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Autore: Lynn Lawliet    05/03/2014    1 recensioni
Con la coda dell’occhio Jean notò che Armin lo osservava con aria concentrata. L’espressione era quella di quando stava per partorire una qualche perla di saggezza delle sue.
«Jean – borbottò infatti dopo poco – Cos’è che cerchi?»
«Niente.»
«Non è vero.»
«Sì che è vero.»
«No che non lo è. Perché altrimenti verresti qui tutte le domeniche?»
«Forse mi piace pattinare.»
Armin fece una piccola risatina.
«Oh, andiamo. Tu odi pattinare. Sono venuto qui con te quattro volte e non sei sceso in pista nemmeno per cinque minuti.»
Genere: Generale, Sentimentale, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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TUTTO ARRIVA A CHI SA ASPETTARE.


Volava. Volava.
Non c’era un altro verbo per descriverlo. Era aggraziato, elegante, forte e volava.
Volava sul ghiaccio, rapido e preciso, senza il minimo cedimento e con un sorriso sul volto lentigginoso. E non un sorriso finto e doloroso, di quelli che fanno le ballerine quando danzano sulle punte. No, lui sorrideva perché era felice, perché era dove doveva essere, perché pattinare era la quintessenza di quel che voleva dalla vita.
Era ovvio, o non avrebbe sorriso così.
E poi, Dio, era così bravo. Saltava tanto in alto che ogni volta pareva tentasse di raggiungere il cielo. Jean non sarebbe riuscito a staccargli gli occhi di dosso neanche se avesse voluto. E, decisamente, non voleva.
Quando la musica era finita e il ragazzo si era inchinato al pubblico del palazzetto -cosa successa decisamente troppo presto- Jean aveva fatto in tempo a scorgere sul tabellone, prima che l’immagine cambiasse, solo un nome: Marco Bodt. Lui si chiamava Marco Bodt.

E chi se lo immaginava che anche gli angeli avessero nome e cognome?
 
 

Tre mesi dopo.
 
