tre stella” tra le sue spalle, l’ incavo del collo e la sua bocca.

Draco continuava comunque a guardarlo apatico mentre un nuovo cavallone si tendeva fino alla sua faccia, gli bagnava le labbra e si ritirava in silenzio.

Da dov’era lui, seduto, gli si inumidivano raramente i fianchi. Che Potter continuasse pure a prendersi l’acqua fino a farsi crescere i molluschi nelle orecchie. Forse avrebbe disinfettato le ferite che facevano bello sfoggio di sé sulla sua pellaccia dura.

In fondo un po’ di riposo se lo meritava, ma che non si aspettasse che dopo tutte le botte che si erano dati si sarebbe risvegliato nel lettone di mamma Malfoy, le lenzuola ricamate e stirate di fresco tirate su fino al mento.

Se gli fosse andata bene avrebbe mosso il culo prima dell’alta marea; in caso contrario Draco l’avrebbe semplicemente trascinato in fondo alla spiaggia e lo avrebbe lasciato lì, a mangiar sabbia. Che non si dicesse poi che non aveva buon cuore.

Continuò a giocherellare distrattamente con i capelli impiastricciati di Potter, senza nascondere una certa soddisfazione.

- Cosa credevi venendo qui, eh idiota? Di riportare a casa il tuo cagnolino fedele? – sogghignò senza guardarlo.

In realtà sapeva precisamente cosa ci era venuto a fare Harry Maledettamente-Sopravvissuto Potter nell’angolo di costa più grigio e piovoso esistente al mondo.

E proprio per questo era una soddisfazione ancora maggiore vederlo in condizioni così pietose. (Non che lui a scorticature e lividi vari fosse messo meglio, ma perlomeno era cosciente.)

Il tutto era cominciato più o meno due settimane prima, nella soleggiata – a confronto di quella vasca di Belzebù persino Londra sarebbe sembrata un delizioso bagno di sole – Diagon Alley.

Una scommessa.

E se Draco non avesse avuto lividi anche tra le chiappe le avrebbe benedette tutte, le scommesse.

 

 

***

 

 

- Signorino Malfoy! Insomma, stia attento! -

Madame McClan era leggermente alterata quel pomeriggio. Eclissando sul “signorino Malfoy” - l’unico signorino nei paraggi è nei pantaloni di tuo marito, vecchia bavosa - era lui a prendersi un ago da cucito in vena grattandosi il naso mentre una pensionata appassionata di ricamo gli accorciava le maniche dello smoking. Lei al massimo avrebbe alzato il prezzo finale dell’abito perché lavorare in queste condizioni è impossibile, signorino Malfoy.

Ad ogni modo, che Merlino fosse lodato, se tutto fosse andato per il meglio quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe dovuto starsene appollaiato su uno sgabello come un avvoltoio di lusso.

Se tutto fosse andato secondo i suoi piani presto sarebbe stata la sarta stessa a venire a casa sua, e sarebbe stata disposta a sdraiarsi a terra pur di non fargli muovere un muscolo.

Meglio ancora se la sarta avesse avuto sui diciotto, vent’anni. Meglio ancora se la sarta fosse stato un sarto.

- Ecco, può scendere -

Draco balzò giù dallo sgabello con un sospiro. Grazie al cielo era finita.

- Quanto le devo? – sbottò sfilandosi la giacca dalle spalle, ben attento alla Vergine di Norimberga che oramai era divenuta la manica.

Madame McClan tacchettò irritata fino al suo bancone, il vestito che portava in braccio due volte più grande di lei. – Il prezzo da listino sarebbero 50 falci, ma devo aggiungere qual cosina per la manodopera speciale. Perché signorino Malfoy, in queste condizioni è impossibile lavorare!

Come volevasi dimostrare.

- Ah, signorino! -

A quanto pare l’amabile vecchietta era in vena di chiacchiere.

- Come procedono gli affari? Ho sentito parlare di un’imminente promozione! –

O il mondo magico era diventato improvvisamente piccolo, o la bocca di sua madre era diventata – non così tanto improvvisamente – larga.

Eppure Draco si sentì all’istante molto più solidale nei confronti della cara vecchia signora.

