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Autore: Nameless_Sam    28/02/2014    7 recensioni
Non tutti gli essere viventi apprezzano la vita domestica. È il caso di “Bobby”, il nostro protagonista che ha vissuto qualche esperienza rinchiuso tra le quattro mura di diverse case e che le ha trovate troppo strette. Ha scelto, dunque, di seguire la curiosità e di esplorare il Mondo Esterno, di scoprire cos’è veramente la Libertà, quella con la elle maiuscola. Lì, per la strada, imparerà quanto le persone possano essere crudeli e quanto, chi non ha niente, possa essere generoso e solidale.
La storia di “Bobby” il quale riscopre in un barbone la sua vera famiglia, quella che ha sempre desiderato avere e che, alla fin fine, gli permetterà di trovare il suo posto in un mondo popolato da fretta, solitudine e in cui l’affetto sembra confinato solo a quella fetta di gente composta da barboni, umani e non, che tutti evitano e maltrattano.
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»Terza classificata al "Randagi Contest!" indetto da Manu Fury sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Memorie di un’anima errante

 

»Terza classificata al Randagi contest! indetto da Manu Fury

 

 

La vita in famiglia non fa per me.
Sono nato in una casa calda e accogliente, primo di sette fratelli, figlio di un bastardo coi fiocchi di cui non conosco né il volto né l’odore. Non che mi importi, considerato che, come lui, ho preferito la vita solitaria a quella della famiglia; una scelta ammirevole, non c’è che dire. Una scelta che rispetto, perché so quanto sia difficile condurre un’esistenza del genere.
La gente mi guarda inorridita e si chiede chi sono, da dove vengo, se sono malato o se, semplicemente guardandole, io abbia il potere di infettarle. Tutte belle domande, le loro, ma so rispondere con certezza solo ad una: no, non le infetterò guardandole, non sono dotato di poteri magici, purtroppo. Se li avessi, la mia vita non sarebbe costellata di pericoli che devo affrontare quotidianamente, insidiati in ogni angolo della città in cui sono solito condurre le mie esplorazioni.
Il resto non mi è dato saperlo; non so chi sono e probabilmente non ho nemmeno un nome; la mia piastrina è andata persa ed io non ho fatto nulla per ritrovarla. Non m’importa sapere se sono malato o meno, perché tanto prima o poi dovrò incontrare anche io la Signora in Nero e, quando accadrà, non voglio esserci. 
Da dove vengo è una bella domanda, invece: non ho una dimora fissa. Amo definirmi Figlio della Strada, perché è lì che ho cominciato a vivere davvero.
Procedendo con ordine, però, la mia esistenza è cominciata nella casa di cui vi ho parlato poco prima. I miei padroni erano tre bipedi, di cui uno di dubbia natura: alle volte camminava su due zampe, altre su quattro… insomma, era piuttosto confuso e guaiva in modo molto buffo e poco elegante. Certo era che non ero benvoluto e, a dirla tutta, nemmeno i miei fratelli lo erano, perciò i due più grandi ci hanno gettati in una scatola di cartone con una coperta logora, sporca e puzzolente sul fondo e ci hanno portato in mezzo alla strada, in centro, su di un marciapiedi. Ci hanno regalato a perfetti sconosciuti senza nemmeno chiedere il nostro parere; hanno deciso tutto da soli, tacitamente, e non si sono nemmeno sprecati a dare un croccantino alla brava gente che ci ha presi con sé, liberandoli dal peso della nostra presenza.
Volendo essere più precisi, gli sconosciuti hanno adottato tutti i miei fratelli, ma non me.
Chissà, forse perché loro erano tranquilli e io no.
Non mi è mai piaciuto essere il cane perfetto, quello che si adegua agli insegnamenti dei padroni, sempre obbediente, dolce e carino, perché ho sempre avuto l’impressione di essere come imprigionato in una stanza senza porte né finestre, dall’aria pesante, stantia e senza luce. I miei fratelli, invece, venivano portati via ad uno ad uno, tremanti, avvolti nei cappotti o nelle sciarpe di coloro che li sceglievano come fedeli compagni di vita.
Bipedi, quelli, che avrebbero dovuto prendersi estrema cura di quelle creaturine. Avrebbero dovuto dar loro da mangiare, un posto caldo in cui dormire e coccole gratis ad ogni ora del giorno. Li avrebbero dovuti portare a passeggio e, magari, sarebbero capitati nella zona in cui abitavo io, così li avrei rivisti e avrei potuto salutarli, anche se non mi avrebbero riconosciuto. Sicuramente li avrebbero educati, rendendoli le loro bambole, i loro pupazzi, i loro fedeli animali da compagnia… trattati come semplici oggetti e non come cani dotati di dignità e volontà, esattamente come cercavano di fare i miei padroni, con risultati ben più che scarsi. Quelle persone avrebbero pensato a farli star bene, senza fargli mancare nulla, mentre io sarei ritornato in quel posto che tanto odiavo e in cui ero tanto odiato. Non che avessi fatto qualcosa di grave, eh! Semplicemente ai miei padroni non interessava crescere un altro cucciolo: quello che avevano era più che sufficiente, considerato che faceva più disastri di quanti ne facessi io.
Quella casa aveva un solo lato positivo: mobili e giocattoli favolosi. Una vera gioia per occhi e denti, se visti dalla prospettiva di un cane. Adoravo passare le mie giornate a mordere le sedie, le gambe del tavolo, i vestiti, il tessuto del divano e tutto ciò che era a portata di muso, in grado di attirare la mia attenzione. Li addentavo per affilare i denti, convinto che avrei potuto salvare i miei fratellini qualora si sarebbero trovati in pericolo, anche se all’epoca non sapevo ancora che non li avrei mai più rivisti.
«Beata ignoranza!», dicono quegli esseri a due zampe senza pelo né coda, di tanto in tanto.
Mi sgridavano sempre, alle volte alzando le mani o usando il bastone. Con quelle stesse mani che usavano per punirmi, erano soliti carezzarmi, regalarmi piccole attenzioni e momenti felici in cui anche io, come i miei fratellini nelle loro nuove famiglie, mi sentivo apprezzato e benvoluto. Erano padroni strani, quelli, perché dicevano di volermi bene e poi mi hanno messo alla porta, sbattendomi fuori di casa senza pensarci due volte, portandomi in uno di quei fetidi posti in cui rinchiudono altri miei sfortunati simili.

