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Autore: andromedashepard    01/03/2014    4 recensioni
“Speravo dormissi, almeno tu”, disse Thane quando lei ebbe aperto il portellone. Le sembrò esausto. Coprì con due brevi falcate la distanza che li separava, uno sguardo che lei non seppe interpretare. “Dammi un buon motivo per andarmene”, aggiunse, appoggiando la fronte contro la sua. Lei trattenne il respiro, mentre le sue dita si intrecciavano ai suoi capelli. Se c’era davvero un buon motivo, lei non lo conosceva.
#Mass Effect 2 #Shrios
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Thane Krios
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Andromeda Shepard '
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“One day our song will end,
so now let's just pretend
Tonight we burn like stars that never die
So don't cry
Heaven's in our eyes”


(Hammock, “(Tonight) We Burn Like Stars That Never Die”)




 [x]
 
 
Non era rimasto niente. Non c’era più il leggero vociare dell’equipaggio in sala mensa, la risata distante di Karin in infermeria, le lamentele di Gardner o i battibecchi di Daniels e Donnelly in Sala Macchine. Non c’era più il sorriso di Kelly in Sala Tattiche e i mormorii degli specialisti alle loro postazioni. C’era solo sangue. Sangue sui portelloni, sulle paratie, sui rivestimenti metallici dei corridoi. Tubi e lastre metalliche scardinati dai muri, scintille che piovevano dai cavi recisi, depositandosi in macchie scure sui pavimenti. La Normandy come l’avevano lasciata due ore prima non c’era più, insieme ad ogni briciola di speranza.
Shepard, Miranda e Jacob entrarono in ascensore a passo spedito, decidendo di ignorare momentaneamente le condizioni attuali della nave. La biotica fece per spingere l’indice sul secondo pulsante, ma improvvisamente si arrestò, la mano ferma a mezz’aria. Shepard le lanciò uno sguardo irritato, prima di premere lei stessa il pulsante con violenza, incurante del sangue che c’era sopra.
Trovarono Joker seduto sul tavolo della Sala Briefing, le gambe a penzoloni, lo sguardo perso nel vuoto. Miranda si fece avanti senza esitare, puntandogli un dito contro. “Hai perso tutti? Tutti quanti? E la Normandy… dannazione, stavi per perdere anche la Normandy?”
Era furiosa, come Shepard poche volte l’aveva vista, ma nonostante la gravità di ciò che era successo, non avrebbe tollerato un simile atteggiamento nei confronti del suo pilota. A differenza sua conosceva bene Joker, e sapeva altrettanto bene che quell’uomo si sarebbe fatto uccidere, piuttosto che consegnare la sua nave ai Collettori.
“Non è colpa sua, Miranda. Nessuno di noi era preparato per questo”. Jacob la tolse fortunatamente dall’impiccio di esprimersi. In quelle condizioni avrebbe rischiato di litigarci seriamente, e non era sua intenzione peggiorare ulteriormente una situazione orribile.
“Il signor Taylor ha ragione”, intervenne EDI, “Il modulo di riconoscimento conteneva al suo interno un sofisticato virus che ha permesso ai Collettori di rilevare la nostra posizione. Il signor Moreau è stato costretto ad aggirare i protocolli del mio sistema, per permettermi di liberare la nave. Ha fatto tutto il possibile”.
“La liberazione di una dannata IA?”, esclamò Miranda, gesticolando con nervosismo.
“La nave è salva. EDI è a posto. Cos’altro avrei potuto fare?”, replicò il pilota, carico di rabbia e di inevitabili sensi di colpa.
“Sono ancora vincolata dai miei protocolli di programmazione”, confermò l’IA, come se questo potesse in qualche modo tranquillizzarli.
“Lawson, Taylor, lasciateci soli”, sentenziò Shepard. Era la prima frase che pronunciava da quando aveva fatto rientro sulla Normandy, e per un attimo le sembrò di sentire la gola arsa dalle fiamme.
Il silenzio era insopportabile, sembrava quasi innaturale nella sua spettralità. Quel silenzio avrebbe ricordato a tutti loro il prezzo che avevano pagato per essersi spinti così oltre, se non fossero riusciti nell’impresa.
Si accostò al tavolo, scambiando con lui uno sguardo sconsolato ma carico di collera, prima di appoggiare una mano sul suo braccio.
“Non colpevolizzarti. La colpa è solo mia. Avrei dovuto sapere che un dannato congegno dei Razziatori poteva essere pericoloso”.
“Nessuno poteva prevedere tutto questo…”
“E invece no. Era già successo… io avrei dovuto…”, Shepard lasciò la sua postazione, incapace di restare ferma per un altro secondo. Si passò una mano sulla fronte, sospirando rumorosamente mentre camminava in tondo. “E’ tutto così dannatamente ingiusto”.
“Shepard…”
“E’ finito il tempo delle chiacchiere, Joker”. Il suo tono di voce era risoluto, per quanto rivelasse una rassegnazione di fondo. “Dobbiamo andare a riprenderci il nostro equipaggio”.
“Agli ordini”.
“Te la senti?”
“Sono qui”, rimarcò lui, allargando le braccia.
“Imposta le coordinate per Omega 4, non attenderemo oltre”.
“Ricevuto”.
 