– Ha sentito bene, madamigella! – le rispose guardingo. – Perciò lavori come si conviene a quel vestito, potrei per così dire… indossarlo con il mio nuovo capo! –

Madama McClan sbatté molto ampiamente le ciglia alla parola “madamigella”, lusingata.

- E sia, mio bel signore! – esordì con un sorriso al caramello – Potrei anche abbuonargliela la manodopera! Con 50 falci per oggi se la cava! -

Al solo pensiero di che cosa poteva frullare nella testa di una sarta settantenne Draco si sentì rabbrividire, ma che non si dicesse che non ci sapeva fare, con il gentil sesso.

Peccato che lui fosse interessato molto più che vagamente al fiocco blu, e che l’abito che Madame McClan doveva confezionare fosse destinato ad un compito ben più grato di un banale incontro con un qualche banale superiore.

Anche perché se il suo piano fosse andato in porto di superiori non ne avrebbe visti nemmeno col binocolo.

Draco Malfoy, udite udite, stava per diventare il mantenuto più spaventosamente ricco di tutta la Gran Bretagna. Magica e non. Forse, con un poco di fortuna, avrebbe potuto spingersi anche più in là.

Con un sonoro “plop” si smaterializzò sul divano di casa propria, spaventando a morte l’elfo domestico.

- B-bentornato Signor Malfoy! – squittì quello in allerta. Non era la prima volta che in cambio di un saluto riceveva un calcio negli stinchi.

A Draco piaceva pensare che quella di picchiare gli elfi domestici sarebbe presto diventato uno sport, e che lui non stava facendo altro che anticipare i tempi. Lo ripeteva spesso a Pixy, la sua adorabile bestiolina occhi a palla, e lui annuiva convinto. Da quando aveva assimilato il concetto seguiva il quiddich con una curiosità quasi morbosa, preoccupato che potesse perdere il suo fascino e finisse per essere sostituito da qualcosa più… rilassante, a parere del suo padrone.

Draco lo osservava divertito mentre se ne stava con il naso sbilenco a dieci millimetri dalla radio, la voce del cronista che seguiva il movimento della pluffa in campo.

L’unico lato seccante della faccenda era che tutto quello spassionato amore per lo sport costringeva Pixy a seguire ogni singola partita, e spesso e volentieri anche quelle che vedevano Potter come star.

Potter.

In quelle occasioni, per quanto l’impulso di gettare Pixy giù dalla finestra fosse irresistibile, Draco non poteva fare a meno di condividere con lui il posto in prima fila di fronte alle casse gracchianti della radio, mostrando molta meno disinvoltura di quanto avrebbe voluto.

Non che fosse interessato, sia ben chiaro.

La sua era solo morbosa curiosità.

In fondo ciò che riguardava Potter riguardava anche lui, indirettamente. Era sempre stato così. Non che tutto quello che riguardava Potter riguardasse anche lui… però qualcosa sì. Un poco.     

Scuotendo la testa infastidito Draco richiamò Pixy con un cenno della mano.

- Sì padrone? -

- Portamene una –

Il maggior pregio di quella bestiolina, pensò Draco mentre Pixy scompariva diretto verso quella stanza, era che non aveva bisogno di troppe parole. Veloce ed efficiente. Pur sempre un elfo domestico, ma veloce ed efficiente.

Non gli avrebbe regalato un calzino nemmeno in cambio di uno squadrone di elfi scozzesi.

Pixy tornò in fretta, reggendo tra le mani un minuscolo pacchettino nero.

Era grazie a quel minuscolo pacchettino che Draco sarebbe diventato ricco. Beh, ancora più ricco.

Ne aprì i lembi con attenzione e l’appoggiò sul tavolino di fronte al proprio divano, rigorosamente italiano.

Nel velluto scuro spiccava una piccolissima fialetta bianca. Il tappo non era che una miniatura di un serpente di sughero, aggrovigliato.

Draco prese la fialetta fra due dita e se l’appoggiò alle labbra, svuotandone il contenuto.

Si rilassò sui cuscini del divano mentre sentiva il cuore perdere lentamente un battito e un leggero tremolio impossessarsi delle sue dita. Aveva la vista di già annebbiata.

Che il viaggio avesse inizio.

 

 

*

 

 

Draco si svegliò con un brusco mal di testa. Aveva un retrogusto amaro in bocca e gli fischiavano le orecchie.

