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Autore: OttoNoveTre    03/03/2014    2 recensioni
- Signor Basilio, ehm… - Eustachio gli stava porgendo la maschera – e se si fosse attivato qualche meccanismo che permetteva al pavone di volare? Forse il signor Edoardo…
Basilio, a sentire quel nome, sentì tutto il suo nervosismo concentrarsi su un colpevole ben preciso. Diede a Eustachio una pacca sulla spalla e rimise la maschera sulla testa-manichino.
- Giusto, quel mascheraio c’entra sempre quando succede qualcosa di strano. – afferrò l’assistente per un braccio e lo spinse fuori dalla stanza. – Vai a prendere il tabarro, andiamo a fare una visita.
Genere: Comico, Commedia, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Caravanserraglio venexian






Un coso azzurro e starnazzante gli passò in mezzo ai piedi e si gettò a capofitto nel salone. Basilio, per un pelo, tenne in equilibrio se stesso e il plico di appunti che trasportava.
Peccato non avesse previsto il ragazzino all’inseguimento del coso: si trovò a osservare mestamente, schiena contro il pavimento, i fogli che svolazzavano per il salone.
- Signor Basilio! Oddio sta bene? – il suo assistente arrivò inseguito da tre ulteriori cosi azzurri, al secolo pavoni. Gli occhi dell'assistente e le tre paia di quelli delle maledette bestiacce lo fissarono dall’alto. Basilio si mise seduto sul pavimento e cominciò a raccattare i fogli volanti.
- Stae, perché siamo qui?
Eustachio gli porse una mano e lo aiutò ad alzarsi. - Posso escludere le derive teologiche?  
In risposta alla sua domanda, Basilio emise un gemito. L’assistente lo prese come un assenso, si mise a posto gli occhiali e iniziò con aria professionale: - Il Doge ha ammirato le vostre molte doti e vi ha chiamato al suo servizio a palazzo per l’allestimento della parata di carnevale, cosa per cui…
- Eustachio Zen. Intendevo come diavolo abbiamo fatto a ritrovarci qui a rincorrere dei maledettissimi pavoni! – Basilio diede un calcio a una delle bestie per disperderle, ma quelle si rimisero in branco e li seguirono per il salone, come pulcini con le chiocce. Eustachio lanciava occhiate nervose ora ai suoi appunti, ora alla loro scorta pennuta.
- Beh, a metà corteo è prevista una nave addobbata di rose, sopra la quale la figlia del doge sfilerà con una maschera impreziosita da piume di pavone e per questo attorniata da…
- …sarcasmo, Stae.
- No signore, sono previsti proprio pavoni.
Basilio snocciolò mentalmente alcune sue personalissime litanie mentre recuperava i fogli in giro, solo per scoprire che un pavone ne stava becchettando uno, con aria cattiva.
- Fermati stupido pennuto, quello è l’arco di rose per la figlia del Doge! Stae, dov’è il domatore di queste bestiacce?
L’assistente scattò sull’attenti.
- Lo vado a chiamare subito.
- Bene, se mi cerca qualcuno sono nelle cucine.
Si fece strada tra i pavoni verso il salone del banchetto. La porta si chiuse su Eustachio che tentava di mettere in riga i pavoni, emettendo un chiuchiuchiu di richiamo, ma sembrava più assaltato dal branco che ascoltato con benevolenza.
Basilio si massaggiò l’attaccatura del naso e inspirò qualche volta, percorrendo il corridoio che portava al salone del pranzo, dove un centinaio di persone stava disponendo fiori e argenteria.
- Claro, come va qui?
- Bene! Il signor Baiocchi ci ha messo a disposizione i suoi cuochi.
Il maggiordomo schioccò le dita e una decina di camerieri attorniarono Basilio, porgendogli vassoi di cibo.