Canile, lo chiamano.
Devo ammettere che questo mi ha sempre confuso… mi sono sempre chiesto, infatti, come si possa fare del male o abbandonare qualcuno che passa il resto della vita essendoti fedele, senza chiederti mai niente in cambio, senza pretese assurde, che ti accetta per come sei e che darebbe la sua vita pur di salvare la tua. Non mi sono mai risposto veramente, se non dicendomi che gli umani sono esseri paradossali e, perciò, è praticamente impossibile capirli. Non si capiscono da soli, figurarsi se ci riusciamo noi animali!
Comunque sia, in quei posti puzzolenti non si stava poi così male, eccezion fatta per le stagioni più fredde in cui non c’erano sufficienti coperte per tenere tutti al caldo. Molti morivano assiderati, altri per la vecchiaia, altri ancora per la neve. Chi sopravviveva poteva contare sulla bontà di bipedi che li portavano a passeggio, giocavano con loro e li coccolavano, proprio come se fossero i loro padroni. Peccato che nessuno li portava mai a casa.
Io non la volevo, una casa.

Io volevo la libertà e fu grazie a questo mio desiderio che, un giorno, mi accorsi di quanto quel posto mi stesse stretto. O forse ero io ad essere troppo grande per quella topaia… non saprei dirlo con certezza. Sapevo solo una cosa: volevo andarmene da lì.
Volevo vivere e non morire per colpa del freddo, delle lotte per la conquista di un territorio che, volenti o nolenti, avremmo dovuto condividere con altri randagi strappati alla strada, o a causa del cibo insufficiente a sfamare le numerose bocche presenti tra quelle gabbie. Sentivo che quella non era la fine che mi aspettava, che avrei dovuto vivere ancora e a lungo, perciò decisi che sarei fuggito.
Evidentemente qualche cane se ne accorse, fiutò le mie intenzioni e, assieme ad altri compagni, cominciò a guaire come un direttore d’orchestra che esegue un Requiem funerario.
I loro lamenti sembravano dire: «Non uscirai mai da qui, arrenditi!», ma io non avevo intenzione di ascoltarli. Sapevo che si sbagliavano e, a dirla tutta, non potevo permettermi di terminare i miei giorni in quel luogo. Perciò, un pomeriggio, mentre le donne incaricate di sorvegliarci durante l’ora di libertà erano distratte, filai via attraverso una piccola fessura del cancello, lasciato socchiuso per distrazione. Nessuno se n’era accorto, nessuno l’aveva vista tranne il sottoscritto, per fortuna. Io l’avevo notata e lei mi aveva chiamato, pareva dirmi: «Ehi, sono io il tuo lasciapassare per la libertà! Attraversami e sarai felice!»
Naturalmente, non mi ero fatto attendere.
Ora come ora, non mi pento della mia scelta, nonostante le giornate non siano le migliori che si possano desiderare.
La prima volta che misi piede nel mondo esterno, rischiai la pelle, ma quella fu solo una delle tante che seguirono. Dopo un po’ ci si fa l’abitudine, si smette di farci caso e si impara a sopravvivere.

Vorrei ringraziare il Signore
per il pane che mi ha fatto trovare nella spazzatura,
per l'acqua che ha fatto scendere dal cielo per dissetarmi,
per i sacrati delle chiese dove ho potuto ripararmi.

 