- Bentornato Malfoy. -

Pixy era morto. Come osava rivolgersi a lui con il suo nome! Lo avrebbe-

Poi Draco si accorse che a parlare non era stato Pixy.

Con i canali semicircolari nelle orecchie che gli imploravano di non muoversi girò la testa verso la fastidiosa nuvola nera che gli era accovacciata accanto e  – promemoria: mai, e poi mai lasciare la porta di casa priva di un’adeguata protezione antitroll – vide Potter, con tanto di divisa da Quiddich addosso, rivolgergli un sorriso sghembo.

- La  Bella Addormentata ci fa l’onore di aprire gli occhietti – cinguettò soave alzandosi in piedi.

- Chi? –

Ma cosa stava facendo Pixy? Trivellando il muro? Cos’era tutto quel chiasso?

- Lascia stare Malfoy – rispose Potter. – Non credo che ora capiresti se anche provassi a spiegartelo. -

Draco si alzò lentamente a sedere lasciandosi sfuggire un gemito. Tutta quella situazione era decisamente assurda. Che cosa cazzo ci faceva Potter nel suo salotto, vestito come avesse appena battuto Dai "Dinamite" Llewellyn con una finta Wronski? Ops, Dai Llewellyn era stato divorato da una chimera vent’anni prima. Touchè.

- Potter, che cazzo vuoi? -

Non è che Draco fosse sempre così scurrile. Gli capitava di esserlo però, a volte, dopo aver ingollato una fiala intera di Syon, sua personalissima creazione.

E, soprattutto, detestava essere risvegliato dal suo sogno. Lo odiava, con tutto sé stesso.

Era… beh, era segno di maleducazione, ecco.

Potter, di tutta risposta, iniziò a togliersi le gomitiere. Le sbattè una ad una sul suo tavolino rigorosamente italiano e fece quel sorriso. Quel contorcere il volto in un’espressione beata, le labbra stiracchiate come tirate da un filo.

- Se ti vedessi ora, Malfoy – disse, improvvisamente serio.

Draco si alzò dolorosamente a sedere e per un attimo si chiese se Potter non fosse vestito così per partecipare alla partita di Quidditch che infuriava nella sua testa. Il suo cervello doveva aver assoldato i migliori battitori della storia magica.

- Non hai risposto alla mia domanda – sbiascicò passandosi una mano tra i capelli. Doveva trovare il modo di far smettere quel fottuto mal di testa. Merda, non era mai stato così forte.

Potter aveva finito con le gomitiere e si stava smontando tutto l’armamentario che aveva addosso. Ginocchiere, guanti, perfino il mantello. – Draco, sei in arresto. O perlomeno, prima o poi lo sarai. Non appena capiranno qual è il tuo cazzo di crimine e apriranno il tuo caso. –

Probabilmente ancora sotto l’effetto del Syon, a Draco venne solo una gran voglia di ridere. Ed era un sollievo, un sollievo davvero, perché non lo faceva da troppo tempo ormai.

- Il mio caso non esiste, Potter – sussurrò. Pixy, smettila con questo baccano.

In realtà Draco sapeva benissimo che tutto quel rumore non era altrove se non nella sua testa. Era il Syon che rimbalzava da una parete all’altra del suo cervello, come una maledetta pallina di gomma impazzita.

Sì, era quella l’attività che avrebbe dovuto fruttargli una comoda vita in ritiro spirituale.

Traffico di droga, così era chiamato nel mondo babbano.

La cosa divertente era che quel particolare crimine nel mondo magico non esisteva. Perché non erano mai esistite droghe… fino a quel momento.

Draco vi aveva passato giorni e notti, costantemente, cercando di elaborare il filtro più sensazionale mai esistito. Se davvero i babbani potevano creare con delle polverine colorate pillole in grado di spappolare il cervello, allora cosa sarebbe stato in grado di fare lui con la magia?

Aveva ingollato ogni singola prova, aveva analizzato ogni singola propria reazione, con un autocontrollo che gli era sconosciuto. Solo dopo aveva capito che la sua sicurezza non derivava da altro che dagli stessi elaborati da lui realizzati, e che assumeva periodicamente, costantemente.

Di cui oramai non poteva più fare a meno.

Era schiavo della sua stessa creazione, ma era ricco.