- Arrosto buono, la salsa un po’ più agrodolce, pane croccante giusto… questa la chiami faraona in gelatina? Più cipolle nelle sarde! E questo? Ha un gusto interessante…- assaggiò la ditata di salsa densina che aveva preso da un paiolo, trasportato a fatica da un ragazzino. Quello sbiancò quando si accorse del gesto.
- Signore, questo è il pasto delle scimmie…
Basilio sputazzò per tutto il salone.
- Scimmie? – ringhiò. Il cerchio di personale fece qualche passo indietro, probabilmente per evitare le fiamme che gli uscivano dalle narici. – Mi hanno chiamato per dirigere una parata di carnevale o un caravanserraglio? E ADESSO CHE C’È?! – il ragazzino che gli aveva tirato il lembo della giacca fece un balzo indietro e si nascose dietro uno dei cuochi. Basilio si ricompose e cercò di rivolgergli un sorriso cordiale e disponibile. Dall’effetto, doveva essere venuto fuori più un qualche ghigno satanico. – Avanti, ancora non mordo. Potrei farlo se mi dicessi che hanno trasformato san Marco nella stalla per gli elefanti.
- Si-signor Tiozzo – il ragazzino deglutì e si contorse le mani, - c’è stato un problema con la maschera per la figlia del Doge.
- Un problema? – sibilò tra i denti Basilio.
- È… uhm… quando Annetta è andata a controllare, stamattina… ahm… - Basilio si immaginò di scuotere il ragazzino per fargli sputare il resto del messaggio. Quello dovette cogliere il lampo omicida perché sputò fuori tutto d’un fiato: - L’ha vista volare via dalla finestra.
Sulla laguna, nei giorni di novembre in cui si scatena la bora, l’avvento delle raffiche è preceduto da qualche ora di calma piatta, in cui i canali sembrano grosse lastre di vetro plumbeo. I veneziani riconoscono d’istinto questa quiete pericolosa.
Le parole – Ah, l’ha vista volare via dalla finestra – suonarono plumbee come i canali, la voce di Basilio immobile come l’aria che vi aleggiava sopra. – E dimmi, devo intendere “volata via” in senso letterale? Ha spiegato le sue piume di pavone e ha deciso di farsi un giretto?
Al ragazzino era rimasta abbastanza sfacciataggine per balbettare: – E-esattamente così.
- IO TI MANDO A DRAGARE IL FONDO DEI CANALI!

Annetta, una bambina bionda e pallida, era seduta sul bordo del letto a baldacchino, nella stanza trasformata nel magazzino di maschere e costumi. La testa-manichino vuota, che fino a qualche ora prima reggeva la maschera del pavone, era una nota stonata in mezzo al tripudio di stoffe, gioielli e vestiti. Basilio incedeva a falcate da una parte all’altra della stanza.
Eustachio Zen era ritto accanto a una delle colonne del baldacchino e spostava lo sguardo dalla bambina a Basilio.
- Quindi, stavi portando dentro il cesto con la frutta di cera, quando la maschera pavone è – Basilio fece un gesto col braccio come per aiutarsi a pronunciare la parola – volata via dalla finestra.
La bambina annuì: - Si è posata sul campanile. Poi ha cambiato direzione e credo sia andata verso il Canal Grande.
- Giustamente, un pavone persiano avrà voluto godersi le bellezze di Venezia. Lo troveremo a becchettare grano in qualche campo. – Basilio si fermò di fronte ad Annetta – Ora, bambina, se “volato via” è stato un modo carino per dire che hai rotto o rovinato la maschera, è il momento di svelarlo.
La bambina si eresse nella sua piccola ma forte dignità di brava damigella: - Signore, quella era la maschera per la dogaressina Fosca, non mi sarei mai permessa nemmeno di toccarla.
Basilio stava per insistere, quando sentì un vociare concitato fuori dalla finestra: sotto palazzo Ducale, un gruppo di gente indicava il cielo. Basilio guardò in direzione delle dita puntate.
E vide la sua maschera di pavone svolazzare tra le procuratie della piazza: si posò con una planata sul lastricato e zampettò tutta felice in una pozzanghera.
