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Autore: Ita rb    28/02/2014    8 recensioni
Qualcuno darebbe la colpa alla paranoia, eppure Mr. Fisher era davvero convinto di essere osservato costantemente, in ogni luogo cui metteva piede o semplicemente passava per errore.
Lui era lì, negli occhi della donna che fumava in strada, ma non solo: era anche in quelli del ragazzo sull’autobus, dell’uomo al bar, di quello al fastfood o addirittura di sua madre; poteva solo ricordarlo.
[ Fan fiction che partecipa al contest "SETTE VIZI CAPITALI: QUANDO QUESTI DIVENTANO OSSESSIONE" del gruppo "La crème de la crème di EFP" ]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Disclaimer: Questa storia appartiene alla rispettiva autrice, i personaggi citati sono tutti inventati, frutto della sua immaginazione e privi di attinenza con la vita reale. Qualunque riferimento a situazioni, luoghi o persone realmente esistenti è puramente casuale e non voluto.
 
Note: Salve a tutti, come al solito ho l’ansia di tediare qualcuno con le mie note, ma ammetto che sono doverose da parte mia e non posso fare a meno d’inserirle in ogni dove per quanto sono logorroica, LOL.
Ad ogni modo, questa fan fiction nasce alla sprovvista, prendendomi in contropiede con l’arrivo di un contest indetto dalla pagina Facebook “La crème de la crème di EFP” e si basa sui sette vizi capitali. So bene che è un tema molto vasto e particolare, ma da brava impulsiva quale che sono ho voluto usare un personaggio nascente – Mr. Fisher, per l’appunto – come punto focale della OS in questione, traendolo fuori da un contesto in cui avevo deciso di farlo nascere prossimamente per entrare meglio nella sua psicologia distorta e paranoide. Spero proprio che possa interessarvi, sebbene sia un’idea nata di getto, e se così fosse sappiate che fra non molto quest’individuo farà la sua comparsa in una mia long – o longhina, devo ancora decidere.
Detto questo non voglio anticiparvi altro, solo che spero di poter far risaltare tutti e sette i peccati in questione attraverso quello predominante e la conclusione stessa dell’ultimo paragrafo ~
 
 
Nessuno sa vedere oltre la punta del proprio naso.
 
Gli occhi riescono guardare solo ciò che li stimola a muoversi, in sostanza ciò che li sprona, ma nelle profondità caotiche del dubbio rimangono statici – ed è quello che ho sempre notato: non si tratta certamente di una novità.
Quante volte, viaggiando sull’autobus, capita che qualcuno fissi un punto indecifrato? Quante volte, quello stesso punto s’ingigantisce tanto d’assumere le sembianze di un vero universo?
Galassie indiscutibili e personalissime si assumono la responsabilità di ciò che è stato e ciò che sarà, si accatastano l’una sull’altra e si fondono tra di loro, innalzando uno sguardo a reale concezione, a spirito d’osservazione; ma sono occhi ciechi, quelli che si spingono a tanto e che in un frammento di carta, in una foglia o in un giornale appiccicato al pavimento, sanno vedere cose che non sono presenti.
Follia: ecco quello che rappresenta tutto questo, vera e propria estraneazione e disgusto di sé.
Forse fanno bene a ledersi tanto; eppure è ciò che credono nel mentre a essere sbagliato, non il contorno irrimediabilmente contorto che avrebbe dovuto sussistere.
Nessuno di loro è pari al Dio che credono, nessuno di loro sa davvero donare un libero arbitrio, ma del loro ne fanno ampio uso e sfoggio fino a protrarsi oltre il limite – in quel baratro senza barriere, pronti a cadere giù e a macchiare ancora questa terra lisa di sangue su cui camminano e si spronano senza una logica.
Frena.
Qualcuno decelera e dei cardini stridono forte sulle rotaie: le avvinghiano, le stringono, le abbracciano voluttuose e fremono lì, nelle stille di fuoco incandescente – e ancora nessuno si rende conto di nulla. Sollevano il tono della voce e il chiacchiericcio si fa prepotente. Parlano di tutto, parlano di niente, in un vagone ombroso, illuminato dal neon chiaro ai suoi margini, dove dei piccoli schermi colorati gettano vociare aggiuntivo che si confonde nel mucchio di quelle folli imprese e malefatte: gelosia, sesso, menzogne.
Il vagone corre e quel sudiciume è lì, ma non solo, è anche fuori e in tutta l’aria che respiro, che intasa i polmoni come fosse smog – no, più nociva dello smog stesso e del progresso che ha fatto capitolare l’uomo al contrario.
Qualcuno mi guarda, guarda proprio me con assente aria di circospezione e la musica ridondante nelle orecchie: si assorda e mi fissa con palpebre vuote, con orbite inesistenti; mi scruta e sa che cadrà giù a sua volta, perché l’importante è stanziare fintanto che qualcuno, da dietro, premerà sulle tue spalle per farti vedere il fondo – eppure costui l’ha già toccato: ha delle occhiaie lugubri, il volto emaciato e le labbra screpolate.
Si copre di lezzo per attirare le donne e s’improfuma come una di loro per diventare un galletto – un perfetto gallo da pollaio o una mucca, sì, una mucca con un anello al naso che lo deturpa.
Una punizione gli marchia il collo, laddove non s’è raso bene la mattina e dove ristagna un po’ di schiuma da barba oltre il cappuccio: un marchio che ha deciso da te, un’inflizione cutanea che ha dell’irreale.
Il teschio mi guarda come lui e so che non c’è differenza alcuna tra i due, perché le sue orbite nere non sono diverse dagli occhi che mi studiano disattenti.
Mi fissano.
Frena ancora: il metallo stride contro il metallo, le porte suonano e ticchettano e la voce annuncia la fine della corsa; qualcuno scende, perché la fermata è identica alla mia – no, è diversa, ma non sono l’unico a scendere, sebbene sia l’unico a filare dritto e a dimenticare per un tratto gli occhi del teschio.
Scivolo ancora, cado nel mondo, l’osservo da lontano perché brulica di carne fresca e quella stessa mercanzia è messa in vendita con corpetti attillati, con gonne corte, con braghe calate.
Scivolo nel mondo, cado ancora, l’osservo da vicino e mi sento inghiottito dai loro sguardi.
 