E, che Merlino si rotolasse pure nella tomba se non era così, aveva creato la cosa più geniale mai esistita.

Il Syon, una minuscola boccetta bianca, era la chiave per il paradiso.

Un glorioso passato perduto, un amore che non esisteva più, un desiderio irrealizzato… il Syon poteva esaudire ogni richiesta. Ogni più infimo, intimo bisogno.

Era un sogno.

- Smettila di sognare, Malfoy. – La voce di Potter era quasi più insistente delle trivelle che gli stavano tritando i timpani come prezzemolo.

Si era seduto sul tavolino, il suo tavolino rigorosamente italiano, e fissava Draco intensamente, con l’aria di aveva visto tutto nella vita.

Beh, pensò Draco, che si fottesse. Non aveva provato il Syon… non aveva visto tutto.

- Lo sai sfregiato – borbottò stropicciandosi gli occhi. Ci si mettevano anche le lucine a intermittenza adesso? Non era nelle condizioni di parlare seriamente, non con una mandria di lucciole ad oscurargli la visuale.

- Lo sai sfregiato – ripetè, cercando di darsi un tono – Prima che arrivassi tu me ne stavo comodamente sdraiato su un lettino di vimini, in una lontana spiaggia di qualche angolo remoto dell’universo, a godermi una splendida partita di “chi picchia l’elfo più forte ha diritto ad un altro calcio” nella sabbia, e mi pareva anche di avere in mano un bicchiere di ottimo scotch… ah ecco – si allungò verso il tavolino a fianco del divano, prese una bottiglia e ne bevette un sorso.

- Insomma Potter – aggiunse richiudendola – sto cercando di dirti che non sei gradito qui.-

Quando voleva Draco sapeva essere piuttosto teatrale. Se solo non avesse avuto un’emicrania lancinante probabilmente non avrebbe saputo trattenere il suo caratteristico sopracciglio alzato. Sarebbe stato un bello spettacolo, già.

Potter scosse la testa scettico e ridacchiò. – Prima che Lupin mi mandasse a chiamare, Malfoy – esordì altrettanto platealmente (quando aveva acquisito quella dote?) – stavo giocando una partita di quidditch contro i Falconi di Falmouth. Ed eravamo in netto vantaggio. -

Questo spiegava la divisa da cercatore.

- E per quale motivo tanta urgenza? Avresti potuto tranquillamente attendere le odi e gli onori del pubblico alla grande vittoria prima di venire qui a disturbare me. -

Il viso di Potter si deformò in una maschera amara. – Perché, fottuto cretino, quando hai buttato giù quella merda mi è suonato un maledetto allarme in testa che avrebbe fatto cadere dalla scopa persino un fottuto volatile! –

Beh, questo forse spiegava il cattivo umore di Potter.

Ma peggiorava notevolmente anche il suo.

- Mi avete tenuto monitorato? – soffiò Draco tra i denti, improvvisamente lucido.

Un secondo dopo Potter era a mezzo centimetro dalla sua faccia, le lenti degli occhiali che gli facevano specchio sugli occhi. – Io. – disse. – Io ti ho tenuto monitorato, Malfoy. E metà del mondo magico mi darà per pazzo visto che sono scomparso nel bel mezzo di una partita. E prendilo come un favore personale… mi farebbe davvero piacere vederti un minimo spaventato al pensiero di essere sbattuto in gattabuia. –

Draco tornò a ridacchiare

Toc toc? Ehilà? Potter, c’è nessuno in casa?

- Ma che pensiero gentile, sfregiato. Occuparti di persona di me. Tu, l’unico e il grande. Ma vedi, c’è un particolare che ti è sfuggito: il mio crimine non esiste. -

Potter di tutta risposta sfoderò un sorriso innocente. – E’ per questo che per ora la tua cella sarà casa mia– disse cristallino estraendo la bacchetta. 

Draco sgranò gli occhi, e le lucciole gli parvero buoi con una lampadina in bocca.

Pixy, che diavolo stai facendo? Trapanando il muro? Cos’è questo baccano?

 

 

 

*

 

 

Venti minuti dopo Draco era in casa di Potter – una specie di monolocale di lusso, molto meno lussuoso di quanto Draco si sarebbe mai aspettato, molto più disordinato di quanto avrebbe mai potuto pensare – e Potter gli stava ammanettando il polso sinistro ad uno strano oggetto tutto tubi.