 
Shepard raggiunse la sua cabina carica di frustrazione. Fra tutte le preoccupazioni all’orizzonte, quella di un attacco improvviso ai danni del suo equipaggio non l’aveva considerata. Era stata incauta, forse? Continuò a domandarselo finchè non realizzò che non ci sarebbe stato davvero alcun modo di prevederlo o anticiparlo. Ogni cosa, ogni singola azione che lei o la sua squadra avevano intrapreso da quando avevano messo piede sulla Normandy, era sempre stata un rischio. La loro missione finale era un rischio, era un salto nel vuoto, era una sfida alle probabilità, erano loro contro il fato… e non c’era modo di scoprire dove questo li avrebbe portati, verso quale sorte, verso quale destinazione. Ma adesso non c’era più solo il peso di milioni di coloni scomparsi sulle sue spalle, non c’erano più solo le migliaia di anime cancellate dalla Galassia dopo la distruzione del portale Alpha, ora c’era in ballo anche l’onore del suo equipaggio, di chi aveva sposato la sua causa, di chi aveva lavorato giorno e notte per consentire alla sua squadra di giungere fino a quel punto. E mai, mai come adesso lei si sarebbe potuta tirare indietro.
 
Il viaggio fino ai sistemi Terminus sarebbe stato piuttosto lungo, almeno quattordici ore di navigazione. Questo, per quanto odiosa fosse la prospettiva di non potersi scontrare subito con il nemico, sarebbe stato solo un vantaggio. Ognuno avrebbe avuto modo di allenarsi, riposare, controllare con cura le proprie armi e i settori della nave di competenza, in modo da non lasciare niente al caso. Shepard si premurò di comunicare dettagliatamente all’equipaggio le varie mansioni, prima di lasciarli liberi per la serata. Poi spense il suo terminale, ordinando a EDI di assicurarsi che nessuno la disturbasse. Aveva già ricevuto abbastanza sguardi carichi di pietà dopo Arahtot, e non ne avrebbe sopportati altri. Si rifiutava di credere che il suo equipaggio fosse spacciato, ma allo stesso tempo non riusciva a non pensare a quella prospettiva come assolutamente probabile, e ciò le faceva raggelare il sangue nelle vene. Non essere stata capace di proteggerli, di difendere la sua nave, era qualcosa che non riusciva ad alcun modo a perdonarsi, nonostante la razionalità le suggerisse che non poteva colpevolizzarsi ulteriormente.
 
Quella sera non riuscì a scendere fino al ponte equipaggio, certa che vederlo vuoto e devastato le avrebbe dato la nausea. E neppure avrebbe potuto domandare a Kelly di portarle la cena… lei non c’era più. Si rassegnò semplicemente a convivere con i crampi della fame finchè non fossero diventati troppo acuti da cancellare il dolore e l’indignazione per ciò che era successo.
Dopo una doccia abbastanza lunga da consentirle un minimo di rilassare i muscoli, si distese sul suo letto, sperando di trovare conforto tra le lenzuola pulite. Si era ripromessa di non pensarci, di relegare ogni minuscolo “se” agli angoli più remoti della sua mente, ma alcune cose, constatò, erano impossibili da controllare totalmente. Gli occhi erano fissi sul cielo stellato sopra di lei, ma non vedevano che i volti delle persone scomparse, come in una sequenza infinita. Durante quei mesi la Normandy era diventata la sua casa, l’equipaggio la sua famiglia. La rabbia provata alla scoperta dell’attacco diventò impazienza e sete di vendetta, sentimenti capaci di annullare qualunque altra cosa. Persino la prospettiva del processo le sembrava ormai lontana e distante, quasi non la riguardasse più.
 
