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Autore: Princess of Dark    05/03/2014    10 recensioni
Per Sara la vita in casa Wilson non è facile perché ogni giorno deve scontrarsi con i suoi fratellastri:
Alexander, di cui un tempo è stata segretamente innamorata e che sembra provare disgusto nei suoi confronti, il sadico Darren che si diverte a stuzzicarla di continuo, il piccolo Jeremy completamente pazzo di lei.
Ma tutto cambia alla morte del padrino, quando per ricevere l'eredità i fratelli sono costretti a rispettare un'impossibile clausola...
Dalla storia: "Alexander era completamente diverso da me e insieme eravamo del tutto sbagliati.
Eravamo come due colori bellissimi che insieme stonano.
Alexander ed io avevamo in comune solo una cosa: il cognome."
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Un momento di attenzione! (?) 
Non so per quale motivo ma quando si clicca sulla storia inizia dal primo capitolo... in realtà c'è un prologo ancora prima di questo che state visualizzando, quindi leggete prima quello!! 


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Era da un quarto d’ora che fissavo dinanzi a me l’abitazione dei Wilson, con il capo reclinato all’indietro per guardare interamente l’enorme edificio. Non riuscivo a muovere un solo muscolo mentre percorrevo con lo sguardo le venature marmoree delle colonne che sorreggevano il timpano dinanzi alla porta d’ingresso, seguite da altrettante colonnine che andavano a formare un piccolo porticato di lato che ospitava delle poltroncine di pelle, posando lo sguardo sulle grandi finestre scure dalle quali era impossibile riuscire a vedere qualcosa.
Dietro di me il cancello automatico si era già chiuso e avevo percorso un viale ai lati del prato perfettamente curato, fino ad arrivare davanti alle poche scalinate che portavano alla porta principale.
La casa, circondata dall’immenso verde e dagli alberi, sembrava immersa in un universo parallelo, in una completa armonia e tranquillità che erano sfuggite ai miei ricordi.
Erano cinque anni che non tornavo qui, eppure la casa sembrava aver perso quella nota di vivacità che regnava un tempo, diventando un pezzo estraneo alla vita stessa di chi abitava nelle sue mura.
Dopotutto, la sua serenità sembrava non essere stata corrosa minimamente dal lutto al suo interno, il motivo per cui mi avevano strappata dalla mia vita a New York.
Forse dovevo l’intera vita al mio padrino, conservavo per lui un incondizionato senso di gratitudine per essere stato l’unico uomo capace di rendere mia madre una donna felice e per avermi trattato come se fossi sua figlia. Era grazie a lui se non vivevo una vita miserevole, se avevo sempre avuto tutto ciò di cui avevo bisogno, i vestiti alla moda, il medico privato quando mi ammalavo, il giocattolo nuovo quando iniziava a essere pubblicizzato, un posto dignitoso in una delle agenzie pubblicitarie più importanti del mondo.
Eppure non riuscivo a trovare il coraggio di entrare in quella casa.
Avevo già pianto a sufficienza quando avevo ricevuto la notizia della sua morte e non mi ero presentata al funerale per evitare che tutta quella cattiva gente di cui si era circondato mi accusasse per averlo abbandonato, per essere andata via di casa e averlo fatto ammalare di tristezza.
Ma soprattutto non volevo entrare in quella casa perché l’avevo giurato a me stessa quando cinque anni fa andai via, quando mi promisi che nulla di quel posto avrebbe mai più potuto farmi del male, quando scappai via da lui.
Il motivo per cui non volevo entrare aveva un nome: Alexander Wilson, il mio fratellastro.
«Signorina Wilson, cosa ci fa lì impalata davanti alla porta?». Una voce familiare mi fece sobbalzare, distraendomi dai pensieri che si andavano a diramare sempre di più, convincendomi ad andare via prima che potesse essere troppo tardi. Cioè adesso.