Il passaggio tra “ammanettamento” e “ammanettato” era sfuggito a Draco con un’abilità sorprendente.

- Ma che cazzo fai?! - 

Potter gli rivolse uno sguardo latte e miele. – Ti ho detto che sarebbe stata una cella, Draco, non una maisonette. -  

Draco strattonò il polso con rabbia. – Questo è rapimento! –

- Vedila come ti pare. -

Mentre Potter si gettava con un sospiro sul divano e appoggiava i piedi sul suo tavolino – la cosa più lontana dal rigorosamente italiano mai esistita – Draco capì che cos’era il campanello d’allarme che non l’aveva fatto sobbalzare quando Potter era entrato in casa sua. No, non il Syon.

- Tu non sei un auror. – Le sue labbra lo dissero nello stesso istante in cui la sua mente lo realizzò.

Harry inclinò il capo e tornò a sorridere. – No. –

- Non sei in contatto con il ministero. –

- No –

Draco strattonò ancora una volta il polso, e la manetta tintinnò contro il tubo di metallo a cui era legato.

- E allora che cosa cazzo te ne frega di me? -

- Non voglio che tu muoia. –

Draco aveva ormai smesso di vedere lucciole, e non c’era più nessuno a trapanargli il cervello. Eppure a quelle parole un’immensa orchestra di percussioni intonò la marsigliese battendo coi piedi sul suo autocontrollo.

- Sei un fottuto idiota! – urlò.

Potter sprofondò nei cuscini del divano e gli diede le spalle. – Scommettiamo, Malfoy. – disse piano. – Dimostrami che puoi vivere senza quella roba. Se vinci sei libero. –

Draco non osò chiedergli cosa sarebbe successo se avesse perso. Era troppo occupato ad inveirgli contro.

 

 

*

 

 

Non aveva mai veramente pensato alla dipendenza. L’aveva sempre considerata una sorta di controindicazione, un incidente di percorso in cui lui, lo stesso creatore di quella sostanza, non sarebbe potuto incappare.

Era pallidamente assurdo, quel clima gommoso in cui era stato trascinato così improvvisamente.

Potter lo staccò da quell’aggeggio tutto tubi – un termosifone, così aveva detto lui – solo per attaccarlo alla testata del letto, o al mobile fisso di turno.

Incominciò a parlargli di tutto: del lavoro – se poteva essere definito lavoro scansare i bolidi e inghiottire di tanto in tanto un boccino d’oro – degli amici – Draco aveva ancora gli incubi se pensava alla Granger e a Weasley scopare come ricci in uno scantinato- delle cazzate che giornalmente viveva mentre lui se ne stava incatenato da qualche parte come un cane al guinzaglio.

Draco non aveva il coraggio di considerarsi prigioniero, e per i primi tre giorni di reclusione si concentrò unicamente sul pensiero di quanto Potter fosse una testa di cazzo.

Una testa di cazzo con una casa che avrebbe fatto invidia al disordine della cuccia del cane a tre teste di Hagrid, con la lingua più lunga di quel maledetto letto a mezza piazza su cui erano costretti a dormire in due, una testa di cazzo con un bel culo.

Poi il quarto giorno cominciò l’incubo.

Draco iniziò a sudare. A sudare tanto, come stesse correndo migliaia di miglia. Le gambe cominciarono prima a formicolargli, poi a tremare. Si muovevano da sole, impazzite, come le zampe di un ragno a cui è stata mozzata la testa.

Oh, la testa.

Draco se la sentiva spaccata in due. Un lungo, affilato fulmine gli si era infilzato nel bel mezzo della fronte e gli aveva mandato in corto circuito il cervello.

E mentre con lenti movimenti delle mani sulle tempie Draco cercava di alleviare il dolore le sue gambe correvano. Migliaia di miglia. E lui sudava.

Tutto ciò a cui riusciva a pensare era il Syon.

Sentiva il cuore cigolare ad ogni tremolio dei suoi muscoli. Iniziò a piangere, e le lacrime si confusero col sudore. Acido e salato si infiltrarono tra le sue labbra mentre urlava qualcosa di indistinguibile perfino alle sue orecchie.