Quando, all’improvviso, sentì bussare al suo portellone si alzò di scatto, rendendosi conto di essere stata fino a quel momento in un tormentato dormiveglia. Aveva chiesto a EDI di non far passare nessuno, ma era consapevole che l’unica persona ad avere il coraggio di svegliarla a quell’ora della notte, sarebbe stata anche l’unica che avesse tollerato di vedere.
Quando Thane fece il suo ingresso in cabina, Shepard notò immediatamente il vassoio fra le sue mani. Si sedette a gambe incrociate sul letto, osservandolo e basta, senza dire una parola. Lui la raggiunse e posò il vassoio tra le lenzuola, prendendo posto sul bordo.
Shepard iniziò a curiosare, vincendo l’iniziale voglia di mandare tutto al diavolo. Doveva mangiare, e lui l’aveva risparmiata dello strazio di raggiungere la sala mensa, come se avesse sempre saputo quanto le costava.
Solo dopo aver consumato tre tramezzini di seguito, lei si degnò di parlare, trovandolo assorto in uno dei suoi ricordi.
La voce di Shepard gli bastò per riprendere contatto con la realtà, e lui rispose al suo grazie con un sorriso appena accennato. Capì immediatamente che non avrebbe avuto voglia di parlare, né di sentire ciò che lui aveva da dirle. Glielo poteva leggere chiaramente nello sguardo, nonostante i suoi non fossero occhi a quali era familiare per natura.
Se fino a quel pomeriggio una parte di sé era felice di averle alleviato il carico di responsabilità che si portava dietro, ora era dolorosamente consapevole che i nuovi sviluppi l’avevano fatta ripiombare nel baratro. E stavolta la soluzione non poteva che essere una sola. Lui non avrebbe potuto fare altro che prestarle il suo braccio, l’abilità per cui era nato e per cui adesso si trovava lì. Non ci sarebbero state abbastanza parole di conforto, né abbracci in grado di consolarla. Sarebbero stati solo miseri tentativi di insabbiare qualcosa che ormai era troppo palese per essere ignorato.
Aspettò pazientemente che lei finisse tutta la sua cena, finchè non restarono solo poche briciole sul vassoio, poi a malincuore decise di lasciarla riposare da sola. Non era sicuro che fosse ciò che lei volesse in quel momento, ma il fatto che lei non si fosse degnata di fermarlo non poté che confermarglielo.
Non sentì mai il suo nome, pronunciato debolmente contro il bordo delle lenzuola, come un ultimo e sciocco tentativo di non lasciare andare l’unica cosa che avrebbe potuto davvero salvarla.
 
 
 
Gli incubi che popolarono la sua mente quella notte furono inquantificabili. Si risvegliò più volte, madida di sudore, alla ricerca disperata di ossigeno. Stupidamente pensò di recarsi dalla Chakwas, chiederle uno di quei tranquillanti che si era sempre rifiutata di prendere, salvo realizzare l’attimo dopo, con orrore, che neanche la dottoressa c’era più. Si piegò su se stessa, affondando le dita nei
capelli sciolti, tentando di regolarizzare il respiro. Tutto ciò che chiedeva era un attimo di riposo, qualche ora da passare nell’oblio più totale, ma il suo inconscio continuava a rifiutarsi, portandola sull’orlo della disperazione. Si lasciò cadere di nuovo indietro sul cuscino, spalancando gli occhi, ormai completamente sveglia. Poi, incapace di restare ancora ferma a farsi sopraffare dalle preoccupazioni, decise di rivestirsi e di recarsi fino al ponte dei comandi. Trovò Joker alla sua solita postazione, e stavolta nessuno dei due disse nulla. Non ci fu nessuno scambio di battute, nessun gesto amichevole. Semplicemente, lei si abbandonò sulla poltrona del copilota e puntò gli occhi sul parabrezza davanti, perdendosi a rincorrere quelle miriadi di puntini bianchi che si stagliavano sul nero più scuro. Era lì per trasmettergli tutta la solidarietà possibile, quella impossibile da comunicare a parole… e lui ne era consapevole, nonostante nessuno dei due osasse proferir parola. Joker si limitò a rivolgerle uno dei suoi sguardi, uno di quelli che volevano dire “lo so, Comandante, ci siamo dentro, ma ci siamo dentro insieme”, e lei ricambiò con uno sguardo che sapeva di profondo rispetto.
Restarono così, silenziosi nella penombra per un’indefinita quantità tempo, finchè Shepard non realizzò che le sue responsabilità non cessavano con il suo pilota. Aveva un intero equipaggio sulle spalle, dodici individui scossi dagli eventi così come lo era lei. E aveva Thane, probabilmente chiuso nella sua cabina immerso in chissà quali pensieri.
 