√ Ore 8:00 a.m.
Un teschio mi fissa, apatico, come se già avesse visto la morte in faccia: forse s’è ricreduto, forse no, ma nell’indecisione statica di quant’è ignava la sua anima è rimasto seduto su quel sedile di plastica ed è andato oltre – è andato avanti.
√ Ore 8:05 a.m.
Una donna mi guarda da lontano e accavalla le gambe. Credo che stia aspettando che la inviti a uscire, ma dissimula e guarda altrove; poi torna a guardare me dalla panca di legno sulla quale è seduta. Fuma.
Turbinii neri le escono dalle labbra e allora so che si tratta solo di un’allucinazione, perché non ha sigarette in mano: è contaminata come tutti, con i seni in bella vista – prosperosi, invitanti, malfermi e strizzati in una lingerie accattivante che s’intravede da sopra la camicia pallida.
 
La città è così piena che potrebbe straripare.
 
Un fiume senza argini che sappiano reggere, una barca senza remi.
Navigo in acque che non mi appartengono, mentre tutto scorre impetuoso e l’uomo all’angolo della strada, grasso da far schifo, si siede al tavolo di un fastfood e posa sul tavolino un vassoio di plastica che sa di olio. Il suo olezzo mi raggiunge, mi disturba e mi squassa da capo a piedi, quando le sue mani frementi scartano il concentrato di sudiciume e se lo portano alle labbra – no, non sono labbra quelle, ma fauci aguzze come quelle di uno squalo: non mi stupirei neppure se si trovasse con quattro file di denti appuntiti; neanche si siede che il panino è già lì.
Credo che la sua lingua stia gocciolando, perché è proprio saliva quella che gli cola dal mento – uno dei due o dei tre che possiede – e lui sbava come un cane rabbioso, con gli occhi sgranati e fuori dalle orbite per il piacere, colmo di una libido immaginaria che impressionerebbe chiunque.
Le papille gustative si ribelleranno prima o poi, ne sono certo, eppure quella merda scivola giù dopo essere stata impastata; no, forse non si redimerà mai, dopo tutto non ha voglia di farlo e gli anni gl’inzuppano la fronte come fossero dighe di biscotti in una ciotola di caffelatte.
Di nuovo un boccone, un altro e un altro ancora fanno compagnia al primo.
Le patatine fritte sgusciano via dalla loro confezione smunta e lui la schiaccia, infilandosele in bocca con la mano libera – una dietro l’altra – lasciando che questo semaforo, finalmente, scatti. Il verde brilla.
Non sono passati neppure quaranta secondi e lui ha mandato giù mezzo menù di prima mattina: disgustoso.
Dovrei appuntarlo, mi dico, camminando lentamente sulle strisce chiare che segnano il suolo marcio, ma non sarebbe saggio farlo in mezzo alla strada; dunque lo memorizzo: mi ricordo il suo volto grosso e flaccido, la sua giacca smunta e chiazzata di olio, la camicia sbriciolata e le labbra sporche di salsa barbecue. Vado avanti senza più fissarlo, perché adesso è lui a guardare me – e io lo so, lo sento quando gli passo accanto e lo ignoro; percepisco le sue pupille addosso e quasi vorrei scrollarmele via con un gesto delle spalle.
Qualcuno grida da lontano, altri corrono via e attraversano senza guardare, mentre una macchina inchioda e quelle dietro di lei, colorate, suonano furiose – mi scoppia la testa, è così dannatamente piena delle loro scie che potrei urlare senza sentirne l’eco.
 