- Visto che non sono una bugiarda? – Annetta si era fatta largo tra lui ed Eustachio e indicava contenta la maschera che faceva il bagno.
- Perdio, prendetemi quell’aggeggio! – Basilio sentì le mani di Eustachio che lo trattenevano sul davanzale, e si accorse che si era sporto fino alla cintola nella foga di attirare l’attenzione. Da sotto lo avevano sentito, un ortolano balzò addosso alla maschera fuggiasca: Basilio trattenne un gemito quando vide le piume inzaccherate e stropicciate dalla presa dell’uomo.
Le mani di Eustachio smisero di trattenerlo perché non cadesse di sotto e, pochi istanti dopo, vide il suo assistente che correva sulla piazza per recuperare la maschera. Ritornò che la stringeva come fosse un neonato: Basilio contò tre piume spezzate, altre stropicciate, e tutto l’orlo inferiore sporco di fango. La voce di Eustachio lo riscosse.
- Signor Basilio, ehm… - Eustachio gli stava porgendo la maschera – e se si fosse attivato qualche meccanismo che permetteva al pavone di volare? Forse il signor Edoardo…
Basilio, a sentire quel nome, sentì tutto il suo nervosismo concentrarsi su un colpevole ben preciso. Diede a Eustachio una pacca sulla spalla e rimise la maschera sulla testa-manichino.
- Giusto, quel mascheraio c’entra sempre quando succede qualcosa di strano. – afferrò l’assistente per un braccio e lo spinse fuori dalla stanza. – Vai a prendere il tabarro, andiamo a fare una visita.

- Signora Masin, non capisco bene il senso di questa visita. Abbiamo mai mancato un mese di affitto?
La signora, una donnetta secchina e un po’ curva, con un fazzoletto annodato attorno ai capelli, evitava di incrociare il suo sguardo.
- Lei mi capisce, noi siamo brava gente, timorata di Dio, e i vicini mormorano… Insomma, so benissimo che la vostra fama di artigiano vi precede e per me è un onore che un tale artista viva sotto il mio tetto, e so che ogni artista ha le sue stramberie, ma… sa, due uomini non ancora accasati che convivono, assieme a una bambina! Capisce bene che si tratta di una situazione un po’ ambigua…
Edoardo sospirò e si pulì le mani dalla pittura. Liberò una sedia del laboratorio, piena di straccetti, e la porse alla signora Masin.
- Grazie, la schiena è sempre un problema… - mormorò la signora. Guardò con molto interesse la vernice che asciugava sulla maschera di fronte a lei. Edoardo scacciò via la gatta nera acciambellata su uno sgabello e ci si sedette, di fronte alla signora. Prima che la schiena diventasse un problema anche per lui, ruppe il silenzio:
- Non mi pare contro la legge avere un collega in affari e un’apprendista. E non mi pare che si sia mai preoccupata del fatto che al quarto piano della sua palazzina abitino signorine che esercitano, diciamo, un mestiere nobile e antico.
La signora Masin sbiancò e lo guardò con astio. – Quello è un laboratorio di sartoria.
Edoardo sospirò – Come vuole. Sta di fatto che non abbiamo mai dato fastidio a nessuno.
- Per carità, signor mio! – la Masin si mise una mano sul cuore – E so che avete accolto la bambina in un gesto nobile e caritatevole, lo sa Dio dove sarebbe adesso altrimenti.
- Probabilmente a fare la sarta… - mugugnò Edoardo, provocando un’altra smorfia di disprezzo da parte della signora. – E comunque non vedo tutta questa ambiguità di cui parlate lei e i nostri discreti vicini.
In quel momento, Jerome entrò nel laboratorio.
- Avevi ragione stamattina: a sforzare è stato peggio, adesso mi fa un male terribile.
Edoardo, che stava per salutarlo, sentì la gola secca e la bocca paralizzata sulla prima sillaba di “ciao”.