I primi tempi di randagismo li trascorsi in mezzo ai campi coltivati, cibandomi di erba e qualcosa di rosso, rotondo e pieno di succo; uno di quegli alimenti che gli umani chiamavano verdura e che, ad essere sinceri, non era nemmeno il top della bontà; ma avevo imparato ad accontentarmi, considerato che non avevo altro a disposizione.
Mi lavavo nel fosso, inseguivo insetti e uccellini e facevo i bisognini dove capitava, senza che nessuno mi disturbasse o mi desse ordini, lasciando che la Natura facesse il suo corso, indisturbata. Nessuno mi picchiava, nessuno mi disturbava durante i sonnellini, nessuno mi diceva cosa potevo o non potevo fare… il Paradiso, insomma.
In un giorno di pioggia, mentre mi lavavo dentro al canale, una donna mi passò accanto in macchina e mi vide. Si fermò sul margine della strada e cercò di avvicinarmi. All’epoca ero ancora fiducioso, perciò la lasciai fare, anche perché dall’odore non sembrava pericolosa. Quella persona mi prese con sé e mi portò tra quattro mura ancor più belle ed invitanti di quelle della mia prima casa.
La signora viveva assieme ad un uomo e ad altri due bipedi un po’ più bassi di lei, ma molto più alti di me e, con mia grande sorpresa, più normali dei precedenti. Ne fui felice, perché questi non erano rumorosi come l’umano istupidito della mia prima famiglia, quello che non aveva le idee ben chiare sulla sua identità di cui ho parlato all’inizio.
Non nascondo che quel soggiorno sia stato piacevole, soprattutto perché se facevo i dispetti nessuno mi picchiava. Alzavano la voce, sì, però mi lasciavano comunque un briciolo di dignità e mi rispettavano, roba che nella prima casa era un’esclusiva riservata solo agli umani che l’abitavano. Mi avevano comperato un sacco di giochi, anche quelli per rafforzare i denti, quindi non sentivo il bisogno di sfasciare i loro mobili. Mi davano anche ottimi croccantini e tante altre cose buone; mi portavano a spasso e al mio rientro mi aspettava una cuccia morbida e calda, tanto amore e, in fine, un collare. Mi chiamavano Bobby e mi avevano regalato una piastrina a forma di zampa.
Credevo fosse il periodo più bello della mia vita, ma sbagliavo.
Qualche tempo più tardi, mi accorsi che quella casa mi stava stretta, proprio come il canile: quando vedevo altri cani passare davanti al mio giardino, impazzivo: correvo a destra e a manca, abbaiavo, latravo, saltavo… tutto pur di attirare l’attenzione dei miei padroni.
Nella mia mente gridavo loro: «Aprite! Aprite la porta! Voglio uscire, voglio essere libero come loro!» ma non capivano, mi zittivano e cercavano di distrarmi con stupidi stratagemmi.
Sono stati padroni stupendi, i migliori mai conosciuti nelle mie poche esperienze in famiglia, molto attenti e amorevoli, ma non era quella la vita che volevo, nonostante fossi felice.
Perciò, un giorno me ne andai.
Così com’ero comparso, lasciai quel posto, fuggendo dopo essermi nascosto in giardino in modo tale che, una volta lasciata l’abitazione per andare a fare le solite commissioni da umani, sarei potuto sgattaiolare via passando inosservato. Non penso che si siano sprecati a cercarmi, ma non li biasimo. Apprezzo, anzi, il fatto che abbiano compreso che quella non era la vita che cercavo e non abbiano tentato di riportarmi indietro.