√ Ore 8:30 a.m.
Un porco, seduto a un fastfood, s’ingozza senza pensare al domani: è troppo pieno di sé e del suo lurido stomaco che, slabbrato, gli scivolerà fuori dalle orecchie senza preavviso.
Mi osserva in silenzio e ingurgita chili di merda dal sapore vagamente decente, pensando che sia giusto sbattermi in faccia quel dito di grasso che gli separa i rotoli di carne sul collo unto; ma a me non interessa della sua bassezza.
 
E le ore passano, si accavallano sotto i miei occhi tanto lentamente quanto velocemente: a tratti sono fastidiose, altre volte appaiono quasi delicate nel loro silenzio; allora appunto qualcosa, distrattamente, senza ricordarmi bene l’ordine – ma lo ricordo bene, invece, non è il momento di fare il modesto!
So bene che quel ragazzo ha marinato la scuola, capisco anche perché l’uomo al bar abbia un così bel completo e sia sornione a bere un caffè con il segno della fede che non indossa, comprendo anche il motivo che porta la donna fulva a sgambettare veloce verso uno dei tanti palazzi di città: questo è il covo delle nefandezze umane e io non posso far altro che osservarle tutte, una a una.
 
Un’Appassionata senza passione.
 
Le sue dita sono troppo lente, terribilmente tozze e fastidiose. Solo guardandole mi chiedo come abbia avuto l’idea di volere imparare a suonare uno strumento musicale, un bel pianoforte corvino della Steinway & Sons che, probabilmente, ha acquistato sua madre solo per tenerlo in bella mostra nell’ampio salotto; ma dopo tutto non dovrebbe interessarmi, giusto? Così dicono in molti e anche io, al mattino, cerco sempre di convincermene senza alcun risultato.
Le note arrivano stonate alle mie orecchie, sembrano arrovellarsi fra loro e cercare di prendere posizione al momento sbagliato: un vero disastro.
Il bambino osserva le sue falangi come se fossero oro colato, eppure io gliele mozzerei di netto con quello sportello lustro che ha dinanzi – odio gli affronti ancor più di quanto odi coloro che li mostrano col sorriso sulle labbra.
Qualcuno mi disse che chi ha il pane, di solito, non ha denti per nutrirsene; ed è vero, terribilmente vero, tanto che in questa stanza ho la nausea e il groppo in gola.
Tutto mi fa ribollire il sangue nelle vene, dall’odore di gerani appena raccolti al colore intenso del quadro di dubbia origine – se quella è arte, allora io sono un catamarano! – che spicca dietro la testolina chiara che si muove a scatti.
La donna che ha partorito il demonio della musica è seduta sul suo divano, beve tè come fosse inglese e fissa estasiata la schiena del pargoletto diabolico, socchiudendo gli occhi di tanto in tanto, come quelli di lui si sollevano dal basso per fissare lo spartito e accertarsi di far bene – oh, lui crede davvero di fare la cosa giusta: è così dannatamente arrogante!
Perdo il conto dei minuti e questi si ritirano imbarazzati in quel piccolo orologio a pendolo che spicca sulla parete di destra, ove termina la coda del pianoforte del ricco profano che pensa di essere un genio; ma i geni non hanno bisogno di maestri e spesso li sbaragliano, li mettono a tacere naturalmente, riproducendo opere che poi diventano niente al confronto con le loro idee bistrattate.
No, non è affatto di più di quel che sembra: un poppante con soli sette anni sulla coscienza, che sbuffa quando una nota non giunge a compimento; un ragazzino di dodici anni che arriccia il naso quando il polpastrello gli duole sul tasto; un piccolo uomo, inetto nella sua apparente maturità, che conosce lo spartito a memoria e non si accorge di aver saltato un passaggio.
Già lo vedo, lo percepisco negli anni e nello stesso tempo che, fermo, mi strilla contro come fosse una cornacchia, mentre la voce della finta inglese s’innalza suprema e rimbomba a campana:
«Bravo, amore mio!»
No, non è affatto bravo, è solo un cavallo vestito da uomo, che ride con i suoi denti troppo grossi e col pollice tra le labbra – se lo succhia, Dio santo!
«Sì, una bella lezione», mento, perché al mondo posso solo mentire, ma nessuno immagina quanto sia fastidioso farlo: costa tanta fatica e sdegno da parte del sottoscritto, talmente tanto che a volte getterei la spugna in faccia a qualche idiota per andarmene con classe.
 
