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Autore: KindOfMadness    27/02/2014    2 recensioni
Sono sul treno di ritorno che mi riporterà, finalmente, a casa. Guardo fuori dal finestrino e le case sembrano allontanarsi ancora troppo lentamente, sento la mia Londra ancora lontana.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In this town, it all went down.

Sono sul treno di ritorno che mi riporterà, finalmente, a casa. Guardo fuori dal finestrino e le case sembrano allontanarsi ancora troppo lentamente, sento la mia Londra ancora lontana.
Mentre estraggo le cuffie bianche dalla tasca, attorcigliate come al solito, volgo lo sguardo verso l’interno del treno; gli occhi bruciano, si sono abituati alla luce del sole, non si sono scollati neanche per un secondo dal paesaggio monotono che si staglia oltre i binari.
Un raggio fioco di luce illumina il viso di Kyle attraverso il vetro ancora macchiato dalla pioggia,  e riesco a scorgere un leggero barlume di contentezza in quegli occhi così profondi. Devono essere di certo gli occhi più profondi che io abbia mai visto, in cui predomina una tinta di marrone talmente scuro che somiglia al nero.
E’ un abile osservatore Kyle, esattamente come lo sono sempre stato io; lui osserva ogni più piccolo particolare e lo cattura attraverso quello sguardo lucido e attento, talmente da non lasciarsi sfuggire neanche il minimo particolare.
Accanto a lui, sul sedile più sgualcito di tutti quanti, proprio di fronte a me, siede Will.
Lui invece ha sempre la stessa espressione persa nel vuoto, lo stesso accenno ad un sorriso che, talvolta, riesce a mandare fuori di testa anche il più paziente degli esseri umani. Sappiamo tutti che è una specie di maschera che tende ad adottare Will, questa, ci mette un’infinità di tempo a mostrare le proprie emozioni e, molte volte, non lo fa e basta.
Lo osservo spesso e non capisco mai se invidiarlo o meno. I miei occhi sono di un azzurro fin troppo chiaro, uno di quegli azzurri che non riesce a nascondere nulla al suo interno. Sono sempre stato anche troppo emotivo e questo non ha mai aiutato, anche se da bambino un po’ meno, ed una maschera simile a quella di Will mi avrebbe fatto molto comodo nella maggior parte delle situazioni che ero, ormai, costretto a vivere.
Accanto a me invece, con la testa appoggiata sul sedile e leggermente inclinata all’indietro, è seduto Woody. Il più giovane di tutti noi, il più sorridente di tutti noi forse.
Durante tutto questo tempo in giro per l’Europa e per l’America ci siamo sentiti dire tante di quelle cose, ma una delle più frequenti è quanto Woody ispirasse un certo senso di dolcezza a chiunque lo guardasse.  Penso di non aver riso così tanto, quando l’ho sentito con le mie orecchie.
Non perché non sia vero, piuttosto perché credo che se le persone sapessero che uno dei gruppi preferiti di Woody sono i Deftones e prova una certa ossessione verso la squadra di calcio del Devon, non parlerebbe nella stessa maniera credo.
Ha gli occhi socchiusi, le cuffie che aderiscono alla perfezione nelle orecchie, la mano appoggiata sul bracciolo del sedile tra me e lui, le sue dita tremano leggermente a causa dei continui movimenti bruschi del treno.
Infilo anche io, come Woody, le cuffie nelle orecchie e la riproduzione casuale sceglie il brano in riproduzione: Diane Young dei Vampire Weekend.
Come fa Woody a dormire con quella musica nelle orecchie? Rimarrà uno dei misteri irrisolti.
Scaccio via ogni pensiero futile, per puntare lo sguardo fuori dal finestrino per l’ennesima volta: i miei occhi scivolano rapidamente su tutto quel verde che mi ricorda il profumo umido di Kensington Park, a pochi isolati da casa mia.
La mia mente si aziona talmente velocemente che neanche riesco ad accorgermene, sono pronto ad un pensiero dopo l’altro adesso, come mio solito.