Sopravvivere per la strada si rivelò particolarmente difficile, forse più della prima volta. Ero in città, dopotutto, nel suo cuore e non più in periferia.
Ricordo come se fosse ieri tutte le fughe da quelle bestie con quattro aggeggi rotondi che i bipedi usavano per spostarsi: macchine le chiamavano. Mi facevano paura con i loro VROOOM, tanto che ogni volta finivo per gettarmi nei vicoli, sperando di trovarvi riparo e non un’altra di quelle bestie pronta a stirarmi come se fossi un vestito appena lavato e asciugato.
E così è stato, infatti.
All’inizio non è stato semplice imparare a procurarsi il cibo, una parte di territorio, a farsi rispettare e temere. Dormivo nei cartoni che trovavo abbandonati per la strada (l’apice della scomodità, credetemi) e mangiavo i rimasugli che la gente gettava nella spazzatura, ma la vita domestica non mi mancava affatto.
Certo: la strada non è sinonimo di lusso e non c’è qualcuno pronto a proteggerti dai pericoli, ma è bella per questo, la mia nuova vita. Puoi fare ciò che preferisci, vivere il brivido dell’avventura, conoscere una marea di altri randagi come te, alcuni amici e altri nemici, sia a quattro che a due zampe, imparare a cavartela da solo, sfruttando le tue abilità e trovare una nuova famiglia, una di quelle senza impegno, che ti lasciano libero e non ti rinchiudono tra le mura delle loro ville o dei loro appartamenti.
Uno di loro, bipede, mi ha preso sotto la sua ala; ogni tanto condivide con me qualche spina di pesce o qualche avanzo che arriva da un pranzo consumato in un giorno di festa. Mi porta con sé ovunque, mi parla raccontando un mucchio di storie interessanti e mi fa dormire in quella cosa che si mette addosso per proteggersi dal freddo, una versione fallace del nostro bellissimo pelo. Quest’uomo non profuma di pulito o di umano: ha il mio stesso odore, più o meno, perciò non mi dispiace la sua compagnia. Di notte mi rannicchio sotto la sua falsa pelliccia e resto lì, dormendo sonni sereni, mentre gli tengo caldo col mio corpo ormai smagrito, scarno, spelacchiato.
L’unica cosa buona che mi è rimasta è il collare; l’umano mi ha tolto la piastrina dicendo che non ne avrei più avuto bisogno. Mi ha lasciato quel pezzo di stoffa, pelle ad essere precisi, perché convinto che mi renda più affascinante.
Non avrò certo una bella cera, però mi sento più in forma che mai: sono ancora agile, veloce e in grado di difendere ciò che mi appartiene, nonostante i miei denti implorino pietà dopo anni e anni di lotte per guadagnare ed affermare il mio posto in questa realtà, nella quale la sopravvivenza viene prima di tutto.

 
Ho attraversato monti, boschi e paesi,
nessuno mai mi ha tenuto con sé,
nessuno, mai, mi ha dato un nome.
Dalla nascita ho sempre portato il tuo: "Cane".