Se lei fosse morta, durante l’attacco, non avrebbe lasciato nessuno. Il mondo era andato avanti durante i suoi due anni di assenza, le persone a lei vicine erano andate avanti, persino chi aveva giurato di amarla. Ma lui aveva ancora un figlio, e nonostante ciò si era lanciato ugualmente in quella missione, promettendole di starle a fianco fino alla fine.
Non aveva mai pensato di poter essere una persona egoista, ma lo era stata. Quella sera non si era chiesta se lui avesse avuto bisogno di parlarle. Aveva messo davanti se stessa e il suo bisogno di pace, senza farsi domande. E adesso il senso di colpa la assalì in tutta la sua interezza, stringendole lo stomaco in una morsa insopportabile.
Si alzò dalla sua postazione, percorrendo tutta la lunghezza della Sala Tattiche come se si trovasse in mezzo ad un cimitero. Ogni terminale fuori posto, ogni cavo staccato dalle pareti, ogni macchia scura sul pavimento le ricordarono quanto stavano rischiando di perdere, e non avrebbe permesso a se stessa di perdere altra gente. Il percorso che la portò dal ponte due al Supporto Vitale la vide totalmente disconnessa, quasi avesse iniziato a camminare per inerzia. Si riebbe solo dopo aver varcato la soglia del portellone, investita da un odore ormai familiare che aveva il potere di rassicurarla. Lo trovò seduto alla sua scrivania, la testa china fra le mani, gli occhi chiusi e un’espressione che lei non era sicura di conoscere. Lasciò che la sua mano gli sfiorasse delicatamente un braccio, prima che lui le bloccasse il polso improvvisamente. Un istinto naturale, quello di un assassino, che svanì l’attimo seguente insieme ad una parola.
“Scusa”.
“Non volevo spaventarti”, si giustificò lei, appoggiandosi alla scrivania con un fianco. “Come stai?”
“Non preoccuparti per me”, rispose lui, senza esitare.
Odiava quella frase. Come poteva chiederle di non preoccuparsi? Era quantomeno egoista da parte sua pretendere che lei facesse come richiesto, accantonando qualunque sentimento. Eppure non se la sentì di rispondere, perché sapeva che lui le avrebbe elencato una lista infinita di cose che richiedevano un’attenzione maggiore, secondo il suo personale modo di vedere le cose. E qui, i loro punti di vista prendevano due strade totalmente differenti.
“Non hai dormito?”
Doveva essere una domanda, ma il tono di voce di lei fu più vicino a quello di una constatazione.
“Dormirò. C’è ancora tempo”, rispose lui, alzandosi.
Una parte di lei pensò, o forse solo sperò, che lui la avvicinasse, facendole spazio fra le sue braccia, ma lui rimase immobile dov’era, in una situazione di stallo. Avrebbe potuto farlo lei, si disse, ma qualcosa negli occhi di lui la bloccò, impedendole di muovere un passo. Iniziò a stringere in mano il bordo della manica della sua divisa, un gesto inconscio di disagio. C’era qualcosa che, subdolo, doveva essersi frapposto fra di loro… ma lei non riuscì capire cosa, e neppure ebbe il coraggio di domandare.
“Volevo solo assicurarmi che stessi bene”, cercò di ribadire, stupidamente.
“Sto bene, Siha”, annuì lui.
Seguirono ancora interminabili istanti di silenzio, prima che lei sentisse di nuovo il bisogno da uscire da quella situazione statica e innaturale.
“Stavi… ricordando qualcosa?”
Lo vide chiaramente irrigidirsi a quella domanda, prima che andasse a sedersi sul suo letto con un sospiro. Un chiaro tentativo di sfuggire alle sue domande, o anche solo al suo sguardo.
“Ho bisogno di restare solo. Ti prego, scusami”.
La sua risposta la sorprese, ma forse non più di quanto avrebbe immaginato. Iniziò a chiedersi immediatamente se il comportamento di lui fosse stato spinto dal rancore verso l'atteggiamento della sera prima, ma non sarebbe stato da lui. Thane l’aveva sempre compresa, anche quando lei arrivava a odiare se stessa, anche quando neppure lei riusciva a capirsi, e non poteva credere che il giorno prima della resa dei conti lui avesse deciso di punirla regalandole sensi di colpa su sensi di colpa. Aveva di certo le sue buone ragioni, e lei le avrebbe rispettate senza discutere. Annuì appena, incerta sul modo in cui lasciarlo. Poi, vincendo il timore iniziale, gli si avvicinò facendo per cercare la sua mano. Quando lui si accorse del gesto e portò la sua su quella di lei, Shepard si era già allontanata con un’insicurezza di cui lui non la credeva capace. Una frazione di secondo bastò loro per dividerli, ma fu forse più dolorosa persino di tutte le cose non dette che aleggiavano nell’aria e avvelenavano le loro anime.
 