«Agatha!», esclamai sorpresa, quando mi voltai e vidi una donna magrolina sulla cinquantina che indossava un’uniforme nera e mi guardava con i suoi occhi vispi e il volto sempre sorridente, stringendo tra le mani un vaso colmo di fiori colorati. La abbracciai forte, avvertendo il profumo del suo shampoo alla camomilla che non aveva mai smesso di usare.
Agatha l’avevo sempre ricordata come mia migliore amica. Lei non era soltanto la domestica che si prendeva cura della casa, ma era anche colei che, dopo la morte di mia madre, si era presa cura di me quando mio padre aveva deciso di adottarmi e tenermi con sé. Agatha, assieme a mio padre, erano le uniche persone di cui mi ero sempre fidata incondizionatamente.
Un tempo c’era stato anche Alexander, ma era durato poco, prima che potessi scoprire la sua vera natura… e per fortuna non sono stata così sciocca da non accorgermene.
«Diventa sempre più bella, Sara. La sua mancanza è stata quasi palpabile», sorrise la donna, tirando un sospiro e portando una ciocca dei miei capelli castani dietro l’orecchio.
«Quante volte devo dirti di darmi del tu? E mi sei mancata anche tu», sorrisi malinconica, indietreggiando per farle spazio mentre saliva le scalinate e apriva la porta d’ingresso. La guardai esitante, allungando il collo per sbirciare all’interno.
«Non vuoi proprio entrare, eh?», disse quando si voltò.
Avanti, Sara, hai passato una settimana intera a riflettere sulla tua decisione. Salii controvoglia le scale, incrociando lo sguardo di Agatha che aspettava pazientemente che mi decidessi a entrare. Giusto il tempo di firmare tutti i documenti e potrò andare via.
L’interno della casa mi fece tutto un altro effetto: se dall’esterno avevo avuto la sensazione che la casa levitasse su una nuvoletta di serenità ora ero quasi sicura che l’aria fosse densa di malinconia, trascuratezza, di quel lutto che avevo vissuto a chilometri di distanza. Era un’atmosfera pesante, la sentivo quasi schiacciarmi.
Non era stato toccato nulla, era esattamente come la ricordavo: un’area circolare piena di gingilli, palme nane, statue e ritratti, ornata di poltrone e mobilia dal gusto antico, costantemente illuminata dalle grandi finestre che Agatha teneva socchiuse.
Regnava un silenzio disumano, disturbato soltanto dal ticchettio del grande orologio a pendolo appeso alla parete. Segnava anche un’ora dietro, o forse era sempre stato rotto, ma ricordavo che piaceva parecchio a papà.
«Andiamo?». Agatha richiamò la mia attenzione e quando annuii aveva già lasciato l’ingresso per inoltrarsi nei corridoi, con la convinzione che la stessi seguendo.
Mi lasciai alle spalle la stanza per seguirla con passi incerti e le gambe tremanti che minacciavano di smettere di funzionare da un momento all’altro.
Ero in casa da due minuti e mi sentivo già soffocare da quel grosso macigno che si era messo sullo stomaco. C’era troppo silenzio, troppo buio, troppa tristezza ed io avevo impiegato tanto tempo per poterla finalmente dimenticare. Forse ho sbagliato a tornare qui.
«Non c’è nessuno in casa?», chiesi esitante, alzando leggermente la voce affinché la donna mi sentisse. Una parte di me lo sperava davvero, avrei preferito che la casa fosse stata abbandonata e dimenticata dai miei fratellastri, che avessero già progettato di venderla o che addirittura avessero già firmato un contratto che la rendeva proprietà di qualcun altro.
«Certo che no, ti stanno aspettando nel salotto», mi rispose in tutta naturalezza, fermandosi poi dinanzi alla porta socchiusa. A confermare le sue parole c’era il leggero chiacchiericcio che arrivava fino alle mie orecchie e avvertii subito un’altra fitta allo stomaco.