 
Penso che sia l’effetto della vita di strada: ogni giorno è un brivido nuovo che non dà mai la possibilità di riflettere sulla propria esistenza, sul punto cui si è arrivati. Impedisce di sentire la vecchiaia; quando sei un randagio, non c’è tempo per la Signora in Grigio, colei che preannuncia l’arrivo della sorella, la Signora in Nero.
La nostra è vita di strada che, agli occhi della gente normale, non può fare altro che risultare monotona. Sono sempre le stesse cose che facciamo, noi randagi: ci svegliamo, andiamo alla ricerca di cibo nei vicoli e nei bidoni dell’immondizia, litighiamo, combattiamo per difendere il territorio, vaghiamo a vuoto e, quando capita, ci riproduciamo anche, scegliendo ovviamente le cagnoline dell’alta società, poi fuggiamo e facciamo in modo di non essere rintracciati. Siamo anime libere che non vogliono impegni di alcun genere o altre vite a carico; la nostra è più che sufficiente. La notte dormiamo e la mattina ricomincia tutto questo tran tran, sempre uguale, senza possibilità di uscire dagli schemi.
È vero: alle volte qualcuno, come il macellaio che ogni tanto vado a trovare, ci lascia qualcosa da mangiare rendendoci la giornata un po’ più facile e meno pesante, ma questi piccoli gesti non sono prerogativa di tutti gli umani che si muovono per le strade della città.
Molti mostrano superbia e sufficienza, nei nostri confronti, assumendo atteggiamenti disgustati e altezzosi nel momento in cui ci passano accanto. Ci guardano come se fossimo dei miserabili, quando non hanno capito che, in realtà, sono loro ad esserlo, poiché noi viviamo alla giornata, ci godiamo la vita e affrontiamo i problemi quando si presentano, senza rifuggirli.
Loro, invece, altro non fanno se non lamentarsi costantemente, chiedere sempre più di quel che hanno, senza donare mai niente a chi, al contrario, ha davvero bisogno anche solo di una monetina per comprarsi da mangiare. Vivono in un branco in cui le piccole cose, i valori della famiglia e della vera amicizia, della lealtà e della fiducia sono stati rimpiazzati da quegli strani aggeggi con cui sono soliti comunicare. Non ne conosco il nome, ma so per certo che hanno rovinato il genere umano: ora nessuno presta più attenzione alle cose che hanno davvero importanza, ad esempio guardare dove camminano.
D’accordo che sono un randagio, che non sono all’apice della bellezza e che una delle mie orecchie è mordicchiata (ricordino di una delle liti per il territorio, niente di preoccupante) ma penso di meritare un briciolo di rispetto, no?
Il signore che si prende cura di me (sarebbe meglio dire che ci prendiamo cura a vicenda l’uno dell’altro) afferma che sono un bravo cane, un fidato amico. Continua a ripetermi che non devo preoccuparmi di nulla, poiché un giorno il mondo intero capirà qual è il mio vero valore e verrò apprezzato per quel che sono, ma io ne dubito fortemente.
Gli umani sono egoisti e non vedono nient’altro, al di là di sé stessi.
Questa mattina mi ha augurato buona fortuna, prima che partissi alla ricerca del bottino del giorno. Si è assicurato che mi ricordassi di tornare al solito posto, una volta finita la caccia, ossia nel nostro vicolo, in mezzo a quella sporcizia che ci fa da casa, con pulci e insetti come coinquilini.
Non che ci dispiaccia; ormai ci abbiamo fatto il callo, ma quel che infastidisce più di qualsiasi altra cosa sono gli sguardi sprezzanti delle persone.
Di nuovo, questa volta davanti ad un uomo e ad un cane che non hanno più niente, nemmeno le lacrime per piangere la loro condizione disumana, mostrano il volto del loro cuore ghiacciato, per non dire inesistente. Passano oltre, ignorando palesemente la voce del mio compagno che chiede l’elemosina, qualche moneta per comprare a me un pasto decente e per se stesso qualcosa che lo scaldi a dovere, soprattutto ora che l’inverno inizia a farsi sentire.