Jean percorse con gli occhi la pista per l’ennesima volta.
Vide Mikasa che pattinava tranquilla e padrona della situazione. Vide Connie e Sasha che si rincorrevano scatenando scompiglio e travolgendo qualcuno ogni trenta secondi. Vide Eren che non riusciva a reggersi in piedi e tentava di aggrapparsi ad Armin, probabilmente lanciando epiteti poco eleganti, considerate le occhiate scandalizzate che gli scoccavano i genitori presenti prima di coprire le orecchie ai figli.
Vide un mucchio di persone, ma lui non c’era nemmeno quel giorno.
Era stupido, davvero stupido, venire lì – e pagare il biglietto – per poi starsene seduto ad osservare la gente pattinare senza concludere nulla. Ma Jean non poteva farne a meno, in qualche modo. D'altronde eri lì che lo aveva visto la prima (e unica) volta, e se aveva anche solo una misera possibilità di incontrarlo, il posto giusto era quello.
Marco Bodt.
Ormai era parecchio che Jean tentava di autoconvincersi di non essere ossessionato da lui. Ma, checché ne dicesse il suo orgoglio, decisamente, lo era: da quando quel giorno, durante l’esibizione di pattinaggio artistico a cui era stato costretto ad accompagnare sua sorella, lo aveva visto pattinare non riusciva a pensare ad altro che al volerlo vedere di nuovo sul ghiaccio. Era magnetico, e Jean non capiva il perché. Quel che gli era successo, poi, era da considerarsi ancora più strano visto il fatto che Jean odiava il pattinaggio, quello artistico in particolare. Roba da signorine, liquidava di solito; e durante lo spettacolo si era annoiato tutto il tempo, prima di Marco. Però, chissà perché, lui aveva qualcosa di speciale. Qualcosa che lo spingeva, come un’idiota, a piazzarsi al bar del palazzetto del ghiaccio tutte le domeniche pomeriggio, a volte da solo, a volte con qualche amico, con il sedere sempre più gelato e la speranza sempre più flebile. Perché, naturalmente, non si sarebbe mai sognato di mettersi a pattinare, rischiando di cadere e rompersi l’osso del collo. O, ancora peggio, fare una terribile figuraccia proprio nel momento in cui, vista la sua fortuna, Marco Bodt si fosse deciso a comparire.
Jean si era chiesto spesso chi fosse Marco. Non sapeva assolutamente nulla di lui, se non quel che aveva appreso da internet, ossia che aveva la sua stessa età, era per metà belga e per metà inglese, e si poteva di comun accordo considerare la punta di diamante della squadra di pattinaggio artistico maschile di Oxford. Secondo pattinaggio_oggi.com, poi, la sua partecipazioni alle prossime olimpiadi invernali era da dare quasi per certa. Ed era sicuramente tutto molto interessante, si diceva Jean, ma di quel che importava a lui – quello che gli importava per davvero – non si trovava nulla. Niente facebook, niente twitter, nessuna informazione su che scuola frequentasse, su cosa facesse nel tempo libero o, più in generale, su che tipo di persona fosse. Sembrava quasi che volesse limitare al minimo la pubblicità. Jean c’era rimasto male, ma, infondo, non poi così tanto; per un qualche motivo non aveva bisogno di prove per sapere quanto Marco fosse una brava persona: nella sua testa risultava ovvio il fatto che qualcuno così speciale fosse automaticamente anche simpatico.
D’altro canto, però, Jean aveva potuto passare parecchio tempo a guardare e riguardare i video delle sue esibizioni, vista l’incredibile quantità presente su you tube (il suo preferito era quello con la quinta di Beethoven, con cui Marco si era guadagnato l’argento ai nazionali due anni prima).
Ma ancora non gli bastava. Voleva vederlo di nuovo, dal vivo. Voleva che lo rapisse come aveva fatto la prima volta. Voleva sentire il chiasso della folla farsi ovattato nelle sue orecchie, il cuore accelerare i battiti e gli occhi sgranarsi per la sorpresa. (anche se, a dirla tutta, non aveva idea di cosa avrebbe esattamente fatto se Marco Bodt fosse effettivamente comparso all’improvviso. Sarebbe scappato a gambe levate senza rivolgergli la parola, probabilmente).
E così aveva iniziato a venire al palazzetto ogni volta che poteva. Però era inutile e Jean se ne rendeva conto. Già una settimana prima si era detto che non sarebbe venuto più; eppure eccolo lì, di nuovo con le dita congelate e il morale a terra. Jean fece in tempo a darsi dell’idiota solo un’ultima volta prima che la voce familiare di Armin, benvenuta a distrarlo almeno un po’, penetrò la nube di pensieri cupi che si era cucito attorno.
«Ehi!» il ragazzo si sedette accanto a lui e gli regalò un sorriso, strofinandosi le dita per scaldarle. A quanto pareva aveva lasciato Eren ad imprecare attaccato al bordo della pista.
«Ehi.»
«La bevi quella?» Armin indicò la cioccolata calda sul tavolo, che ormai doveva essersi raffreddata.
«No.»
«Ok – il ragazzo afferrò la tazza e squadrò Jean per qualche secondo, quasi si aspettasse di essere fermato - Certo oggi non sei di troppe parole…»
Jean si produsse in un grugnito neutro e tornò con lo sguardo alla pista. Con la coda dell’occhio, però, notò che Armin lo osservava con aria concentrata. L’espressione era quella di quando stava per partorire una qualche perla di saggezza delle sue.
«Jean – borbottò infatti dopo poco – Cos’è che cerchi?»
Accidenti a quel ragazzo, era davvero troppo intelligente. Sapeva leggere le persone come gli altri leggevano i libri: da un semplice sguardo capiva esattamente che ti stava passando per la testa. Jean ebbe anche la spiacevole sensazione che si fosse trattenuto dal chiedergli chi stesse cercando.
«Niente.»
«Non è vero.»
«Sì che è vero.»
«No che non lo è. Perché altrimenti verresti qui tutte le domeniche?»
«Forse mi piace pattinare.»
Armin fece una piccola risatina.
«Oh, andiamo. Tu odi pattinare. Sono venuto qui con te quattro volte e non sei sceso in pista nemmeno per cinque minuti.»
Era vero. Era dannatamente vero. Tanto valeva dirglielo, l’avrebbe comunque scoperto prima o poi, visto il cervello fuori misura che si ritrovava. Jean sospirò pesantemente.
«C’è una persona che ho visto qui una volta. Fa pattinaggio. Ed è… sensazionale.»
Armin sorrise di nuovo, comprensivo.
«Se questa persona l’hai incontrata per caso non so quante possibilità ci sono che…-»
«Lo so – lo interruppe Jean – e solo che non so come altro fare.»
«Già, beh, tutto arriva a chi sa aspettare, no? – Armin si stiracchiò con un sorrisetto sulle labbra e si alzò– Ti lascio ai tuoi problemi di cuore.»
Poi, ignorando lo sguardo scioccato di Jean, si avviò verso la pista. Tornò indietro quasi subito, però, e gli ficcò la tazza di cioccolata fra le mani, strizzando l’occhio destro.
«Mi sa che questa serve più a te che a me.»
Quando Jean si riebbe dalla sorpresa l’amico era già lontano. Allora si chiese che intendesse Armin con “problemi di cuore” ed escluse a priori l’ipotesi più probabile. Perché Armin, per quanto intelligente fosse, non poteva aver capito qualcosa che nemmeno lui sentiva. Era ridicolo. Però su una cosa aveva ragione: era inutile cercare Marco Bodt lì. Non lo avrebbe mai trovato, ora che aveva l’opinione di qualcun altro ne era sicuro.
Questa è l’ultima volta che vengo, si disse.
Però, e Jean lo sapeva benissimo, “è l’ultima volta” era la stessa identica cosa che si era detto la volta prima. E quella prima ancora. E tutte le volte prima di quelle due.
 