Si passò le mani ovunque: sulle ginocchia, sulla testa, sulla bocca, attorno alle caviglie, e le ritrasse fradice. La manetta ora di nuovo attaccata al termosifone tirava, ma Draco non ci faceva più caso.

Il suo corpo gli si stava rivoltando contro.

Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo.

Non avrebbe mai più fatto nulla di brutto. Non avrebbe mai più detto nulla di brutto. Non avrebbe mai più pensato nulla di brutto.

Basta, basta!

Fu quando vide Potter corrergli incontro con gli occhi più spaventati che gli avesse mai visto addosso che Draco capì cosa avesse urlato fino a quel momento. Harry.

- Draco! Cazzo Draco! -

 Tutto quello che Draco riuscì a fare in risposta fu singhiozzare.

Potter lo abbracciò, passò anche lui le proprie mani ovunque sul suo corpo, le ritrasse fradice. Cominciò a mormorare frasi sconnesse in risposta alle frasi sconnesse che Draco stava pronunciando ma che non riusciva a capire.

- No, Draco, il Syon no. Basta con quella merda, basta. Cazzo… - lo sentì sbottare, tutto d’un fiato.

Evidentemente era quello che stava chiedendo. Syon. Era quello che il suo corpo stava chiedendo.

Poi Potter si alzò e si diresse verso la cucina. Vi trascorse i successivi cinque minuti, dieci secondi, vent’anni, e tornò con in una mano scatoline bianche su scatoline bianche e nell’altra una bottiglia d’acqua.

Per i successivi cinque minuti, dieci secondi, vent’anni Draco non fece altro che ingoiare pastiglie. Sonniferi, calmanti, antidolorifici, Potter glieli passava uno dopo l’altro, scusandosi perché era roba babbana.

Draco aveva a malapena la forza di pensare a cosa fosse, un babbano, e forse anche per questo rimase stupito quando dopo l’ennesima fitta di dolore alla testa Potter gli prese il viso tra le guance e gli catturò la bocca.

Lo baciò.

Mentre una scarica d’acciaio lo percorreva da parte a parte, Draco Malfoy baciò Harry Potter, o viceversa.

E tra un bacio e una pillola bianca, un bicchiere d’acqua e un altro bacio, Draco non ebbe il tempo di pensare davvero a nulla. Lentamente, faticosamente, si abbandonò a quelle braccia, immergendosi in un sonno che sapeva di latte, bianco e solamente bianco.

Non aveva mai veramente pensato alla dipendenza. Faceva male.

 

 

*

 

 

Il quinto giorno Pixy venne a fargli visita. O meglio, Draco invocò talmente tanto il suo nome accompagnato da tutte le imprecazioni che conosceva che Potter ebbe la santa idea di andarlo a prendere a casa sua – dove la bestia verde aveva cominciato a cercarlo perfino sotto il tappeto pestandosi le dita ogni qual volta che non lo trovava – e di trascinarlo a casa propria.

Non che a Draco mancasse Pixy. Era semplicemente una costante, un habitué del suo personalissimo universo interiore. Il pensiero che era Pixy ogni volta ad andargli a prendere una di quelle sfiorò Draco per un attimo quando lo vide sulla porta, e lo sbattè KO sul tappeto dell’ingresso di casa Potter.

Cazzo, non stava messo bene. Non stava bene affatto. Svenire così, come un fottutissimo sacco di patate, di fronte al suo elfo domestico, di fronte a Potter.

Era un continuo martirio. La crisi di nervi era alle porte, e Draco lo sapeva bene.

Dal giorno prima lui e Potter non si erano rivolti una parola: dopo il suo risveglio lo sfregiato si era limitato a guardarlo con apprensione e Draco aveva notato con sollievo che la manetta al suo polso sinistro era sparita.

Subito dopo si era ricordato di quanto era avvenuto qualche.. ora? Giorno? prima. La bocca di Potter gli bruciava ancora sulle labbra.

Merda. Draco non riusciva a pensare altro.

Che cosa diavolo era successo a Potter? Che cosa era successo a lui?