Questi ultimi mesi sono stati parte del periodo più strano della mia vita, quello in cui, in momenti come questo dove ti siedi un attimo e riposi corpo e anima, tra te e te esclami “Cazzo”.
Mi sembra solo ieri quando, chiuso nella polvere e nel pessimo odore della mia camera dipinta completamente in blu, aspettavo di rimanere da solo in casa per attaccare il cavo della tastiera alla corrente e sfogarmi, perché era quello il mio unico modo per farlo.
Adesso non soltanto mi è permesso farlo davanti ad un enorme pubblico di gente che, spero, apprezza, come se non bastasse sono riuscito a fare di questo un lavoro.
Un senso di fierezza mi pervade dall’interno, ma fatico a farlo espandere in tutto il corpo. Quando si parla di positività, è sempre troppo faticoso per me, o almeno questo è quello che mi ripetono tutti.

“Dan!” sento scuotermi leggermente la spalla, proprio nel momento in cui i miei occhi si prendono la libertà di chiudersi per pochi minuti.
“Dan stiamo entrando in stazione.” si giustifica quindi Woody.
Mi stropiccio gli occhi e metto a fuoco ogni elemento attorno a me prima di alzarmi una volta per tutte, levandomi le cuffie dalle orecchie che cominciano a bruciare.
“Prossima fermata: West Brompton.” sento dire da una voce femminile che mi stordisce dagli altoparlanti poco distanti dalle  mie orecchie.
“Ciao ragazzi.” dico, avvicinandomi ad uno per uno.
“Grazie per… insomma, tutto quanto!” rettifico.
“Appena arrivate a casa anche voi, ci risentiamo meglio.” gli sorrido.
Non riesco ad immaginare di andare in tour da solo, senza le lamentele di Kyle, le battute di poco gusto di Will e il disordine di Woody.
Alla fine andare in tour con i propri amici è tutta un’altra storia.

Terra ferma, finalmente.
La suola delle mie converse, rovinate quasi del tutto, aderisce perfettamente con l’asfalto ancora bagnato; mi sembrava strano. Sento delle gocce leggere cadere una per una sulla mia testa, fin quando non mi alzo il cappuccio grigio in assenza del mio ombrello.
So cosa mi avrebbe detto mia madre: “Sei sempre il solito, Daniel!” ridacchio tra me e me nell’immaginarmi l’imitazione della sua voce che mi rimbomba nella testa, tanto di lì a poco l’avrei rivista.
C’è odore di pioggia in giro, da nessun’altra parte piove così spesso come qui, molti l’hanno sempre trovato un punto a sfavore della città, io lo considero soltanto un altro dei tanti pregi.
La pioggia schiaffeggia l'asfalto con violenza, accarezza i vetri, scivola tra le foglie, il vento filtra tra le nubi oscure, soffia incessantemente sui tetti delle case e scompiglia i capelli dei passanti. 
La città assalita da una pioggia scrosciante gode di un certo alone di mistero che non tutti possono vantare. 
Da lontano si sente abbaiare, si sente uno scalpiccio ovattato e poi un clacson suonato. Gente senza ombrello, gente che cerca un riparo da quella pioggia, nonostante siano tutti ormai abituati al bagnato.

Non è un quartiere particolarmente abitato, il mio, diciamo che l’area dei parchi e del verde è maggiore del numero dei cittadini che ci vivono.
E’ autunno, dagli alberi si liberano in aria foglie secche in una pioggia di colori che accendono l’ambiente, nella brezza mattutina comincia a sentirsi un forte odore di terra smossa e umida, mentre del fumo grigiastro accenna ad uscire dai camini impolverati. 
Le donne sfoggiano le loro calde ed eleganti pellicce, le giornate cominciano ad accorciarsi ed i tramonti si allungano, più rossi.
Un sole poco luminoso, che non scalda più di tanto, fa fatica a farsi vedere attraverso il colore grigiastro che il cielo usa adottare durante i mesi autunnali.
Il vento soffia tra le foglie di un vecchio albero ingiallito, lo sento anche io sul mio stesso viso talmente pallido che si intravede quella cascata di lentiggini appena accennate. 
Mentre cammino fino alla porta di casa calpesto innumerevoli foglie secche che scricchiolano ad ogni passo e che, al primo soffio di vento, volano via alla ricerca di un altro terreno su cui posarsi. 
Non manca poi tanto all’arrivo, giusto un paio di minuti.
Riesco ad intravedere le mura di un giallino estremamente pallido di casa mia, cerco le chiavi nella tasca destra della giacca a vento e il gelo del ferro mi sfiora le dita, facendomi salire un leggero brivido che percorre tutta la schiena.