La Masin aveva uno sguardo trionfante, anche Jerome dovette notarlo. Di certo notò gli occhi spalancati di Edoardo e il modo in cui gli erano caduti gli occhiali sul naso, senza che facesse una mossa per rimetterli al loro posto. Quindi le parole successive furono crudeltà gratuita: – Signora, buongiorno. È da una settimana che ho un braccio malandato, ma non riesco a tenerlo fermo come dovrei. Non posso fare a meno di usarlo, sa.
La bocca della Masin a ogni parola si stendeva in un sorriso mefistofelico e soddisfatto: guardò Edoardo con tutto il volto che gridava “a-ah!”.
Edoardo rimise in funzione la voce, con la sensazione di dover salvare una barca che stava affondando e solo un ditale per togliere l’acqua: - Jerome, per cortesia, vai a vedere cosa combina Marina, l’ho mandata in campo a giocare. – Mantenne uno splendido sorriso appiccicato in faccia, anche se la voce gli uscì di qualche tono più alta del solito. Jerome annuì, senza cambiare la faccia da schiaffi che aveva mantenuto fino a quel momento. Stava per uscire quando la porta del laboratorio fu occupata da altre due figure. Uno era un omino magro e occhialuto, con un pavone sottobraccio che a tratti gli becchettava i bottoni del gilet; l’altro era Basilio Tiozzo, il maestro di cerimonie del Doge. Aveva in mano una cappelliera e la faccia di chi porta guai.
Perché per oggi non ho ancora sofferto abbastanza.
- Eccola qua, lei! Il suo maledetto uccello ci sta causando un sacco di problemi.
Jerome inarcò un sopracciglio, la signora Masin si impettì tutta indignata, ma sempre sprizzante di maligna soddisfazione; a Edoardo veniva solo da piangere.

La maschera non era da rifare del tutto, ma molte delle piume erano irrimediabilmente rovinate. Edoardo comprese solo allora la presenza del pavone da ascella di Eustachio Zen, l’assistente di Tiozzo. Il maestro di cerimonie aveva occupato la sedia della signora Masin (che se n’era andata borbottando “poi si sa che i francesi sono tutti invertiti”) e batteva il piede con impazienza. Edoardo finì di esaminare la maschera e si tolse gli occhiali.
- Posso rimetterla a posto entro domani. Ma non capisco proprio come abbia fatto a prendere il volo, non ho messo nulla che giustifichi l’uscita dalla finestra e il, ehm, bagno in piazza san Marco.
- Per me può anche sputare fuoco, basta che domani sia sulla testa della dogaressina, e come nuova. Stae, molla qui la bestia e andiamo via. – Tiozzo batté a terra il bastone da passeggio e si rimise il tabarro sulle spalle.
Eustachio Zen guardò il pavone, intento a beccare l’unico bottone superstite del suo panciotto, come se dovesse separarsi da un caro parente. Il pavone smise di beccare il bottone e lo guardò, muovendo la testa a scatti. Edoardo era sicuro di aver visto una lacrima scorrere sotto le lenti di Zen, ma il solerte assistente liberò il pavone in terra, come da comandi.
- Bene, signor Edoardo, le manderò qui Stae domattina alle nove. – Tiozzo si era alzato dalla sedia. – Mi raccomando. Arrivederci signor Jerome.
I due si tirarono dietro la porta. Edoardo la chiuse a chiave e si buttò di nuovo a sedere sullo sgabello. Le piume della maschera pavone, appoggiata sul tavolo della bottega, si muovevano lievi. Il pavone in carne e ossa, invece, aveva cominciato a becchettare per terra. La gatta nera seguiva i suoi movimenti con una serie di ringhi sommessi.
- Qui il pennuto non ci resta – miagolò. – E devi farti perdonare per avermi interrotto il sonnellino pomeridiano.
- Nerina, non ti ci mettere anche tu. Che cosa ti ho detto mille volte? Hai il permesso di parlare…
-…solo dopo il tramonto. Beh, finché l’uccello se ne sta qui, io tolgo il disturbo.