Aveva trascorso gli ultimi sei anni a zapparsi il suo personalissimo giardino, nascosto agli occhi di tutti tranne che ai suoi, pieno zeppo di fiori rarissimi ad allietargli le giornate buie, ed ora Potter non solo vi entrava, vi si fiondava, come un ariete con le corna lunghe quanto l’uccello di quell’attore porno che – cazzo esisteva davvero o l’aveva sognato in un viaggio di Syon? – … beh, ora Potter col suo bel fondoschiena sfondava ogni cazzo di difesa da lui ideata e cominciava a strappar piante a casaccio.

Non era bello.

Non era neppure brutto, ma non era bello.

Non era facile. Questo era il problema: non era facile.

Quel quinto giorno Pixy arrivò sulla porta di casa Potter con un fagotto davvero minuscolo e sotto braccio la radio, la stessa radio che trasmetteva tutte le partite di Potter. La stessa radio che aveva visto Draco mandar giù più e più volte fiale e fiale di Syon, fino a perdere qualsiasi concezione della realtà. La stessa radio che in un viaggio era diventata viva e gli aveva urlato contro che nella vita lui non aveva fatto davvero un cazzo, un cazzo.

La stessa radio che durante quel viaggio era finita a pezzi e che Pixy aveva dovuto ricostruire per poter continuare a seguire il quidditch.

Draco svenne, quel quinto giorno, e Potter lo trascinò sul letto e lo vegliò fino a quando non fu sveglio.

 

 

*

 

 

Il sesto giorno Draco e Potter cenarono occhi negli occhi. Draco aveva persino rinunciato a guardare cosa infilzava con la forchetta pur di non dover abbassare lo sguardo.

Continuò così fino a quando Draco non sentì gli occhi bruciare – erano parecchio sensibili in quel periodo – e Potter chiese: - Draco, stai bene? – e Draco cominciò a piangere, senza volerlo, e Potter lo baciò, ancora.

Era uno schifo, ma Pixy continuava a tifare per Potter ogni volta che ritrasmettevano alla radio le sue partite.

 

 

*

 

 

Il settimo giorno andarono al parco. Si sedettero su una panchina e Potter cominciò a parlare di Ginny Weasley, di come era andata male con lei, di come avesse capito ormai da tempo che non era quello il tipo di rapporto a cui anelava.

Usò proprio quel verbo, anelare.

Draco ascoltò e annuì spesso, qualche volta disse – Capisco. –

Si guardò attorno e vide funzionari del Ministero a passeggio, madri di interminabili famiglie, streghe di carriera, gente che durante la giornata faceva qualcosa di più di guardare la porta nell’attesa che Potter tornasse.

Non disse niente a riguardo e continuò ad ascoltarlo mentre accennava  ai thestral, dicendo che lì vicino ne stava passando uno. Draco si girò incuriosito e non vide niente. Il nulla.

 

 

*

 

 

L’ottavo giorno Draco disse a Pixy – Portamene una - .

Non c’era bisogno di altre parole.

 

*

 

 

- Tu non capisci Draco, cazzo! Sei solo un drogato, un fottuto drogato! Tutto il giorno non fai altro che commiserarti, cercare qualcosa che ti renda speciale, che ti faccia magari diventare ricco, famoso! Tutto il giorno ti nascondi dietro la tua illusione del cazzo! Ma sì, giochiamo pure con la morte! Porca puttana, Malfoy! L’hai creata tu quella roba! Sai perfettamente che ti riduce ad uno schifo! Guardati! Ti senti forte, potente? Sei il re del mondo? Oh sì! Sei il re del TUO mondo! Merda! -

Potter pianse mentre Draco vomitava, chino sul water.

 

 

*

 

 

Il decimo giorno Draco si strinse contro il petto di Harry mentre sentiva un lungo formicolio partire dalla punta delle dita per arrivare alla punta dei capelli. Gli succedeva spesso ormai.

Pixy era tornato a casa Malfoy, portando con sé il suo minuscolo fagotto e la sua radio. Draco acconsentì perché se ne andasse, perché dopo tutte le testate che aveva dato al muro dopo aver dato al suo padrone quella fiala di Syon temeva seriamente che avrebbe riportato danni permanenti se un altro incidente del genere fosse accaduto.

Preoccuparsi per un elfo domestico: la sua follia doveva essere diventata ormai permanente.

Era singolare: ogni cosa aveva acquisito improvvisamente un significato metaforico.

Pixy che se ne andava era la sua sicurezza che lo abbandonava sbattendo la porta.

