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Autore: LawrenceTwosomeTime    01/03/2014    5 recensioni
L'amore, che cosa meravigliosa! Ma questa storia non parla di amore, bensì di un incontro. E di una misteriosa maledizione che sembra perseguitare il protagonista... realtà o psicosi?
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La conobbe sul treno.

Rincasava dopo una giornata di lavoro massacrante, la mente che ritornava ancora e ancora allo scherzo di Mauro Ruberti, quel panzone senza cervello.
Non l’aveva presa bene e sul momento gli era parso che scagliargli addosso la fotocopiatrice fosse una buona idea. Il capo, che per una volta non si stava intrattenendo nel suo ufficio con qualche pornazzo, aveva assistito all’accaduto e provveduto di conseguenza.
Otto ore di tabulati da ricontrollare, più la promessa di altre sedici a seguire, niente aria condizionata, e il cesso era rotto un’altra volta. Aveva dovuto farla in una bottiglia. Anche quella grossa.

E adesso era lì, sul solito treno stipato come una scatola di sardine, e continuava a ripetersi che quella tirata infernale era finita, che non c’era ragione di rievocarla, che quello si chiamava masochismo; eppure non poteva fare a meno di riviverla, proprio come un insetto non può fare a meno di banchettare con la merda.

E stava dicendo a sé stesso: “Pensa a qualcosa di piacevole perdio, non lasciare che il lavoro si mangi la tua vita”, quando un braccio bianco lo urtò.
“Oh, pardon”

Lei era lì, in piedi come gli altri, e leggeva un libro nella calma più assoluta. Come se non fosse attorniata da decine di completi sudati, strizzata in un oceano di unto e scurregge, come se non ci fosse un domani.
Lo guardò in tono frivolo ma cortese.
“Sa, questo libro mi ha talmente appassionata… quando ho scoperto cosa succede alla protagonista ho fatto un salto per la sorpresa”
Lui la vide per la prima volta. Vide che era bianca, quasi traslucida. Era talmente candida che riusciva a scorgere le ossa al di sotto dell’incarnato. Gli diede un’impressione di purezza e di perversione.
“E che cosa le succede, di grazia?”, domandò cercando di darsi un tono.
Lei parve colpita.
“Oh, ma se glielo dicessi le rovinerei il finale”
“Non leggo molto”
“E allora come mai le interessa?”
“Mi interessa perché interessa a lei”

Lei sorrise. Sembrava indecisa se dargli il benservito o assecondarlo.
“Bè, a dirlo così su due piedi non è niente di eclatante. Niente di che, davvero. È quello che succede durante la storia a dare un valore a ciò che capita dopo”
Lui spostò con delicatezza l’angolazione della copertina per leggere il titolo del libro.
“E insomma, a quanto pare non ho scelta. Devo assolutamente leggerlo”
Lei glielo porse.
“Tenga. Me lo ridarà quando l’ha finito”
Lui lo prese.
“Sale spesso su questo treno?”
“Solo una o due volte ogni duecento anni”

Lui rise sommessamente, anche se non gli riusciva di trovare la cosa divertente. Il biancore di quella ragazza era qualcosa di straordinario, come se fosse fatta di pastafrolla, o latte cagliato. Si domandò perché nessuno sembrava notarla. Poi le chiese il numero di telefono.

Era stata colpa sua, probabilmente. Era colpa sua se lei l’aveva lasciato.
Quattro mesi di pura felicità, e poi lei l’aveva lasciato. Di punto in bianco.
Era pronto a riconoscere che aveva sbagliato, ma c’era comunque da incazzarsi.
Si, insomma, perché?
Sei impossibile, aveva detto lei. Impossibile. Non era decisamente un complimento. E piangeva mentre lo diceva.
A lui sembrava che tutto funzionasse, che ogni cosa andasse bene.
E poi non si spiegava i ricordi relativi a quell’ultima conversazione. Gli sembrava che lei avesse detto molte altre cose – moltissime in effetti – mentre in realtà ne aveva detta solo una. Sei impossibile.
Sei una vescica purulenta e piena di malevolenza, un penoso concentrato di odio. La tua cattiveria è sparsa sul pavimento come vomito di cane. Ho sopportato fino a farmi venire la nausea. Non mi lascerò inquinare dalla tua grettezza, verme.
Ma lei non l’aveva detto; se l’era immaginato lui. Dopotutto era sua abitudine perdersi nei ricordi e ritoccarne una parte, anche se non sapeva fino a che punto, e questo lo spaventava. Decise di dormirci su.

Si destò senza un motivo apparente. Guardò la sveglia. Le tre del mattino.
Gli parve di cogliere un movimento con la coda dell’occhio e abbassò lo sguardo.
Un verme bianco e pulsante si dibatteva sul pavimento; era grosso come un cucciolo di cane. L’uomo lanciò un urlo di puro terrore, accese la luce. Sul pavimento non c’era nulla.
Che incubo, si disse. Quella cosa… sembrava che brillasse nel buio. Di una luce tenue e bianca.
Pensò che valeva la pena di provare a dormire. Spense la luce e ben presto si assopì.
Un corpo freddo e gelatinoso gli toccò i piedi. L’uomo saltò su e gettò via le coperte, gridando di nuovo. Cercò come un forsennato, ma sul materasso non c’era niente. Niente a parte una sottilissima traccia di muco bianco.