«Kirstein! Kirstein, sei ancora tra noi?»
Jean sobbalzò a sentirsi improvvisamente chiamato dal professore di chimica, che lo squadrava dalla cattedra.
«S-Si…»
«Ottimo. Allora vuoi per favore dirci cosa otteniamo mettendo a reagire tre moli di ipoclorito di sodio con due d’acqua?»
«Ehm, ecco, l’ipoclorato è...»
«Ipoclorito.»
«Già, sì… »
Fortunatamente, ci pensò la campanella a salvarlo. Jean raccolse rapido le proprie cose e uscì dalla classe sotto lo sguardo severo del professore. Perfetto, si ritrovò a pensare avviandosi a pranzo, un altro insegnate che mi odia. Non era da lui. Decisamente, non era da lui distrarsi in classe e arrivare impreparato ad un’interrogazione. Tutta colpa di Marco Bodt e dei suoi stupidi tripli toe-loop, o come accidenti si chiamavano. Jean avrebbe potuto passare ore a rivedere nella sua testa, sequenza per sequenza, ogni singolo movimento che gli aveva visto fare. Prima che si estraniasse di nuovo, però, un braccio che, vista la statura scarsa e il taglio corto del proprietario, riconobbe come appartenente a Connie Springer, gli si strinse intorno alle spalle.
«Ehi, Jean. Reiner dice che hai appena fatto una gran bella figura di merda a chimica.»
«E se anche fosse?» borbottò Jean irritato, mentre l’amico scoppiava a ridere. A quanto pareva le notizie viaggiavano in fretta.
«Comunque – disse Connie mentre raggiungevano la mensa e prendevano posto al solito tavolo – ci vieni al cinema ‘sta sera? Danno Il ritorno dello Jedi in versione restaurata.»
Veramente una parte di Jean sperava di trovare un po’ di tempo per fare un altro salto alla pista di pattinaggio, ma, come ricordò a se stesso, ormai ci aveva rinunciato e non aveva senso perdersi una serata con gli amici per non ottenere un bel niente.
«Certo.»
«Bene. Vengono Sasha, Armin e Eren. Anche Mikasa, ovviamente. E Ymir, che porta la sua nuova ragazza.»
«Ymir ha una nuova ragazza?!» Jean per poco non si strozzò con la coca che stava bevendo. Lo sorprendeva sempre quanto Ymir, a dispetto suo, fosse a suo agio e completamente esplicita riguardo alla sua sessualità. Cosa che gli fece spiacevolmente tornare in mente che ancora non aveva fissato una data per dire ai suoi genitori, come aveva già fatto con gli amici, che trovava quello che i ragazzi avevano nelle mutande attraente quanto quello che avevano le ragazze.
«Già. Dicono sia una bella biondina. Si chiama Christa.Speriamo sia sexy.»
«Speriamo sia simpatica, Connie.» intervenne Sasha sedendosi al tavolo, per poi tirare una gomitata all’amico.
Jean ridacchiò tra sé e sé.
«Speriamo duri più delle altre, piuttosto.»
La serata, tutto sommato, si prospettava divertente.
 