“Dan, sei a casa?” mi dice la voce familiare di mia madre, nello stesso istante in cui faccio il primo passo dentro casa mia da mesi ormai.
“Mamma, potrei pensare che tu mi stia spiando…” dico ridacchiando, facendo ridere anche lei.
“Per che ora passi?” le chiedo.
“Dopo pranzo, così lascio il pranzo a tuo padre e porto qualcosa a te! Ti conosco, sicuramente non ti metterai a cucinare proprio ora.”
Con queste ultime parole chiudiamo la conversazione, dopo i vari convenevoli.

Londra non è cambiata di una virgola, casa mia non è cambiata.
L’odore di chiuso ha invaso ogni angolo della casa, misto a una leggera fragranza all’arancia, dev’essere sicuramente ancora quella di quest’estate, prima di partire.
Apro la finestra del piccolo salotto che da sulla cucina, lascio che l’aria quasi gelida punga la mia pelle e socchiudo gli occhi.
Assurdo.” Penso tra me e me, dopo essermi ricordato il motivo per cui casa mia sembra così abbandonata a sé stessa, “Davvero assurdo.” mi correggo.
Le urla sguaiate del pubblico mi rimbombano ancora nelle orecchie ogni qualvolta ripenso a quelle serate, quelle in cui mi sentivo me stesso.
Il mio bipolarismo ricomincia a bussare alle porte: talvolta mi sembra di aver abbandonato quella sensazione di completezza su quel palco, davanti a quella tastiera rosso fiammante, assieme agli altri e davanti a tutte quelle persone con gli occhi puntati su di me. Ammetto che sia davvero frustrante.
Una volta conosciuto, ogni passo falso rispecchia una colpa. Devo stare ben attento ad ogni risposta, ad ogni sorriso, ad ogni parola e ad ogni movenza. Piuttosto pessimo per una persona conosciuta per la sua impulsività e scontrosità.
Le persone parlano, e non si risparmiano dal farlo specialmente se è di un cantante che si sta parlando, di una celebrità.
Celebrità. Mi sembra assurdo che quel ragazzo che camminava sul ciglio della strada per evitare la folla, quel ragazzo che sentiva costantemente la voglia di sprofondare possa essere definito una celebrità da qualcuno, adesso.

Osservo l’orologio leggermente scheggiato appeso sulla parte più in alto della parete del corridoio: le 12.18.
E’ ora di pranzo, se avessi voglia di reggermi in piedi preparerei qualcosa, ma decido di starmene seduto qui ancora un paio di minuti; ad un tratto sento le palpebre pesanti, le braccia si lasciano andare morbide sul mio corpo stravaccato sulla superficie morbida del divano, capisco sempre meno di quello che succede intorno fin quando non perdo totalmente la concezione del tempo e mi abbandono al sonno represso di mesi e mesi di tour.

La vibrazione del telefono mi sveglia: Kyle.
“Dan!” mi dice la sua voce più squillante del solito.
“Hey Kyle! Arrivato a casa?” mi schiarisco leggermente la gola, per non far capire che poco fa ero nel pieno del mio primo sonno completo, con scarsi risultati.
“Ti ho disturbato?” sapevo che se ne sarebbe accorto.
”Affatto, stavo aspettando mia madre.” uno sbadiglio mi interrompe, mi sono tradito da solo. “Stavi dormendo, vero?”
“Si, lo ammetto.” rispondo ridacchiando.
“Allora ci troviamo domani sera, ci sei vero?” mi propone sicuro della risposta.
“Certo! Buona giornata Kyle.”
“Anche a te, saluta tua mamma.” mi dice lui molto cortesemente, come al solito.