 
Non era stata sua intenzione lasciarla andare. Non totalmente, almeno. Una parte di sé non avrebbe mai voluto rinunciarvi, conscia del poco tempo che restava loro, conscia di quanto ne avesse bisogno. Un’altra parte di sé, invece, quella subdola e più difficile da controllare, lo voleva ancora una volta legato al passato, alla continua ricerca di qualcosa che in ogni caso non avrebbe mai potuto trovare.
Il punto di rottura dell’equilibrio che lui cercava costantemente di mantenere, era stato, con ogni probabilità, la comunicazione avuta con suo figlio qualche ora prima.
Aveva raccolto tutto il suo coraggio e aveva inoltrato la chiamata, trovandosi faccia a faccia con suo figlio una manciata di secondi dopo. Sulla Cittadella doveva essere giorno, a giudicare dagli spiragli di luce che filtravano dalla finestra, disegnando righe luminose sul volto del giovane Drell. Tentò di leggere l’espressione di Kolyat, scoprendosi confuso e impacciato. Non lo conosceva così bene da saperne interpretare le emozioni, e d’altronde non poteva meravigliarsene: era stato lui ad abbandonarlo troppi anni prima, rinunciando a qualunque forma di contatto. Dopo le solite frasi di rito, pronunciate con troppo imbarazzo da parte di entrambi, lui decise di arrivare subito al punto, comunicandogli che tra poche ore sarebbe partito per la missione per la quale era lì sin dall’inizio. Kolyat non aveva risposto subito, ma aveva invece distolto lo sguardo dal terminale. Poi gli aveva chiesto per quale dannato motivo lo stesse informando.
“Perché è giusto che tu sappia, nell’eventualità che io…” Thane si era bloccato, senza riuscire a rendere la pillola meno amara.
“…che tu muoia? Lo so perfettamente, questo. Tanto è solo questione di tempo, no? Prima o poi te ne andrai comunque”.
Quelle parole, pronunciate forse con più rabbia del dovuto, lo colpirono in maniera devastante. Sapeva bene che non sarebbe stato facile per suo figlio smettere di portargli rancore, ma ogni volta che lui glielo ricordava, il dolore era quello di sempre, quello di una ferita fresca, impossibile da curare.
“Lo sto facendo anche per te, Kolyat”.
“Certo…”, mugugnò lui, tenendo gli occhi bassi, fissi sul pavimento sotto di sé. “E’ questo che dicevi alla mamma, ogni volta che andavi via per lavoro? Che lo facevi per lei, per noi?”
Thane non rispose, perché non aveva alcuna intenzione di mentirgli, né di ammettere che fosse davvero così. Perché suo figlio aveva ragione, e lui lo sapeva bene. Nello spazio di un secondo, arrivò perfino a rivalutare l’idea di aver deciso di unirsi alla causa di Shepard… ma se anche vi avesse rinunciato, se anche avesse deciso di abbandonare tutto per raggiungerlo, sarebbe mai riuscito ad essere un buon padre?
No, gli avrebbe dato solo un fardello in più di cui preoccuparsi. Entro qualche mese avrebbe iniziato a peggiorare, necessitando di un’assistenza costante di cui non voleva caricarlo. Rispuntare dieci anni dopo averlo abbandonato per dargli solo un malato di cui doversi occupare? Questo avrebbe superato qualunque egoismo possibile, da parte sua… e non poteva permetterlo, neanche se fosse stato suo figlio in prima persona a chiederglielo.
“Stavolta è diverso…”, fece per spiegare, venendo bruscamente interrotto da suo figlio.
“Non mi interessa”, esclamò lui. “Senti… farò tardi ai servizi sociali, quindi…”
Thane pregò che quelle che aveva visto agli angoli dei suoi occhi non fossero lacrime, prima vederlo in procinto di troncare la comunicazione.
“Kolyat”, lo chiamò, fermandolo appena in tempo. “Ti voglio bene”.
Vide solo suo figlio annuire e portarsi una mano sugli occhi, prima che interrompesse definitivamente la conversazione, lasciandolo annegare nei soliti, antichi, insopportabili sensi di colpa.
 
 
Continuava a rivivere quella breve conversazione nella sua mente, esaminandola alla luce di mille variabili, cercando nuovi punti di vista, nuove ragioni. Suo figlio soffriva, questo era fuori di dubbio, ma lui cos’avrebbe potuto fare davvero per cambiare la situazione? Non c’era assolutamente nessuna soluzione all’orizzonte, se non la speranza che lui, un giorno, arrivasse a capire. Omega 4 o no, sarebbe morto comunque.
Era felice di averlo salvato, era felice anche solo di avergli potuto dare un abbraccio, era felice di avergli parlato… ma la consapevolezza che lo avrebbe abbandonato di nuovo, presto o tardi, non riusciva a dargli pace. Non riusciva a smettere di domandarsi che cosa avrebbe fatto, una volta solo. Se avrebbe ceduto di nuovo al richiamo di una vita corrotta, se avrebbe finito per isolarsi fino a perdere completamente il senso delle cose, se avrebbe continuato a vivere nel rancore, senza trovare il modo di riuscire a sorridere di nuovo…
E non avrebbe abbandonato solo lui. Tutti i tormenti che lo avevano accompagnato lungo la strada del suo cambiamento, da quando per la prima volta aveva messo piede sulla Normandy, si condensarono in quelle ore, riempiendogli la testa di pensieri autodistruttivi. Se non avesse mai saputo di Kolyat, se non avesse mai permesso a Shepard di avvicinarsi…
Era stato così terribilmente egoista, e se ne rendeva conto nel complesso solo adesso, di fronte alla probabilità sempre più pressante che sarebbe potuto morire ancor prima della data che già da anni pendeva sul suo capo.
Shepard era stata così dannatamente brava a convincerlo che lui meritasse di essere felice, che lui aveva sperimentato davvero quel sentimento, nonostante avesse smesso di crederlo ormai possibile da parecchio tempo. Sapeva che una relazione, nelle sue condizioni, sarebbe stata tutto fuorché normale, e aveva creduto di poterla comunque affrontare, spinto dalla certezza che lei avesse davvero bisogno di lui. E proprio alla luce di questo non poté fare a meno di odiarsi profondamente per essere ricaduto con così tanta facilità negli stessi dubbi di sempre, proprio quando lei avrebbe avuto maggiore necessità di qualcuno a cui aggrapparsi. Aveva perso il suo equipaggio, ed era fuori di dubbio che si stesse crogiolando in un mare infinito di sensi di colpa, e lui… lui non era riuscito a fare nulla per aiutarla, convincendosi che lasciarle spazio sarebbe stata la cosa migliore da fare.
 