Christa Lenz era in ritardo. E a Ymir la cosa non andava a genio. Però, al contempo, qualcosa nei suoi occhi faceva intuire quanto, sotto la solita aria da sbruffona, fosse felice. La cosa era resa ancora più chiara dal fastidioso fatto che da più venti minuti ciarlava a macchinetta della fantomatica Christa, di come erano belli i suoi capelli, di quanto era gentile e di come desse un nuovo significato alla parola tenero quando tentava di afferrare qualcosa al di fuori della sua ben misera portata. Jean già da parecchio aveva spento il cervello, lasciando che quel che gli entrava da un orecchio uscisse automaticamente dall’altro, quando captò nel monologo di Ymir un elemento interessante.
«E poi – disse la ragazza – dovreste vederla sui pattini. È incredibile quanto è brava. Beh, non per niente fa parte della squadra agonistica di pattinaggio artistico.»
Il cuore di Jean perse un battito.
«Pattinaggio artistico? Qui a Oxford?!»
Ymir lo guardò sorpresa.
«Sì. Sì, esatto.»
«Vuoi dire che conosce Marco Bodt?»
«Chi? E che ne so io?»
La speranza di Jean, che per un attimo si era ridestata dal torpore in cui era caduta ultimamente, si abbassò al livello delle sue scarpe.
«Comunque – continuò però Ymir – è strano che Christa sia così in ritardo: di solito è puntuale. Sarà colpa del tizio che ha detto si sarebbe portata dietro. È un suo amico di pattinaggio, dice. Scommetto che è un coglione.»
E l’aspettativa di Jean tornò a crescere con un’impennata degna di medaglia olimpica. Poi si rese conto di quanto era irrealistico era, non solo che Christa, nonostante fosse anche lei una pattinatrice, conoscesse Marco, ma addirittura fosse sua amica e lo invitasse al cinema con la sua nuova ragazza. Si impose quindi di non sperarci nemmeno.
Poi, però, il tram al di là della strada rallentò sferragliando alla fermata, e ne scesero solo due persone. Jean fece in tempo a immaginare che la biondina bassa che scorgeva in lontananza fosse Christa Lenz (anche grazie al verso d’apprezzamento di Connie al conseguente gemito di dolore provocato dal pugno che doveva avergli dato Ymir) prima di notare il ragazzo moro e dalla figura familiare che era con lei. Figura molto familiare.
All’improvviso gli tornarono in mente le parole di Armin alla pista di pattinaggio: tutto arriva a chi sa aspettare.

Chissà, si disse Jean mentre un nodo gli attanagliava le viscere, che per una volta nella sua vita non fosse proprio così.
 

 
Noticina dell’autrice che scrive più veloce che può perché non ha tempo e deve finire il tema di storia:
Salve, popolo! Tanto per cominciare, mi do da sola il benvenuto su questo fantastico fandom su cui non ho mai pubblicato nulla non ho idea del perché. Ora, dovete sapere che questa fic necessita di una spiegazione: qualche tempo fa, vagando senza meta su tumblr, sono incappata in questa meravigliosissima immagine:
http://kimiooon.tumblr.com/post/76764321389
da cui ho scopiazzato la storia a cui mi sono ispirata. Sotto c’era scritto “I wish I could write fanfictions”, così io, presa da una smania improvvisa e visti il mio passato e presente di pattinatrice, ho proclamato ad alta voce “Well, I can! (… cioè, ‘nsomma, ci provo…)” ed ecco il risultato. Spero che vi piaccia almeno un pochettino.
Pregando Iddio e tutti i santi che non sia troppo OOC,
Lynn
p.s. In caso ve lo steste chiedendo, sì, la storia è ambientata ad Oxford. La scelta è caduta su questa città per motivi logistici (non è ne troppo grande ne troppo piccola ed ospita un college prestigioso) e motivi affettivi (è la città in cui sono nati J.R.R. Tolkien e Philip Pullman… e anche Mr Bean a quanto pare ma non questo il punto). Giusto per farvelo sapere, i personaggi hanno all’incirca 16-17 anni, direi.
p.p.s. il rating è essenzialmente dovuto alla boccaccia linguacciuta e maleducata di Jean.

 
  
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