Non mi andava di rivedere la sua faccia, non mi andava di tornare a discutere con tutti loro.
Agatha sembrava ignorare i miei stati d’animo, anche se dal suo modo di guardarmi sembrava provare pietà nei miei confronti, e aprì la porta, facendomi cenno di aspettare.
«La signorina Wilson è arrivata», annunciò.
«Sara è qui?!». Mi arrivò all’orecchio un’altra voce familiare e due secondi dopo fece capolino dalla porta un ragazzo alto che a primo impatto non riconobbi.
«Non ci credo!», esclamò ridendo, poggiandomi le mani sulle spalle. Tutto a un tratto mi vidi scorrere davanti agli occhi immagini della mia infanzia passata con lui e lo guardai sorpresa, chiedendomi com’era possibile che quel ragazzino amorfo fosse passato dall’essere un bruco a una meravigliosa farfalla.
«Ehi, Jeremy non… non ricordavo fossi così alto», mormorai impacciata, prima che potessi emettere un gemito quando mi portò bruscamente la testa al petto per stringermi in un abbraccio soffocante.
L’ultima volta che avevo visto Jeremy aveva tredici anni, portava l’apparecchio, aveva l’acne giovanile ed era più basso di me. Ora invece mi ritrovavo stretta tra braccia muscolose da un ragazzo alto una decina di centimetri più di me, dai capelli castani elegantemente pettinati all’indietro e un sorriso buffo che andava ad allargarsi sempre di più.
«Sono felice di rivederti, sorellona», fece entusiasta e i suoi occhi azzurri brillarono dalla gioia.
Jeremy era il più piccolo della famiglia, nato dal secondo matrimonio di papà assieme a Darren, ed era sempre stato quello più “coccolato”.  Più piccolo di me di tre anni, era in certo senso il preferito della mamma, anche perché era l’unico che aveva accettato fin dall’inizio che venissimo a vivere con loro e ci considerava la sua vera e propria famiglia. Aveva avuto anche un debole per me, ma probabilmente era perché stava diventando grande anche lui e aveva confuso l’affetto con l’amore: non ci avevo mai dato molto peso, anche perché erano anni che non mettevamo in mezzo questo discorso.
Sì, ogni tanto ci sentivamo, Jeremy mi chiamava per il compleanno, il Natale, pasqua e per ogni volta che gli serviva un consiglio su una ragazza o semplicemente su cosa preparare per il pranzo e rivederlo mi aveva messo di buon umore.
Forse sarei riuscita a sopravvivere alla vista di Alexander e Darren.
«Dobbiamo aspettare ancora molto?!». Una voce non tanto gradevole quanto quella di Jeremy mi fece irrigidire di colpo, ricordandomi perché ero lì. Era la voce di Alexander, l’avrei riconosciuta tra mille.
Jeremy sbuffò e mi fece cenno con capo di entrare in stanza.
Si tratta soltanto di un’ora, al massimo due, poi sarò di nuovo su un aereo verso casa. Non morirò per un’ora, no?
Misi piede nel salotto e avvertii subito su di me gli occhi di diverse persone. Seduto alla scrivania c’era un uomo dai capelli brizzolati e l’espressione calma, intento a scrutarmi da dietro i suoi occhiali da vista mentre estraeva dalla valigetta una cartellina di cartone. In piedi e appoggiato con la schiena contro la finestra in fondo alla stanza c’era Alexander.
Indossava un completo azzurrino sopra una camicia bianca, teneva le braccia incrociate in un gesto di diffidenza e aveva le spalle rigide. Alexander era il fratello maggiore, figlio della prima moglie di nostro padre, ed era l’unico ad avere i capelli biondi in famiglia. Sebbene tutti i figli avessero ereditato gli occhi azzurri di papà, i suoi non esprimevano altro che rigidezza, razionalità e compostezza, come se fossero del nero più buio e tenebroso.  Un tempo quegli occhi erano stati i più dolci del mondo, avevano saputo incatenarmi a lui fino a farmi cadere miseramente ai suoi piedi.