Nessuno lo ascolta: tutti sono insensibili alla voce di uno sconosciuto che, domandando la carità, prega i suoi simili di usare il cuore, per una volta, al posto del cervello che, a sua detta, non hanno. Simili che, probabilmente, possiedono animali che curano come se fossero i loro figli e rabbrividiscono davanti a noi poveri randagi.
Io non sono poi tanto diverso, se vogliamo essere obiettivi; quel che mi distingue dagli altri è che non ho una famiglia e non ho intenzione di averla. Mi basta il vecchio barbone con la barba ispida ed incolta, i vestiti rattoppati malamente, i guanti e la sciarpa bucati, gli stivali per fortuna sani, forse un po’ stretti per i suoi piedi gonfi. Quell’uomo che porta il mio stesso odore, che rinuncia a parte di quel poco cibo che è solito trovare pur di farmi avere un boccone in più, che mi fa sentire speciale parlandomi e coccolandomi senza essere troppo ossessivo, che mi fa sempre trovare un riparo, un posto caldo in cui far riposare le membra. Quell’uomo che mi ha lasciato il collare e, paradossalmente, anche la libertà di andare dove preferisco, quando mi va e tornare se e quando ne ho voglia.
Il collare e la libertà, le cose migliori che potessi desiderare, me le ha concesse senza battere ciglio; gli sono grato per tutto questo. Lui è la famiglia migliore che mi sia mai capitata in tutta la mia esistenza, per questo merita un premio che oggi andrò a cercare.
Dato che sarò alla ricerca di qualcosa di particolare, penso che rientrerò tardi. Spero solo che non si preoccupi per me… so cavarmela, dopotutto, e dovrebbe saperlo bene. 
Vago per vicoli e marciapiedi sperando di trovare quel che cerco in uno dei tanti bidoni che, strada facendo, rovescio ed esploro. C’è di tutto lì dentro: mele marce, polvere, fazzoletti, penne, biro, giocattoli rotti, vestiti usati e tante, tantissime altre cose, ma niente di accettabile.
Cerco, cerco e cerco ancora, finché sul fondo di uno di quei fusti di latta trovo finalmente ciò che voglio: è piccolo, un oggetto stupido e inutile, ma morbido e peloso come me, spelacchiato qui e là, con un occhio sfilacciato e l’altro ancora vispo. Ha un’espressione dolce e le orecchie, a differenza delle mie, sono sane.
Se potessi, ne riderei; sembriamo quasi due gemelli diversi, separati dalla nascita, l’uno l’opposto dell’altro ma, in qualche modo, identici.
Sono fiero del mio bottino: un piccolo cagnetto cui somiglio molto, se non fosse per la Vita. Io ne sono dotato, lui (o lei?) sfortunatamente no, ma penso che potrà tenere compagnia al Vecchio, soprattutto quando io sarò lontano da casa. Lui (o lei, che dir si voglia) sarà un ottimo ascoltatore.
Saltellando sulle mie zampe lunghe e magre, imbocco la strada più breve, quella che mi porterà velocemente dal mio amico, tenendo il mio tesoro tra le fauci che poi, a dispetto della loro forza, non sono più così spaventose come una volta. Il mio tocco è delicato, considerato che il pupazzo è già malandato di suo e non voglio che si rompa ancora di più; non mi rimarrebbe nulla da portare come regalo a quel sant’uomo.
Sto particolarmente attento alla gente che incrocio, ignorando gli sguardi carichi di odio e di disgusto che mi lanciano. Se potessero, mi prenderebbero a calci, mi calpesterebbero e mi lascerebbero morire qui, sul ciglio della strada, come se niente fosse, come se non fossi mai esistito, come se non meritassi uno straccio di attenzione anch’io che sono un randagio e non ho un tetto sulla testa.
Vedete? Lo vedete l’egoismo della gente cui passo affianco?
Assomiglia a un diavoletto che abita nell’incavo tra il loro collo e le loro spalle, tutto intento a guardare il mondo che lo circonda e chi lo abita, punzecchiando la pelle con quel suo tridente ogni qual volta giunge il momento adatto per sfoggiare quell’aria di superiorità e di sofisticatezza con cui le persone si avvelenano l’esistenza.
Ho deciso che non mi farò rovinare la giornata per colpa di individui come quelli; sono troppo felice per la mia conquista e nulla guasterà il mio umore, ne sono sicuro.
Dopo aver rischiato di finire un paio di volte sotto quelle bestie che fanno VROOOM, arrivo finalmente al solito posto, dove trovo il mio amico seduto a terra, con gli occhi chiusi; evidentemente è stanco, perché a quest’ora della giornata, di solito, è tutto intento a ravanare nei bidoni alla ricerca di un po’ di cibo.
Mi avvicino a lui e gli salto in grembo, mollando il peluche su di esso, poi abbaio un paio di volte per svegliarlo. Insomma, non sto più nella pelle! Deve assolutamente vedere cosa ho trovato, cosa gli ho portato! Voglio vedere la felicità dipinta su quel suo volto gonfio ed emaciato a causa della denutrizione, del freddo e delle botte che riceve da quegli stupidi bipedi sempre alla ricerca di nuove attività per divertirsi, che gli donano l’aspetto di un uomo saggio, un po’ inquietante e burbero, ma pur sempre dolce.