√ Ore 4:00 p.m.
Un cretino con dei mozziconi di dita pretende di suonare l’Appassionata e cade nel baratro dell’indecenza, zoppicando perfino sulla sua onnipotenza, mentre una donna lo applaude come fosse Beethoven incarnato.
√ Ore 5:00 p.m.
La madre dell’idiota mi assicura che al più presto provvederà al pagamento delle lezioni arretrate, perciò anche questa finisce nel dimenticatoio assieme alle altre, sul ciglio della porta dove mi congeda; eppure credo di aver visto una nuova televisione in salotto, ampia e piatta, con lo schermo ad alta definizione – non credo, lo so più che bene.
 
I mendicanti pullulano ai margini della strada e tanto più questo Paese cresce, quanto più questi aumentano e ti scrutano di sbieco se gli passi di fianco e non li guardi neppure; allora, se mai lasci cadere qualche centesimo nel loro cappello, lo sdegno e il biasimo diventa parole e prende forma con le sembianze di un mostro pronto a divorarti: un maleficio distante che andrebbe biasimato in tutte le lingue più una.
Qualcuno si stringe nel cappotto lercio e io so di preciso che gli spiccioli nel bicchiere basterebbero per un giro in lavanderia – tintinnano sotto i miei occhi proprio perché vuole convincermi a incrementarli – ma se solo si azzardasse a pulirsi un po’ la faccia, se solo non puzzasse di letame, probabilmente non incontrerebbe la ripugnanza altrui, quella stessa ipocrisia che fa cadere qualche soldo dalle loro parti più per apparenza che per sentimento.
Vado dritto, continuo a ignorarlo, sebbene il cane muova il muso verso di me e quasi prova ad alzarsi per chiedermi aiuto – oh, so bene che andresti via di lì, so che verresti con me pur di non startene in terra come uno sfollato, ma non sono il tuo padrone, Spike.
 
√ Ore 7:10 p.m.
Una bestia più umana del suo padrone ha una dignità apparente che quest’altro non mostra neppure di striscio; invisibile, buttato in terra con la barba malconcia e il naso arrossato dal vino, mi chiede dei soldi per comprarsene ancora – vuole viaggiare nel suo mondo immaginario a discapito del sottoscritto.
 
Il silenzio e la rassegnazione.
 
Il vero eco delle mie note, l’unica e sola Appassionata per quella donna sola che siede distante e ciondolante – con la testa china – non è disturbato da alcun suono.
Il silenzio tace su se stesso, mentre l’odore dolce della camomilla riempie la stanza e lei fissa le profondità d’una tazza piena.
Sulle sue spalle, sul suo capo, tra i capelli biondicci e quelli imbiancati dai decenni di vita, si spingono altri sguardi – numerosi e piccoli occhietti vispi, ridenti quasi, accompagnano il mio da tutte le mensole che attorniano la mobilia imbellettata di merletti.
Concludo la Sonata e non dice nulla, neppure fiata, con lo sguardo perso lì, nella stessa acqua sporca di giallo e ormai tiepida – non più calda – che tiene in mano.
 
√ Ore 8:00 p.m.
Mia madre langue nel suo silenzio. Ha occhi vitrei che sembrano specchi confusi, le mani intorpidite dall’età e quella stessa macchia che le scivola via dal viso assume il grottesco grido di compassione che rivolgerebbe a un penitente: Che orrore, sibila, che orrore!
Lascia cadere in terra la tazza e mi colpisce con la coperta che ha sulle ginocchia, impudente, senza neppure comprendere quale suono abbiano ascoltato le sue sorde orecchie.
Anche lei, come tutti, è contaminata.
 
Sarebbe distopico credere nell’inverso?
 