E fu così che mi ritrovai nuovamente a rivivere la storia di cinque anni fa, di quelle notti passate sveglia, divorata dai dubbi, rimorsi e sensi di colpa, di quei momenti in cui l’avevo amato e odiato più di me stessa contemporaneamente… mi faceva ancora male, mi davano ancora alla nausea tutte quelle strane sensazioni.
«Possiamo iniziare, no?», borbottò seccato, senza reagire minimamente alla mia vista.
Dentro di me, in una manciata di secondi, erano avvenute migliaia di reazioni e lui non si era scomposto minimamente, guardandomi con indifferenza e quasi disprezzo prima di staccare lo sguardo.
E pensare che avevo anche sperato che fosse cambiato: che scema!
«Ma Darren non è ancora arrivato», replicò Jeremy contrariato.
«C’è o non c’è non fa alcuna differenza. Stiamo parlando di Darren», gli fece notare Alexander con tono sarcastico, staccandosi dalla parete per avanzare qualche passo, infilandosi le mani nelle tasche.
«Perché mi avete chiamata, di preciso?», dissi infine, senza riuscire a staccare gli occhi dalla figura slanciata di Alexander.
Lui non era cambiato. Quando l’avevo lasciato era esattamente come adesso, ma forse senza quel velo di autorità che ora si sentiva in diritto di esercitare perché papà non c’era più ed era il più grande.
«Se fosse stato per me, saresti potuta rimanere benissimo a New York», replicò prontamente lui, «ma il paparino ti ha inserita nel testamento», aggiunse facendo un cenno col capo al foglio che l’uomo stringeva.
«Sono l’avvocato di vostro padre, Marshall McCall, l’abbiamo convocata perché potessimo leggere finalmente il testamento di vostro padre», mi spiegò brevemente l’uomo.
«Oh, okay», mormorai sorpresa. Jeremy tirò un sospiro rumoroso, affondando nella poltroncina di pelle. M’invitò con lo sguardo a sedermi accanto a lui ma io rimasi dov’ero, al centro della stanza e abbastanza distante da Alexander per evitare qualsiasi voglia compulsiva di prenderlo a pugni. Il signor McCall si schiarì la voce.
«Io, Albert Wilson, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali…»
«Non possiamo saltare questa parte straziante e passare al sodo?», lo interruppe Jeremy in tono lamentoso. Alexander gli lanciò un’occhiata fulminea e lui alzò subito le mani in aria in segno di arresa. «Ok, ok, continuate pure», disse arrendevole.
«Come ben sapete vostro padre ha diviso la sua eredità, ma ha imposto delle clausole»
«Spiegati meglio», borbottò Alexander, aggrottando la fronte e visibilmente interessato.
«Ai miei figli, Darren e Jeremy, lascio il venticinque per cento dei miei beni nella speranza che sappiano farli fruttare. A mio figlio maggiore, Alexander, lascio la gestione dell’intera impresa familiare con la sicurezza che saprà ricavare da essa enormi profitti. Il restante cinquanta per cento va alla mia adorata Sara-»
«Che pazzo», interruppe Alexander con una risata isterica, «ha lasciato metà dei suoi soldi a lei».
Le sue parole mi sfuggirono completamente, perché ero rimasta a bocca aperta e con gli occhi sgranati quando l’avvocato aveva detto che mi spettava metà dell’intero patrimonio dei Wilson. Com’era possibile che mi avesse lasciato una percentuale così alta, pur non essendo neanche lontanamente sua figlia?!
«Che incantesimo gli hai fatto?», mi chiese Jeremy allibito, fissandomi dal basso della sua poltrona.
«Deve esserci un errore… è impossibile che mi abbia lasciato il cinquanta per cento», risi nervosa, scuotendo il capo.
