Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: marguerite_murcielago    04/03/2014    0 recensioni
Fu a causa sua che una notte mi trasformai nella creatura più strana di questo folle universo. Dico “a causa sua”, ma forse dovrei dire “merito”, visto quanto è stato eccitante. E il merito è stato tutto suo, del padrone di casa, infaticabile festaiolo e bevitore agonistico e dannatissimo Dio della macchina - fotografica, da scrivere. Prendeva più le macchine di quanto prendesse le donne.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Cliccami!

 

Fu a causa sua che una notte mi trasformai nella creatura più strana di questo folle universo. Dico “a causa sua”, ma forse dovrei dire “merito”, visto quanto è stato eccitante. E il merito è stato tutto suo, del padrone di casa, infaticabile festaiolo e bevitore agonistico e dannatissimo Dio della macchina - fotografica, da scrivere. Prendeva più le macchine di quanto prendesse le donne.
E sì che di donne ne aveva, eppure non l’ho mai visto amoreggiare come faceva quella pazza di sua moglie... ma, Dio, quanto si amavano quei due! Guardarli era eccitante come prendere un lungo sorso di un cocktail appena creato: come si baciavano! e come ballavano!
Tra le mie vecchie carte ho ancora una foto di loro due sul green. Dio mio, sembrano così sbiaditi e così distanti... il fiato bollente di lui e la risata cristallina di lei... gettarsi tra le braccia di uno dei due era come versare assenzio puro in un bicchiere - fissare per ore e ore quella profondità verde e limpida, essere - e andare - dappertutto e da nessuna parte.

 

Francis Scott Fitzgerald aveva un sorriso assolutamente unico, un modo di arricciare le labbra totalmente intrigante. Sembrava che ridesse di tutti e di nessuno - in definitiva, era un altro segno della sua personalità da equilibrista: il tutto e il niente che si incontravano su un filo teso.
Lo adoravo, lo veneravo e non capivo come potesse aver sposato quella donna dai brutti occhi bassi e la bocca cattiva, che avevo visto solo in fotografia. Caso volle che alla festa a cui ci incontrammo lei fosse dovuta restare a casa per un’influenza.
O almeno, così mi disse lui. Solo più tardi avrei capito che mentiva.
- Una bevitrice di assenzio, eh? - disse, girando la bottiglia per leggerne l’etichetta.
- Solo il migliore.
Il cuore andava a tempo con i passi dei ballerini di charleston. Allungai il collo per guardare alle spalle di Fitzgerald. - Sei solo? - domandai, appoggiando il mento sulla mano.
Lui mi guardò, e allora... Dio, allora le sue guance diventarono rosso scuro e mi guardò con una luce tremolante negli occhi. - Zelda... è malata - rispose a voce bassa, guardando nel mio bicchiere.
Di poche cose mi sono pentita in tutta la mia vita, ma una di quelle fu il non aver capito che quella sera Fitzgerald stava lanciando un grido di aiuto, non a me ma a chiunque avesse voluto ascoltarlo: confortata dall’assenza di sua moglie, non vidi i razzi di segnalazione, non sentii la sirena del naufragio. Lo lasciai affogare.
- Ha... la buffa idea di voler diventare una ballerina e ha... ha preso freddo, credo. Ha la febbre - disse incerto, prendendo un bicchiere dal vassoio che gli porgeva un cameriere.
- Mi spiace molto - risposi.
Fitzgerald bevette lentamente, distrattamente.
Poi m’invitò a ballare.
Mi fece vedere il mondo in maniera del tutto nuova: mi fece notare il turbine variopinto degli abiti e il soffitto a fiori spigolosi, le donne che esibivano sorrisi larghi come i loro giri di perle. - Tutti - mi sussurrò all’orecchio - sono felici grazie all’alcool.
- Anche grazie a te, Fitz - ridacchiai della mia audacia - soprattutto grazie a te.
Lui mi offrì ancora da bere. Quando tornai a casa, nel cuore della notte, ero ubriaca come una scimmia.

 