Il sudore che tutto il giorno lo infradiciava era lo sporco, il lercio che cercava una via di fuga dal suo corpo.

Casa di Harry era il suo nuovo giardino: un giardino pulito, bianco come il latte. Oramai i fiori che Potter aveva strappato – non a casaccio, no – non sarebbero più ricresciuti.

O almeno così Draco sperava.

Si strinse più forte contro il petto nudo di Harry e scoccò un bacio leggero sulla sua spalla.

 

 

*

 

 

Trascorsero molti altri giorni, e quei fiori – quelle erbacce – che erano state strappate ricrebbero.

E furono di nuovo estirpate con un taglio netto.

Ricrebbero.

Ma trascorsero altri giorni, e piano piano il terreno attorno a quelle erbacce si seccò e assunse una tonalità biancastra, come l’alone di un ricordo.

Non fu una favola. Non ci fu un principe.

Harry impazzì letteralmente nel vedere quanto facilmente Draco ricadeva nei suoi stessi errori.

Ma trascorsero altri giorni.

Poi venne quel litigio.

 

- Harry, cazzo, non sono una bambola! -

Draco si sentiva il sangue ribollire nelle vene. – Ho bisogno, ho davvero bisogno, di fare qualcosa. Di uscire da questa benedetta casa, di trovare un lavoro… No, Harry, quello dell’ultima volta non era una lavoro! Creare l’ Energy drink più dissetante possibile per la tua squadra di quidditch NON è un lavoro! –

- E cosa andrai a fare, eh? Distillare pozioni in un’industria farmaceutica? Draco tu non puoi più venire a contatto con quella roba, lo sai. -

Continuò su questa linea, più o meno, per svariati giorni, a più riprese.

Piatti rotti su piatti rotti, incantesimi più o meno fastidiosi, furetti bianchi che giravano per casa e che Draco ancora cercava perfino nei rotoli di carta igienica nel bagno.

Fu uno scontro doloroso che spezzò molte porte, letteralmente quanto non.

E Draco era fottutamente stanco di starsene a casa nell’armadio delle marionette a fare la brava donnina di casa.

Quando giunse la lettera di sua madre che gli diceva di aver comprato una deliziosa maisonette in un angolo sperduto del pacifico e che lo invitava a visitarla – le richieste di dove fosse finita quella famosa promozione (clamorosamente inventata) di cui le aveva parlato mesi prima si erano assopite per lasciare spazio agli sfizi dell’edilizia -  Draco colse la palla al balzo e salutò Potter con un “Ciao” secco, valigie alla mano e un biglietto per la metro polvere per l’angolo di pacifico più piovoso mai esistito.

Ma Colui che Maledettamente Sopravvisse probabilmente non era sopravvissuto solo grazie al suo incommensurabile charme, e non impiegò molto a raggiungere Draco sulla porta di casa di sua madre, esibendo un sorriso angelico.

- Torna a casa, cucciolo. - disse.

A quelle parole Draco gli tirò un pugno sul naso.

Si rincorsero per tutta la spiaggia a suon di calci, sgambetti, schiaffi e pugni.

- Non sono il tuo fottuto cucciolo! Non sono il tuo elfo domestico, non sono il tuo tesorino pucci pucci qua qua e non sono TUO! -

Harry lo guardò con un cipiglio strano, il labbro che sanguinava e una grossa chiazza rossa sullo zigomo sinistro.

- Ok – disse, e gli schiaffò sulle labbra un bacio che avrebbe tolto il fiato ad un pesce.

Draco ricambiò il bacio, poi estrasse la bacchetta dalla tasca dei pantaloni e lo schiantò.

 

 

Ora erano entrambi abbandonati sulla sabbia, a guardare il crepuscolo.

O meglio, Draco lo guardava… Harry se ne stava svenuto a pancia sotto sul bagnasciuga, a mollo nell’acqua marina.

E mentre Draco accarezzava i suoi capelli impiastricciati come mai lo erano stati tirò un sospiro di sollievo.

– Scommettiamo, Malfoy. Dimostrami che puoi vivere senza quella roba. Se vinci sei libero. –

- Sono libero, Harry – sussurrò.

E se non avesse avuto lividi anche tra le chiappe lo avrebbe ringraziato dal profondo del cuore, con amore.

 

 

End.

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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