La generazione del futuro, la chiamano, ed io spero che nessuno di loro ne divenga rappresentante. Se mai succederà, mi auguro che la mia razza si sia estinta da secoli; non sopporterei di vedere le violenze e i soprusi che quegli esseri senza cervello attuano indisturbati su noi poveri animaletti indifesi.
Considerazioni cagnesche personali a parte, nonostante il mio continuo abbaiare, il contatto della mia lingua fredda sulla sua faccia e le mie carezze, il mio amico non risponde e non capisco se lo faccia apposta o se sia diventato sordo da un giorno all’altro. E potrebbe essere, considerato che è vecchio, molto vecchio, forse anche più di me.
Io riprovo più e più volte ad attirare la sua attenzione, passandogli anche la testa sotto al collo, sperando di solleticarlo, di vederlo ridere e aprire gli occhi, ma lui niente: non si muove e non reagisce. Continuo ad aspettare, scodinzolando e con la lingua a penzoloni, trepidante ed incuriosito, fino a quando non mi assale un dubbio.
Scendo dal suo grembo e mi avvicino alla mano che giace sull’asfalto; mi abbasso e l’annuso, strusciandomi contro di essa, ma ancora niente. Solo un’impressione, un cambio nel suo odore che non saprei decifrare e nemmeno spiegare.
Mugolo un po’, sommessamente, e non ottengo risposta.
Poi capisco: il mio barbone ha lasciato questo mondo.
Da sommesso che è, trasformo quel mugolio in un latrato disperato, colmo di dolore, di disperazione e tristezza che si aggiungono al peso che sento gravare sul mio cuore vuoto e solo.
Mi chiedo come farò d’ora in poi a tirare avanti, come farò a vivere senza il sorriso del mio amico, senza le sue parole, senza più un posto dove tornare e trovare qualcuno che mi sta aspettando per mangiare… e improvvisamente tutto diventa troppo pesante.
Strano come ci abbia fatto caso solo ora… probabilmente la solitudine e la perdita di qualcuno a noi caro rende l’esistenza vuota e inutile, tanto che risulta impossibile non notarne il peso.
Mi siedo davanti a lui, sull’asfalto freddo, e riprendo ad ululare, cercando di imitare al meglio il lamento dei lupi, perché loro sono grandi e grossi e so che la loro voce si può udire anche a grandi distanze. Più abbaio forte, più ho possibilità che il mio ultimo saluto arrivi al mio caro amico, all’uomo che considero il padre che mai ho avuto.
In cuor mio continuo a sperare che possa svegliarsi da un momento all’altro e dirmi che si è trattato di uno scherzo, che dormiva così tanto bene da non essere riuscito a sentirmi, ma so che non accadrà.
A confermare i miei pensieri è un cane, anche lui randagio, probabilmente nuovo della zona, considerato che ha un odore mai sentito prima, che si affaccia nel vicolo per vedere cosa stia succedendo, attirato dai miei latrati disperati. Ci osserva per un po’ stando in silenzio, poi emette un guaito sommesso che sembra dirmi: «È inutile: non si risveglierà mai più».
La sua visita dura pochi istanti, perché poi abbassa il capo e se ne va con la coda tra le gambe, sotto l’acquazzone che è appena scoppiato.
«Sai, Bello: la pioggia è l’insieme delle lacrime di noi poveri barboni ignoranti, odiati dal mondo e costretti a vivere una vita all’insegna dell’invisibilità. Noi, povera gente che la Fortuna si premura di evitare. Noi, poveri uomini cui non è rimasto altro se non un cagnetto smagrito come te con cui passare le giornate. Vedi caro… siamo così poveri che Madre Natura ci ha persino tolto le lacrime per piangere, ma ci ha regalato la pioggia per ricordare al Mondo che gli esseri egoisti che girano lì fuori – e allunga un dito ad indicare la strada pullulante di persone frettolose, dall’aria sola ed indaffarata – che anche noi abbiamo un cuore e che soffriamo, forse anche molto più di loro.» diceva.
Peccato che nessuno l’abbia mai ascoltato.
E aveva ragione, il vecchietto: una volta che entri a far parte di questa vita, non puoi aspettarti clemenza e bontà d’animo, se non da parte di chi la vive con te.