Sento le chiavi girare nella toppa, mi alzo insospettito.
“Daniel!” vedo mia madre sull’uscio, con un sorriso stampato sul volto. Mi è mancata.
Mia madre è sempre stata molto apprensiva, con una certa passione per la musica anche se non l’ha mai voluto mettere troppo in evidenza. Suona la chitarra, anche se molto raramente;  mi ricordo che la fissavo con i miei grandi occhi azzurri, a detta sua, e già a quell’età sembravo perdermi nella melodia delicata che formavano quelle note.
“Hey!” le rispondo sforzandomi di essere il più dolce possibile, avvicinandomi a lei e avvolgendola in un abbraccio.
Fin da quando ho cominciato a crescere è sempre stata più bassa di me, anche se non di troppo, e si limita a stringere le sue braccia attorno al mio busto per svariati secondi, troppi.
Non sono un tipo carnale, non amo i contatti, non amo che la gente mi tocchi troppo.
Più vado avanti a pensare e più mi accorgo di quanto io sia fin troppo poco adatto alla vita da star. Non è mai stato uno dei miei obiettivi, questo, ma allo stesso tempo al solo pensiero del riscontro decisamente inaspettato che stiamo riuscendo ad avere come band, mi si inumidiscono gli occhi.
Le mie richieste di non apparire dei video e di estraniarmi dalla vita pubblica, quella in cui, nonostante sia una delle giornate peggiori della tua vita, si è costretti a sorridere e scambiare due chiacchiere altrimenti si passa come scontrosi e montati, non sono state accettate.
Come posso pretenderlo, infatti?
Talvolta è soffocante, se non fosse per tutti quei sorrisi e quelle lacrime che bagnano l’aria dei locali in cui ci esibiamo.
Le persone che urlano a squarcia gola le parole di quelle canzoni che ho scritto io, in un periodo della vita che preferisco non ricordare mai, di lasciarmi alle spalle in qualche modo, nonostante io sia consapevole che è impossibile.
E’ una rivincita verso me stesso, verso me e tutte quelle altre persone che, come me, non hanno mai creduto nelle mie capacità. Mi guardo ancora intorno con un po’ di invidia e continuo a chiedermi cosa si prova a trovarsi bene nella propria pelle; credo che per me rimanga un quesito destinato a non essere mai risolto.

“Dan, perché sei costantemente perso nei tuoi pensieri? Questo ancora non è cambiato, eh.” mi dice mia madre, liberandomi dal labirinto che la mia mente stava creando attorno a sé stessa.
Cambiato.
“Pensi che io sia cambiato?” le rispondo leggermente allarmato, noto un veloce cambio di espressione sul suo volto.
“Per me sei sempre Daniel, mio figlio, con un enorme talento al seguito.” mi dice sorridendo pacatamente. Cerco rassicurazione in quegli occhi allungati che mi guardano con un’espressione così dolce.
Sono stanco delle insinuazioni delle persone. Sono stanco di navigare su internet e sentirmi dire che sono cambiato soltanto perché durante questi anni, in cui ci siamo impegnati tutti e quattro come non mai per ottenere questi risultati, il riscontro è maggiore.
Io sono Daniel Smith, quel ragazzo che meno si vede in giro e meglio è, quel ragazzo talmente timido che a volte la sua stessa timidezza gli fa lo sgambetto e a volte inciampa, risultando scontroso e antipatico, quel ragazzo così insicuro e masochista che non riesce a fare a meno di andare in giro a considerare le critiche e non i complimenti.

Un odore di thè al limone si impadronisce dell’ambiente, raggiungendo ogni angolo della stanza. La finestra è ora chiusa.
“Sei uscito dallo stato di trance?” mi interrompe ancora una volta, facendomi segno di raggiungerla in cucina. La padrona della casa sembra quasi lei, al posto mio.
“Scusa mamma, è che non ho avuto neanche un secondo libero per pensare per tutti questi mesi.” le rispondo scostando la sedia in legno, provocando un pigolio fastidioso contro il pavimento in marmo.
“Per te, pensieroso come sei, dev’essere stato un incubo.” Lei cerca sempre di farmi raccontare qualcosa, nei modi più loschi anche, sono sempre stato uno molto taciturno non solo negli ambienti fuori di casa, ma anche con i miei stessi genitori e mia sorella.
“Ho fatto tutto quello che mi piace ogni giorno, per mesi e mesi! Come può essere stato un incubo?” ecco la mia parte bipolare che salta fuori di nuovo; quando un secondo prima tutto era così negativo, adesso il nero lascia spazio al bianco della positività.
Lei sorride alle mie parole e mi sporge la tazza di tè bollente.
Quell’odore dolciastro ma allo stesso tempo pungente, aspro e fresco mi sfiora le narici: sono finalmente a casa.
  
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