 
Quando decise di dare un taglio netto alle emozioni negative che, abilmente, l’avevano intrappolato per l’ennesima volta, erano passate già parecchie ore di navigazione. Un’enorme quantità di tempo passata ad annegare nei ricordi, nei rimpianti, nel rimorso più totale. Non era così che aveva immaginato di passare le ultime ore prima della resa dei conti, non erano questi i ricordi che avrebbe voluto possedere se tutto fosse andato a rotoli. Si era ripromesso che ci sarebbe stato, e l’avrebbe fatto, a qualunque costo.
Raggiunse la cabina di Shepard senza aver dato neppure un’occhiata all’orario. Quando si trovò dietro al portellone, pensò di essere sul punto di esplodere. Non avrebbe potuto fare di nuovo finta di niente, come quando era andato a portarle la cena.
La trovò seduta alla scrivania, intenta a rileggere febbrilmente i dati che scorrevano sul suo datapad. Lui la raggiunse velocemente, e prima che potesse anche solo accorgersene, le parole avevano iniziato a scivolare dalle sue labbra, come se non gli appartenessero, come se avessero vita propria.
“Siha…”
Lei si alzò, palesemente turbata dal suo atteggiamento, o forse anche solo dal fatto che lui avesse fatto irruzione senza neppure avvertirla. Ma lui non riuscì a fermarsi, investito da un vortice di pensieri che aveva preso totalmente il controllo su di sé.
“Sapevo da molti anni che sarei morto…”, continuò, “insieme abbiamo fatto tanto. Abbiamo reso la Galassia un posto migliore. Mi hai aiutato ad ottenere molto più di ciò che ho sempre sperato… Ho parlato con mio figlio. Dovrei essere in pace con me stesso, alla vigilia della battaglia, ma…”
“Thane… fermati”, disse lei, ormai decisamente preoccupata. Gli si avvicinò, posando una mano all’altezza del suo cuore. Riuscì a percepire chiaramente l’ansia di fondo che traspariva da ogni sua parola, e ciò la ferì terribilmente.
“Io… provo vergogna”.
Quelle parole le fecero ancora più male, assieme agli occhi di lui che rifuggivano in tutti i modi al suo sguardo. Lui prese le distanze, e lei tentò ancora una volta di cercare un contatto, sollevando una mano per posarla sulla sua guancia. Ma Thane la allontanò bruscamente, volgendosi per darle le spalle. Un gesto che esprimeva quanto lui pensasse di non meritare le sue attenzioni… come se solo toccandolo, lei avrebbe potuto corrompersi.
Lo vide allontanarsi, raggiungere la sua scrivania e appoggiarsi sulla lastra di metallo alla ricerca di equilibrio, prima che colpisse forte la superficie con un pugno. Lei sussultò, totalmente impreparata. Non l’aveva mai visto perdere il controllo in quel modo, non l’aveva mai visto così vulnerabile, così… umano. Era sempre stata lei quella sull’orlo di una crisi, era sempre stata lei quella da salvare… e se lui doveva aver provato la metà di quell’angoscia che sentiva adesso lei…
“Ho lavorato molto in questi anni”, riprese a dire lui, a denti stretti, “ho meditato, ho pregato, ho fatto ammenda per il male che ho causato. Mi ero preparato…”
Lei non si sarebbe arresa. L’avrebbe aiutato, in qualunque modo possibile. E se l’avesse allontanata ancora, lei l’avrebbe di nuovo avvicinato, e avrebbe usato anche la forza, se necessario. Se lo ripromise, camminando lentamente verso di lui, mentre sentiva di sbriciolarsi dentro.
“Ma se penso alla morte del mio corpo sento un brivido lungo la schiena. Io ho paura. E me ne vergogno…”
Sentì la mano di lei chiudersi intorno al suo pugno, la sua presenza rassicurante appena dietro alla sua schiena. Non avrebbe voluto mostrarle quel lato di sé, non avrebbe voluto mostrarle tutti i suoi timori proprio adesso, non avrebbe voluto mostrarle le sue lacrime… ma l’aveva fatto, spinto probabilmente da quello stesso istinto di conservazione che adesso vanificava anni e anni passati a fare pace col proprio destino.
Quando si voltò, guidato dolcemente dalla sua mano, lesse su quel viso umano tutta la disperazione che doveva star provando. Aveva gli occhi lucidi, pieni di lacrime, e il tremito sulle sue labbra gli suggerì che fosse in procinto di piangere. Lei appoggiò la sua fronte sul petto di lui, stringendo entrambe le mani intorno alle sue in una morsa decisa. Chiuse gli occhi per una frazione di secondo, lasciando alle lacrime la libertà di scorrere lungo le sue guance.
“Siamo vivi. Io e te siamo vivi adesso, ed è questo che conta”, gli disse poi, tentando di fuggire quanto più possibile dalla voglia di lasciarsi andare ad un pianto devastante. Poi lui sollevò il suo viso, cancellando la traccia di una lacrima. Cercò le sue labbra, e in quel dolcissimo bacio, troppe lacrime e troppi sentimenti si mescolarono insieme, trasformandosi in centinaia di cose diverse, che iniziavano con lui e finivano con lei.
 