Aveva perso l’abitudine di radersi. In ufficio neanche gli rivolgevano più la parola, se non per assegnargli qualche incarico. Cercava di passare meno tempo che poteva in casa. Si lavava il viso e orinava in un vicino caffè, si faceva la doccia solo quando andava in piscina. Non tollerava la pasta, in particolare gli spaghetti.

Un giorno un amico che credeva di aver dimenticato gli propose di andare al cinema. Accettò di buon grado.
Dopo che ebbero comprato popcorn e bibite e si furono seduti il più lontano possibile dallo schermo, la patina di diffidenza si sciolse. Il film cominciò, ma loro erano presi da una discussione molto più interessante. Parlavano di calcio, di automobili, di donne. Il suo amico fece una battuta. Lui scoppiò in una fragorosa risata. Qualcuno gli intimò di tacere.
Non riusciva proprio a smettere di ridere, tanto che dovette asciugarsi gli occhi. Il suo amico mandò a quel paese il malcapitato che aveva invocato il silenzio.
“Questi sono peggio delle suore di clausura”, disse l’uomo.
“Dammi retta, le suore se la spassano più di noi”
Il volto dell’uomo si congelò nella penombra. Quello che spuntava dal colletto della maglia viola del suo amico non era un cranio umano. Era… no. Non poteva essere.
Si alzò in tutta fretta e imboccò l’uscita. Se ne andò talmente di corsa che l’altro non fece neanche in tempo a chiamarlo.
L’aveva visto davvero? Si. Una protuberanza mucillaginosa, senza occhi, con delle antennine bianche e vizze che ammiccavano nell’aria. No.

La sera successiva decise di andare in un pub a ubriacarsi. Scelse quello meglio illuminato e badò che fosse gremito. E bevve. Bevve finché le lampade non parvero piovere giù dal soffitto. Anche i vermi piovevano dal soffitto. Piovevano a fiotti e cadevano nel suo bicchiere con un viscido plop. Lo scagliò contro il muro, venne cacciato in malo modo.
Non c’era nessuno che potesse aiutarlo?

Andò da uno psichiatra. Il problema sembrava misteriosamente scomparso. O quel dottore era veramente bravo, o la sua immaginazione la sapeva lunga.
Stava trangugiando un kebab, chino dietro un separé dell’ufficio, quando Mauro Ruberti fece un’entrata trionfale tirando un rutto poderoso e sedendosi accanto a lui. Nella mano sinistra reggeva un panino giallo e marrone. I vermi strisciavano dentro e fuori, dentro e fuori la carne.
“Senti, Tosi, stavo pensando…”, attaccò Ruberti sputacchiando in giro pezzetti di cibo, “è da un po’ che sembri, come dire, perso. L’avevo capito che non stavi bene, l’avevo capito subito”
“Non è reale non è reale non è reale”, ripeteva lui sottovoce.
“Non preoccuparti per la storia della fotocopiatrice. Anzi, sai che ti dico? Perché stasera non…”
“Ma come fai a mangiare quella roba?!”, strillò l’uomo. L’altro cadde dalla sedia per lo spavento. Poco dopo usciva borbottando: “Tu non sei normale…”

Gli prudevano le orecchie. Per quanto le pulisse, il prurito non se ne andava. A un certo punto si tapparono. Ci infilò dentro un mignolo. Lo ritrasse brulicante di piccole larve bianche.

Gridò, si svegliò nel suo letto sudato fradicio.
Possibile che… ?

Accese la luce. Il letto era fatto di vermi. La coperta era una viscida distesa di bava. Le pareti erano bianche e viscose, si contraevano e si dilatavano. Dal soffitto colava muco.
Svenne.

Quando riprese conoscenza era una domenica mattina. Il mondo era identico a sé stesso, sorprendentemente banale.
Ti basta?, sembrava dire quella normalità di facciata.
Si, mi basta.

Andò in bagno per la prima volta dopo settimane. L’odore che si sprigionava dalla vasca era nauseabondo. Per qualche ragione che non riusciva a spiegarsi, sapeva che quello era reale.
Sei impossibile, aveva detto lei. E lui si era incazzato.
Lei gli aveva dato del verme. Lui aveva detto, sono un verme. E tu sei cibo per vermi.
Il corpo di lei giaceva nella vasca, indistinguibile da quello dei vermi. Non si capiva se la putrefazione del cadavere li avesse attirati o se non fosse stato proprio il cadavere a produrli.

Quello che succedeva alla fine del libro non era niente di eclatante, davvero. Niente di che.
La ragazza se ne andava.

Solo chi aveva letto il libro poteva capire cosa significasse per lui.
  
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