Ore 8:00 a.m.
Blake Miller, reduce da una nottata in bianco, ha finalmente deciso di andare a trovare suo padre all’ospedale.
Sebbene i due non abbiano mai avuto un buon rapporto, dopo aver scoperto il suo cancro, Mr. Miller ha vietato categoricamente a sua moglie di avvisare il ragazzo proprio per non turbarlo.
Non voglio che perda giorni di scuola a causa mia, non voglio che smetta di studiare, le ha detto ancora quella mattina, prima di uscire di casa per raggiungere il taxi che l’avrebbe condotto alla chemio-terapia; ma Blake sa già tutto, così come sa che il groppo che sente in gola è denominato senso di colpa.
Malgrado non ricordi neppure un giorno in cui abbia giocato a baseball con suo padre, tra le lacrime ha deciso di fargli capire quanto sia cresciuto: sta andando a prenderlo lì e lo aspetterà fino all’uscita.
 
Ore 8:05 a.m.
Ginger Carter ha appena finito di fumare una sigaretta, ansiosa per quella mattina e per l’incontro di lavoro che le è stato promesso: probabilmente avanzerà di livello e la sua paga tanto misera potrà aumentare un po’ – oh, ma a lei basterebbe che le pagassero gli straordinari, dopo tutto.
Si chiede quando arriverà l’ora di pranzo, quando potrà tornare a parlare con il suo fidanzato della novità e quando potrà provare l’abito di matrimonio che sta facendo sistemare dalla sarta della boutique.
 
Ore 8:30 a.m.
Ty Richardson, dopo aver provato a non mangiare per ben dodici ore, ha finito col cedere di nuovo alla tristezza: il dietologo, purtroppo, l’ha informato alla buonora che il suo problema è di tipo ormonale e se anche continuasse a restare a stecchetto, quei chili non scenderebbero da soli; tanto vale, dunque, mangiare qualcosa per riempirsi lo stomaco vuoto, no?
 
Ore 4:00 p.m.
Scott Ward ha sempre voluto diventare come suo padre, ma da quand’è nato non ha mai avuto occasione di vederlo.
Sua madre ha fatto di tutto per mantenerne vivo il ricordo nonostante la prematura scomparsa e suo figlio ha imparato ad amare la musica incisa su disco che gli ha lasciato in eredità assieme a una dote ancora nascosta e delle piccole manine un po’ paffutelle.
Heidi, sua madre, non può che trattenersi dallo scoppiare in lacrime vedendolo così impegnato e se solo prova a chiudere gli occhi, assieme all’aroma del tè che beveva sempre assieme a suo marito, quelle note stonate e lente prendono ad assomigliare a quelle che lui le dedicava ogni volta.
 
Ore 5:00 p.m.
Ancora Heidi, spera che quell’uomo capisca: è sempre stato cordiale e gentile, sebbene un po’ assente – un artista, un musicista come tanti, dopo tutto. Quella casa è tutto ciò che le resta dopo il licenziamento, ma tiene così tanto a suo figlio che non vorrebbe farlo smettere di sognare con quelle piccole lezioni pomeridiane che, tra l’altro, ha dovuto rimandare più volte.
La televisione del salotto, in realtà, è un regalo di compleanno e risale a qualche mese prima.
 
Ore 7:10 p.m.
Will Ross, dopo aver perduto sua moglie e i suoi figli a seguito di un investimento fallimentare, è stato cacciato di casa e ridotto a un vero senzatetto: ricorda ancora i giorni in cui passava per quella strada con le buste della spesa, ma adesso ha così freddo che non riesce neppure a pensare; il naso, gelato e arrossato, si spella di tanto in tanto e se non ci fosse quel cagnolone a riscaldarlo un po’, probabilmente Will non saprebbe più che dolcezza è racchiusa in un abbraccio.
 
Ore 8:00 p.m.
Eve Fisher, la vedova Fisher, ha passato tutto il tempo a fissare quel taccuino scuro che suo figlio Loyd ha dimenticato sul tavolo, perciò ha capito subito cosa contenesse – e come non avrebbe potuto? Più volte l’ha visto borbottare e scrivere là sopra come se nulla fosse, come se davvero fosse diventata rimbambita tutto assieme e non riuscisse a ragionare su ciò che la circonda.
Quando la guarda e cerca una gratificazione, però, lei non può certamente dargliela: non c’è passione in un’Appassionata egocentrica.
Mormora inorridita e tenta di alzarsi, poi le cade la tazza in terra per il tremore delle mani e quando lui tenta di strattonarla senza neppure accorgersene, con gli occhi sgranati e furiosi, lei lo colpisce con la coperta e sa quel che sempre ha saputo: suo figlio è pazzo e continuerà a vedere il mondo in quell’ottica che appartiene solo a lui.
   
 
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