Nerina balzò con grazia dalla finestra e si avventurò per i tetti. Edoardo chiuse anche quella, facendo sbattacchiare gli infissi.
- Cos’è che aveva la Masin da stare qua? – Jerome occupò la sedia che avevano usato sia la loro padrona di casa sia Tiozzo. Edoardo, che stava quasi per dimenticare la visita della padrona, sentì ricrescere il nervoso.
- Se qualcuno non andasse in giro a dire cose equivoche con quella là, non saremmo sul punto dello sfratto ogni mese!
- Bene, la prossima volta le racconterò la verità: “Sa signora, mi sono slogato il braccio cadendo da un’altana, perché le guardie mi avevano sorpreso sul tetto di Ca’ Foscari…” Preferiresti?
- La prossima volta, fammi un piacere e cadi di testa, dal tetto di Ca’ Foscari.
- Oppure la facciamo parlare con Nerina. Forse tra donne bisbetiche si capirebbero meglio. – Jerome girò gli occhi sulla maschera malconcia. - Per fortuna chiunque l’abbia portata via da palazzo Ducale era un idiota: non ha nemmeno rubato lo smeraldo incastonato sulla testa.
- Perché tu l’avresti preso subito, vero? - Edoardo per darsi un  contegno cominciò a pulire le piume imbrattate di fango della maschera. Anche lo smeraldo di cui aveva parlato Jerome era tutto sporco. Inumidì una pezza e cominciò a strofinare.
Sentì una botta sulla fronte.
La stiva di una nave, due facce di uomini intraviste attraverso la trama di un panno, le mani di un terzo uomo, una fitta di dolore, “Selvaggi che incastrano una gemma del genere in un pezzaccio di legno da barca”, una borsa, il cortile di una casa, nero…
- Ehi!
Due schiaffi lo riportarono nel laboratorio. Era a terra, le sue gambe avevano urtato e rovesciato lo sgabellino. Si massaggiò la testa e tastò attorno a sé per ritrovare gli occhiali. Rinforcatili, vide la faccia di Jerome che lo guardava, preoccupato.
- Devo, devo indossare la maschera – era la sua voce? Perché stava parlando? Non aveva dato nessun segnale al cervello perché dicesse una cosa del genere. E alle mani perché afferrassero la maschera e gliela mettessero in testa.
Il cortile di una casa, una stanza elegante con un letto a baldacchino, costumi e manichini, un pezzo di legno scuro solcato da spirali, una voce cavernosa che si fuse alla sua voce:
- “Rivoglio l’altra parte, rivoglio Tuka.”
- Che cos’è che vuoi? – di nuovo la coscienza tornò nel laboratorio e alla voce di Jerome.
- Cosa?
- Rivoglio Tuka.
- Che cosa stai dicendo?
- L’hai detto tu un attimo fa! – Jerome gli tolse di mano la maschera e la appoggiò di nuovo sul tavolo. Edoardo si sentiva la testa leggera, come se fino a un attimo prima un intruso ci si fosse intrufolato, mettendo a soqquadro i pensieri. Guardò la maschera, le cui piume continuavano a frusciare anche senza un alito di vento.
- Da dove vengono i materiali della maschera? – Edoardo porse una mano a Jerome, che lo aiutò a rialzarsi in piedi.
- Dal doge.
- Intendo prima.
Jerome si concentrò un attimo e rispose: - Due settimane fa hanno fatto approdo in riva degli Schiavoni due navi provenienti dalle Indie.
Come la stiva che gli era comparsa in testa. Edoardo riprese in mano la maschera e guardò lo smeraldo: le piume fremettero ancora più forte.
- Ho sentito una voce, in testa, che mi diceva “rivoglio l’altra parte, rivoglio Tuka”.
- Non mi dire, abbiamo tra le mani un artefatto magico. – constatò Jerome.
La maniglia della porta si abbassò qualche volta. Vedendo che la porta non si apriva, qualcuno da fuori cominciò a bussare.