 
 
Il pavimento vide sommarsi i loro vestiti alla rinfusa, come se ognuno di quegli indumenti fosse un’emozione di cui avevano deciso di liberarsi. La dolcezza iniziale che aveva guidato i loro gesti, lenti e misurati, raggiunse presto ciò che restava di quelle emozioni, giacendo dimenticata ai piedi del letto insieme ad un'infinità di altre cose per cui adesso non c'era più spazio.
Si scontrarono come onde del mare sugli scogli, sperando forse che l'urto attutisse e placasse il dolore, così come l’acqua leniva pazientemente la roccia. Ed entrambi erano onda ed erano roccia, invertendo abilmente i ruoli quando la marea lo domandava. Più il contatto era piacevole, più aumentava il desiderio di farsi male, come se provare dolore fosse l'unico modo di sapere che entrambi erano ancora vivi, che entrambi avrebbero potuto amare ancora. C'era un oceano negli occhi di lei, uno di quelli dove lui avrebbe voluto annegare. E c'era il cielo più nero negli occhi di lui, uno di quelli dove lei era pronta a morire. Se le lacrime avessero avuto il potere di trasmettere emozioni, adesso entrambi avrebbero saputo di essere vittime dello stesso bisogno. La rabbia si sommò alla rabbia, il rancore al rancore, la paura alla paura, e l'amore all'amore, moltiplicando quel sentimento fino a sentirne il peso dentro al cuore, un ritmo pulsante che si faceva portavoce di speranza e cancellava tutto il resto.
 
Le emozioni possono crescere, diminuire, addirittura mutare... e loro questo l’avevano sperimentato, riuscendo in qualche modo a convertire il nero in bianco, tralasciando di proposito tutte le sfumature intermedie. Quella notte non ci sarebbe stato spazio per il grigio, ci avevano passato le loro vite in quella condizione perenne d'incertezza, e il futuro domandava risposte. Le risposte furono cori di sospiri che si mescolavano a baci leggeri, carezze e sguardi limpidi, come limpide erano le stelle che accarezzavano dall’alto la Normandy. Scoprirono di condividere gli stessi atomi, mentre si regalavano pezzi di anima. Nessuno avrebbe potuto custodirli meglio di qualcuno disposto a tutto pur di proteggere ciò che aveva di più caro, e in ciò sapevano di aver fatto la scelta giusta, riponendo se stessi nell’altro. Quando tornarono a guardarsi, dopo lunghi momenti che li avevano visti semplicemente intenti a volersi liberare da ogni corruzione, fu come specchiarsi. Ogni cosa in loro era diversa e li separava, se non ciò che li teneva indissolubilmente legati. E impararono a cercare quella connessione nei rispettivi occhi, trovando tutte le risposte alle domande che non riuscivano a fare.
 