Signore, […]
fa' che la mano dell'uomo non abbandoni più
un cucciolo nella strada.

 
È triste vivere da vagabondi, è penoso essere soli,
ed essere soprattutto semplicemente solo un cane.1

 

Ricordo il suo sorriso, mentre vado a rannicchiarmi sotto il tessuto di quello che lui chiamava cappotto, quando, carezzandomi il capo, diceva: «Sai, io non mi considero sfortunato. Io ho trovato te, dopotutto, e penso di essere la persona più felice e fortunata dell’Universo intero, poiché ho un amico fedele al mio fianco.»
In ricordo dei vecchi tempi, sollevo la sua mano col muso e piazzo la testa sotto il palmo, rattristato e abbattuto, lagnandomi un po’ nella speranza di trovare conforto in quel contatto.
Pian piano socchiudo gli occhi, cedendo alla pesantezza delle palpebre.
Certo che restare soli è stancante… il mio corpo è diventato all’improvviso di piombo, la mia mente è annebbiata e mi pare di vedere il barbone che sorride dall’altro lato della strada.
Mi tende una mano e mi chiama, intimandomi di raggiungerlo, gridando col suo vocione che il posto in cui si trova è spettacolare, che piacerà anche a me e che devo assolutamente vederlo.
Mi dice di sbrigarmi, perché sono in ritardo e c’è un banchetto degno di una corte (che roba sia, poi, non lo so) che aspetta solo noi due.
Però io sono stanco, tanto stanco… credo che farò un riposino bello lungo; dopo tutto il lavoro di oggi, penso proprio di meritarmelo!
E poi, al mio risveglio sarò di nuovo insieme al mio vecchio a correre, giocare e mangiare, a dormire tra le sue braccia, ad ascoltare le sue storie strampalate e la sua risata da vecchio marinaio, magari in un modo nuovo e migliore come dice, dove potremo finalmente avere un’esistenza degna di quel nome.
Sarò lì con lui e lo vedrò sorridere al mio regalo patetico e stupido che so conserverà con gelosia, cura e tanto amore.
Sarò lì con lui perché sono un cane fedele e non lo lascerò mai solo, nemmeno ora che siamo morti.
Sarò sempre al suo fianco, perché è questo che fanno i veri amici.

 

***

 

«Non esiste patto che non sia stato spezzato, non esiste fedeltà che non sia stata tradita, all'infuori di quella di un cane veramente fedele».

―Konrad Lorenz

 



1 = Preghiera del cane randagio che potete trovare intera qui

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Writers’ corner

Siete davvero giunti fin qui?
Fino alla fine di questa mia prima storia sui cagnetti randagi?
Davverodavvero?
Allora non è che lascereste un commentino-ino-ino per farmi sapere che ne pensate? :3
Un grazie a tutti voi che avete letto o anche solo aperto questa storia.
Spero che vi sia piaciuta, nonostante la fine non sia una delle più belle... però, come ha detto la ragazza che ha indetto il "Randagi contest!" cui questa storia ha partecipato e che troverete qui, "nella vita reale... raramente le cose hanno un lieto fine" (
cit. testuale di Manu Fury, che approfitto per ringraziare per avermi permesso di partecipare al suo favoloso contest).
Un bacio a tutti!

Eiriin. ♥
~

 

   
 
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