- Ehi, Edoardo, non è orario di bottega questo? Perché è tutto chiuso? – la voce di Marina arrivò, squillante, attraverso il legno.
- Tieni ferma la maschera, che non le venga in mente di fare qualche altro scherzetto. – Edoardo andò ad aprire. Marina era in piedi, con una barchetta di legno in mano.
– Ah, allora eravate… ehi! – la prese per una manica e la tirò dentro, chiudendo di nuovo la porta a doppia mandata. – Che cosa è successo che siete tappati qui dentro? Oh, ma quello è un pavone!
La bestia scaricata nel laboratorio da Tiozzo si era rifugiata sotto il tavolo e guardava tutti con aria arcigna. – Posso toccarlo?
- Per carità, con la fortuna che ho addosso oggi potrebbe essere sacro a Giunone e se gli roviniamo una piuma ci trasforma tutti in ratti.
Marina non gli diede retta. Frugò in tasca e tirò fuori un bussolao mangiucchiato: lo ridusse in briciole e si accucciò ad altezza pavone, porgendo la mano con il cibo.
Jerome, intanto, aveva preso in mano la maschera e guardava dentro lo smeraldo in cerca di indizi.
- Hai detto che ti sono balenate in testa delle immagini, quando l’hai indossata?
Edoardo annuì.
- Ma è quella della dogaressina! È magica, Edoardo? – Marina aveva preso in braccio il pavone e gli grattava la testa, seduta a terra. Il pavone becchettava le briciole.
- Non dirlo come se fosse una cosa divertente. Comunque sì, lo smeraldo sulla fronte l’ha animata e… adesso mi dici che cosa hai intenzione di fare, tu!
Jerome aveva indossato la maschera. La voce che uscì dalla sua bocca era la sua, ma al contempo non lo era.
- “Andiamo a ritrovare Tuka.”

Faceva già caldo per essere febbraio. Jerome inspirò l’aria della notte e guardò in basso le luci del carnevale in piazza san Marco. Era il tempo in cui la città non dormiva per due settimane: da una parte era più difficile portare a termine i suoi incarichi, dall’altra nel resto dell’anno non si sarebbero più ripresentati bottini così ricchi.
Un fremito dalla tasca, dove aveva messo lo smeraldo, lo riportò sull’obbiettivo della serata.
Tuka, palazzo, stoffe, Tuka. Ora. Fretta.
- Un po’ di rispetto, spirito, non si mette premura a un artista.
No lucette, distrazione. Tuka. Fretta fretta.
Jerome diede un pugno sulla tasca e si alzò in piedi sul tetto. Corse leggero sopra le procuratie fino alla torre dell’orologio, proseguì sul palazzo attiguo e, con un’ultima rincorsa, spiccò un salto fino al palazzo del Patriarca. Da lì proseguire fino a palazzo Ducale era un gioco da bambini. Aspettò il rintocco dell’orologio e il cambio della guardia.
Presto presto Tuka?
- Presto presto. Ora, mostrami di nuovo la stanza dove sei stato depositato.
La mente fu invasa di nuovo dalle immagini della stanza elegante con il letto a baldacchino, occupata da costumi e manichini. Conosceva quel letto, l’anno prima quella ragazza, Bianca, lo aveva trascinato lì tentando di capire come recuperare il medaglione di sua nonna. Sistemò la maschera nera sopra gli occhi, alzò il bavero del mantello e, reggendosi con le mani al cornicione, si calò nel cortile interno. Voltò il mantello dalla parte della fodera, ricamata con vedute della città.
- Bel costume, - si era appena cambiato, che una donna mascherata lo superò assieme a un gruppo di amiche. Jerome si inchinò e proseguì verso le scale che portavano al piano superiore e alla stanza con…
Quando Tuka?
- Esattamente in tre minuti. Minuto uno, aspettare sulle scale che ci sia il passaggio delle guardie. Minuto due, percorrere il corridoio sul lato sinistro. Minuto tre, – erano arrivati davanti alla porta, - trovare il passe-partout giusto.