Lei pensò di essere sul punto di piangere, quando lui accarezzò la sua pelle solo con le sue iridi, fermandosi di proposito solo per osservarla. Poté sentirlo chiaramente dentro di lei, quello sguardo che fin dal principio aveva avuto il potere di spogliarla completamente, come se lui avesse sempre posseduto le chiavi della sua anima… quelle che lei aveva imparato a proteggere e a nascondere, credendo scioccamente di esserne l’unica in possesso. E ciò che premeva per uscire dalle sue labbra l’avrebbe confermato, liberandola davvero dagli ultimi brandelli di quel muro che aveva cercato di costruirsi intorno da sempre. Non erano più muri, erano solo calcinacci, macerie… ma dietro di essi lei riusciva ancora a nascondersi, credendo che la solitudine fosse meno dolorosa che affrontare un sentimento così grande come quello che le aveva intrappolato il cuore. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto uscire allo scoperto. Era un soldato, ed era dannatamente consapevole che stare sulla difensiva, a volte, è peggio che lanciarsi all’attacco… ma in quel momento, davanti a due occhi nerissimi eppure incredibilmente cristallini, si sentì spaventosamente indifesa, proprio come se una scarica di fuoco nemico l’avesse appena raggiunta in pieno petto, non lasciandole altro che la tremenda paura che la sua armatura non avesse retto i colpi. Bloccò di netto ogni emozione che la sua mente e il suo corpo le stavano trasmettendo, sapendo che se le avesse lasciate libere di affluire in superficie, avrebbe raggiunto il punto di non ritorno più pericoloso, alla stregua di un meraviglioso salto nel vuoto, uno di quelli che probabilmente non aveva mai compiuto, sempre protetta da qualcos’altro.
“I miei scudi sono a zero”, disse all’improvviso, mentre lui le cingeva i fianchi, assorto a guardarla come se non avesse mai visto niente di più bello.
Il sorriso scomparve dalle labbra di lui, diventando confusione. Le sue mani risalirono lungo la sua schiena, traendola dolcemente a sé, ricercando tacitamente una spiegazione.
“I miei scudi sono a zero quando sto con te. Sono sempre a zero…”, continuò lei, abbandonandosi contro la sua spalla e irrigidendo ogni muscolo, fermando quella marea che lentamente li aveva condotti fino a quel momento. “Potresti stringere le tue mani intorno al mio collo e uccidermi, e io non opporrei resistenza”.
A quelle parole, stonate per essere quelle di un soldato, lui cercò il suo viso, ricevendo in cambio un altro gesto di chiusura che avrebbe rispettato.
“Mi fido di te, come di nessun altro. Ho sperimentato il tradimento, in mille modi… ho sperimentato l’abbandono, ho sperimentato la perdita… Ho sempre creduto che quelli sarebbero rimasti i pilastri della mia vita, gli unici probabilmente… E invece tu… dio, perché è così difficile?”
La sua voce, da malinconica divenne carica di frustrazione, e le sue mani si strinsero intorno alle spalle di lui.
“Non è difficile”, rispose Thane, portando una mano ad accarezzarle i capelli.
“Lo è, invece”, ribatté lei, sottolineando quel concetto con un leggero pugno sulla sua spalla. “Lo è perché tu mi hai sconvolto, mi hai fatto male e mi hai salvata, in modi che io non avrei mai immaginato. Ed è difficile da gestire, è difficile credere che dovrò fare a meno di te… ora che sei così dannatamente indispensabile”.
Thane non rispose, perché non c’era assolutamente niente da dire. Il salto nel vuoto era difficile per lui così come lo era per lei, e se prima erano stati solo goffi tentativi di volare, ora il baratro era così vicino da poterne vedere l’imperscrutabile profondità. Però…
Però non avrebbero dovuto farlo da soli. Avrebbero potuto prendersi per mano e saltare insieme, gioendo entrambi di quell’ebbrezza, prima dell’inevitabile.
“Tu non ti arrendi mai…”, sussurrò lui, quasi contro il suo volere. E non era un’incitazione, era piuttosto una presa di coscienza, una constatazione dei fatti, di ciò che lei era per lui, di ciò che sarebbe sempre stata.
“Lo so, ed è per questo che non farei mai a meno di te”.
Stavolta fu lei a sorridere, sollevando il viso per cercare quegli occhi che l’avevano dilaniata, per poi restituirle la sicurezza di cui lei aveva sempre avuto bisogno. Adesso le lacrime sulle sue guance non sapevano di disperazione, ma di una completa e totale gioia che doveva ancora arrivare, a dispetto di ogni futura conseguenza.
Il bacio che si scambiarono sarebbe rimasto per sempre nella memoria perfetta e imperfetta di entrambi, perché ebbe il potere di disinnescare un meccanismo di autodistruzione da sempre instillato nelle loro anime. E subito dopo iniziarono a raccogliere le emozioni di cui si erano liberati all’inizio, certi adesso che ne avrebbero fatto un mosaico bellissimo, certi che per amarsi non sarebbero dovuti essere due gusci vuoti e solitari, ma due anime piene di tutto che si scontrano per miscelarsi, non per distruggersi.
L’azzurro, quella notte, si accese sulla loro pelle come fiamma viva, tingendo tutto il resto di un colore simile alla speranza, un autentico assaggio di paradiso prima di raggiungere l’inferno.


 
A un'ora e mezza dalla partenza, ho deciso di pubblicare anche il penultimo (o forse no) capitolo di questa storia. Beh, diciamo che dovevo farlo, per lasciarmi meno cose possibili dietro. Da ora in poi c'è soltanto un enorme punto interrogativo davanti a me, e poche, pochissime certezze. Nonostante ancora non ci sia la parola fine, sento di dovervi ringraziare. Proprio perchè quando un capitolo della tua vita finisce, ti aspetti di vedere dei titoli di coda. E nei miei titoli di coda voglio assicurarmi di non tralasciare nulla. Quindi grazie, grazie per le letture, grazie per il sostegno e grazie per il tempo che mi avete dedicato fin dall'inizio... ogni piccola cosa ha un valore inestimabile.
   
 
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