- Tieni, non la voglio più! - mi gettò in grembo la fotografia, poi riappoggiò la testa sui cuscini e si coprì gli occhi con una mano. Dalla sigaretta che stringeva tra le dita si alzava una spirale di fumo azzurrino.
Beveva troppo, nessuno lo negava, ma non lo si ammetteva nemmeno... eravamo noi stessi il suo muro tagliafuoco perché, lo ammetto, avremmo dovuto puntarlo con un braccio e nascondere l’altro dietro alla schiena per non far vedere che avevamo ancora il bicchiere in mano. Fitzgerald era il nostro campione.
- Zelda? - azzardai, schiacciando con l’unghia il suo viso stampato.
Lui si alzò e mi puntò addosso la sigaretta accesa: - Lo sai cos’ha fatto? Eh, lo sai? Meglio che non ci ripensi, o potrei davvero infuriarmi! - gridò, con la faccia grigia, poi si rassettò i capelli ondulati con la mano libera. - Meglio che non lo sappia nessuno... - mormorò tra sé, gli occhi fissi sul tappeto.
Quando li rialzò capii come potesse sentirsi sua moglie, nel vederli: che dipendesse dalla piega della fronte, dal gesto morbido con cui riavvicinò la sigaretta alle labbra... o dalla fredda leggerezza della sua espressione, che diceva a chiare lettere “Non ho bisogno di te”.
- Passami l’accendino.
Accartocciò la sigaretta nel posacenere e ne accese un’altra. - Tu non morirai vecchio - scherzai, ma lui chiuse gli occhi e annuì con aria consapevole, come se gli avessi detto qualcosa che sapeva già.
- Lo so. Vorrei vivere per sempre, ma - di nuovo la mano alta, ingioiellata di fumo - se ci fosse solo un’infinitesimale possibilità di vivere come se avessi venticinque, ventisei anni per sempre. Invece - abbassò le dita come per dirigere un’orchestra - invecchierò e morirò. Non so chi vorrebbe vivere una volta che la bellezza, la grazia e la giovinezza sono andate.
Poi, senza aspettare una mia replica, mi preparò un bicchiere di champagne. - Da leccarsi i baffi - bisbigliò. Lo mandai giù guardandolo dritto negli occhi. - Vuoi farmi ubriacare? - chiesi, quando lo vidi prepararmene un altro con mano esperta.
- Come se non lo facessimo già per conto nostro.
Non so come facemmo quella notte, a tenere fuori il resto del mondo; certo i fumi dell’alcool aiutarono, perché ci distesero i nervi: a un certo punto mi ritrovai distesa a pancia in giù sul divanetto, nuda come mamma mi ha fatto, e le mani di Fitzgerald, Dio me ne scampi se lo nomino ancora, dove non arrivavano quelle... era tutto molto languido, molto dolce.
Mi mise la bocca sulla nuca, quel gran bastardo, e mi carezzò la schiena.
In un altro momento piansi le lacrime più cocenti della mia vita, farfugliai qualcosa e battei i pugni sul divanetto.
- Tieni la foto... mi piace che l’abbia tu - mi disse Fitzgerald quando fu tutto finito.

 

Dio... questa è l’ultima volta che ti tiro in ballo, giuro... essere governata dalle sue mani... quanto piansi il giorno dopo e il giorno dopo ancora e tutte le notti per un mese e tutte le feste per un anno! Lo vedevo nella sua vestaglia orribilmente bella che usciva dalla stanza e si chiudeva la porta alle spalle, tenero, intimo. E poi scendeva, andava a casa da sua moglie.
Di sotto l’orchestra suonava le ultime, malinconiche note: la festa era finita e mi vedevo rimanere su quel divanetto, in quella stanza scura. E poi mi alzavo, andavo alla finestra mezza nuda, guardavo la sua macchina slittare sul vialetto, persa in fondo alla notte.
Per quello c’era da piangere: per quello che aveva fatto la notte prima, oltre che aver scopato una sconosciuta: per come mi aveva guardato sulla porta, intimo e tenero e con il viso rosso scuro. Ancora quel suo grido e quella volta provai a dirgli: - Fitz... - ma lui aveva già chiuso la porta e non servì a nulla, perché era già troppo tardi, forse lo era stato già quando mi aveva invitato a ballare.
La mattina dopo, era su tutti i giornali. Zelda Fitzgerald impazzita. Malata. La moglie del famoso scrittore. Crisi di nervi. Li comprai tutti. Li misi in un baule insieme alla loro foto e lo chiusi a chiave.
Rimasero lì: non volevo averci più niente a che fare, non volevo il fiato di Francis Scott Fitzgerald sul collo, non volevo sapere nulla di quella sciacquetta di sua moglie e della figlia che lui chiamava Scottie.
Esistevano, certo; gli amici in comune mi raccontavano di liti furibonde, di bevute, di romanzi che non vendevano - e che finivano nel mio baule, dopo che ne avevo prosciugato ogni parola.

 

- Pronto?
- Sono io.
- Fitz...
- Non pensavo di chiamarti.
- Sei ubriaco.
- Come se non lo fossimo già tutti.
- Mi fai pensare a Gatsby, quando dici che le ragazze gli versano lo champagne nei capelli e lui non fa niente. Perché non sei così, Fitz?
- Vorrei esserlo... vorrei cambiare.
Non era vero. Era quello che mi aspettavo accadesse quando squillava il telefono, ma sapevo che lui non ci pensava, a me, a nessuno tranne che a sua moglie! E la linea da qui a Los Angeles rimase silenziosa finché non mi chiamarono per invitarmi al suo funerale - a cui non andai. Ripresi la foto dei coniugi Fitzgerald sul green e chiesi un bicchiere d’assenzio - essere - e andare - dappertutto e da nessuna parte.

 

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: marguerite_murcielago