Jerome staccò dalla cintola un mazzo di chiavi: al terzo tentativo la porta si aprì, ma non perché aveva trovato la chiave giusta. Una ragazzina, più o meno dell’età di Marina, fissò Jerome.
Minuto quattro, scappare gambe levate, Tuka?
- Oh sta’ zitto.
- Vi siete perso, signore?
Jerome spinse la ragazzina via dalla porta, entrò nella stanza e si gettò sopra un mucchio di scarti in un angolo. Lo smeraldo pulsava nella sua tasca, si era fatto quasi più pesante. Sotto uno scampolo di stoffa verde qualcosa pulsava, come infuso di luce propria. Jerome afferrò scampolo e oggetto, se li nascose sotto il mantello e si issò sul davanzale della finestra. La bambina era ancora immobile a lato della porta, più sorpresa che spaventata.
- Voi siete… siete l’Ombra delle Calli! – sussurrò alla fine.
- E tu non dovresti chiamare le guardie? – le risposte Jerome, già pronto a saltare.
- Giusto. – la bambina corse nel corridoio. Jerome sistemò il bottino sotto il mantello e planò in piazza, tra le urla stupite di qualche maschera. Corse tra la folla fino alle procuratie, scalò un palazzo e scomparve tra i tetti.

- Quello non è cibo, Gustavo. – Marina rimbeccò il pavone e gli tolse dal becco il calzino di Jerome abbandonato sul divano. – Domani costruisco la tua gabbia in cortile, si vede che qui in casa soffri.
- Domani quel pennuto sarà cotto e servito per cena, altroché. – Edoardo era chino sul pezzo di legno, che stava prendendo la forma di una maschera. La voce cavernosa aveva espresso quel desiderio.
- Ma avevi detto che c’erano ancora piume avanzate e che non serviva usare le sue! – Marina cinse in un abbraccio protettivo il pennuto. – Scommetto che anche lo spiritello dello smeraldo non lo vuole morto.
- Io sì. – Nerina smise di fare toeletta e guardò il pavone con astio. Marina le fece una linguaccia, il pavone emise uno stridio acuto e continuò a farsi coccolare dalla bambina.
Jerome aveva un grosso libro aperto sulle ginocchia.
- Potrebbe essere un djinn, il pezzo di legno e lo smeraldo componevano probabilmente il feticcio tramite cui il djinn è stato vincolato.
- Ovvio, per una volta che il committente della maschera non è un vampiro millenario, a essere stregato doveva per forza essere lo smeraldo. – Edoardo grugnì e diede un ultimo ritocco alle cavità degli occhi. Lo smeraldo sulla maschera pulsò qualche volta, animato di luce propria.
- Beh, non sarà certo peggio di quella volta del pesce e dell’anello. – Jerome chiuse il libro e si mise ad accarezzare Nerina.
Edoardo si asciugò le goccioline di sudore che gli bagnavano le sopracciglia, prese lo smeraldo dal tavolo e lo incastrò nella nuova montatura, al centro della fronte sulla maschera di legno.
Dallo smeraldo uscì una scia di luce verde e dorata assieme, che si avviluppò in spirali prima di prendere possesso della maschera. L’artefatto si librò in aria.
Il legno della maschera diventò verde incandescente, come se l’avessero gettato in mezzo al fuoco. La luce si concentrò negli occhi, che divennero color smeraldo, mentre nelle venature del legno continuava a scorrere la luce, come fossero vasi sanguigni. La maschera strabuzzò gli occhi, sgranchì la mascella e provò qualche smorfia.
- Aaah, molto meglio. Ti sono grato, maestro mascheraio, per avermi restituito un domicilio confortevole.
Lo spirito aveva una voce profonda, che sembrava avere fuse in sé mille altre voci diverse. Marina fissava tutto con gli occhi spalancati, Jerome rimaneva pronto vicino al caminetto. La maschera se ne accorse e rise con la sua nuova voce: - Il fuoco non servirà. Non ucciderei mai coloro verso i quali ho un debito di riconoscenza. – fluttuò a destra e a sinistra, come se lo spirito stesse esaminando la stanza. - Oh, tutt’altra cosa avere due occhi veri. Le sfaccettature dello smeraldo potevano farmi venire il mal di testa, per fortuna non avevo una testa! Ohohohoh.
Splendido, uno spirito fatato con un senso dell’umorismo tutto suo.
- Perché non hai avvertito subito che ti mancava il pezzo di legno, quando sei venuto per la prima volta in casa nostra? – Marina attirò l’attenzione della maschera.
- Dormivo. Mi sono risvegliato pieno di piume e ho pensato di farmi un voletto. Poi mi sono accorto che non avevo più Tuka con me, e proprio allora il pancione collerico mi ha portato di nuovo qui. Mi perdonerai, ragazzo – fluttuò all’altezza del viso di Jerome – per averti rubato la coscienza per qualche tempo.
La maschera posseduta riprese a fluttuare in giro per la casa, sotto lo sguardo del pavone Gustavo e di Nerina.
- Sì sì – la maschera annuì – credo proprio che mi piacerà stare qui.
A Edoardo caddero gli occhiali sul tavolo.
- Stare qui?
- Resti con noi!
La voce squillante di Marina si sovrappose e coprì il suo grido isterico. La bambina scese dalla sedia e afferrò la maschera a volo, stampandole un bacio sulla guancia.
- E tu dì qualcosa! – piagnucolò Edoardo in direzione di Jerome, che si limitò a fare spallucce.
- Credo che, restituendogli la sua dimora, tu l’abbia anche in qualche modo vincolato a te che l’hai creata.
Nerina borbottò: – Vincoli, trucchetti per spiriti scrocconi.

Eustachio Zen era la persona più felice del mondo quando uscì dalla bottega del mascheraio e tornò verso campo san Barnaba, dove lo aspettava la sua gondola. Adagiò sul fondo dell’imbarcazione la maschera riparata (avrebbe giurato che lo smeraldo fosse diverso, il giorno prima), poi ci fece salire il pavone (“si chiama Gustavo”, aveva detto la bambina) a cui non era stata torta nemmeno una piuma.
- Sarai bellissimo sulla barca della dogaressina, Gustavo, - accarezzò la testa del pavone, che gli rispose con una beccata festosa.
Eustachio fece segno al barcaiolo che potevano partire quando, con la coda dell’occhio, vide un uomo e una donna con i capelli fatti di alghe e i vestiti di vecchie tele strappate. Si voltò per osservarli meglio, ma c’era solo una coppia di paesani agghindati per il Carnevale. Stavano confabulando tra loro, le facce rivolte alla bottega del mascheraio.
- Sicuro che sia questo il posto? – la voce della donna suonava distorta.
- È la casa dei Guardiani, impossibile sbagliarsi.
La gondola scivolò sull’acqua fuori dalla portata della voce dei due. Eustachio Zen, ancora nella coda dell’occhio, vide sotto la gonna della ragazza, celata dagli strati di stoffa che di nuovo parevano brandelli di vele, una flessuosa pinna argentea.
Carnevale! Speriamo finisca anche quest’anno.





















La tana di Otto

Questa storia, più di un anno fa, aveva partecipato a un contest, di cui non ricordo il titolo, solo che bisognava parlare di Venezia. Non avevo avuto cuore di pubblicarla allora, perché aveva un pezzo centrale scritto in modo estremamente frettoloso. Adesso va meglio, e quindi ho deciso di pubblicarla prima della fine del carnevale.
Come va presa? Come una sitcom, direi!
Edoardo, Jerome e Marina sono personaggi abbastanza vecchi, riciclati ad hoc per l'occasione.
Godetevi il carnevale!




   
 
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