«Non fingerti sorpresa. Hai leccato il culo a mio padre per anni, solo per arrivare a questo giorno», borbottò Alexander indifferente.
«Come ti permetti?», ringhiai, fulminandolo con lo sguardo.
«Non è così?», mi punzecchiò, accorciando la distanza tra di noi per guardarmi in segno di sfida.
«Aspettate! Non ho finito», ci interruppe l’uomo, alzando leggermente la voce. «Vi avevo parlato di alcune condizioni», aggiunse. Lanciai ad Alexander un’ultima occhiata assassina prima di dargli le spalle e guardare l’uomo.
«Quali condizioni?», gli chiesi.
«Sicura di volerlo sapere?», rise Alexander, guardandomi con aria spavalda.
«Conosci già il testamento?»
«Ovviamente». Distolsi lo sguardo da lui per tornare nuovamente sull’avvocato, annuendo per farlo proseguire.
«Il restante cinquanta per cento va alla mia adorata Sara, ma c’è una condizione: Alexander e Sara potranno ricevere la loro parte a patto che si sposino e convivano per almeno un anno. Se dovesse esserci un rifiuto da una delle due parti, l’azienda di famiglia andrà a Darren e sarò lieto di offrire il denaro in beneficenza all’orfanotrofio di Bloom’s Street»
«Cosa?!», squittii, battendo le mani sulla scrivania e facendo saltare l’uomo dalla sedia per lo spavento.
«Non è possibile!», urlò Jeremy, scattando in piedi come una molla.
«C-così è scritto», farfugliò l’avvocato, sistemandosi gli occhiali mentre si allontanava leggermente aderendo con la schiena contro lo schienale.
«Originale nostro padre, non trovi?», ridacchiò, sedendosi sul bordo della scrivania accanto a me.
Sentii il sangue ribollirmi nelle vene e salirmi tutto su al cervello. Una parte di me urlava che era impossibile, che si erano organizzati per farmi uno scherzo idiota, che mio padre non poteva fare sul serio perché sapeva dell’ostilità tra me e Alexander. Un’altra parte però tentava di darsi spiegazioni, ipotizzava che proprio questa nostra ostilità non gli era mai piaciuta e che forse aveva imposto il matrimonio per unirci, per renderci come la famiglia che aveva sempre desiderato.
«Non può aver chiesto questo…», ringhiai insistente, guardando dritto negli occhi l’uomo come se fosse colpa sua se mi trovavo in questo disastro.
«Sei sulla buona strada, sanguisuga, come tua madre: ti fai sposare da un Wilson per poter mettere le mani sull’intera eredità e mandare in rovina la famiglia… quindi se pensi di manipolarmi per un anno a tuo piacimento, mi spiace ma non sono interessato», fece schietto, passandosi una mano trai suoi setosi capelli biondi. Stavolta gli mollo davvero un pugno. O magari anche due.
«Stai tranquillo, non toccherò neanche con un dito l’eredità perché non ti sposerei neanche morta», replicai testarda, serrando gli occhi in segno di sfida.
«Sicura? Scommetto che sotto sotto aspettavi solo un’occasione per farmi tuo», sussurrò malizioso, allungando due dita per sfiorarmi la mascella e alzarmi il mento per costringermi ad alzare lo sguardo e incrociare il suo.
«Ripeto: non ti sposerei neanche morta», insistetti. Gli afferrai il polso e lui lasciò che glielo spostassi. «Non m’interessano i soldi. Toglietemi dal registro di famiglia, per favore», dissi con tono sprezzante, sistemando la giacca con l’intenzione di andare via.
«Mi piacerebbe molto»
«Signorina, se non accetta di sposare Alexander perderà il cinquanta per cento dell’eredità… sono tanti soldi», ci tenne a precisare il signor McCall, strabuzzando gli occhi, forse perché conosceva la cifra e gli sembrava assurdo che potessi rinunciare per un capriccio.
«Chi sposa chi? Cosa mi sono perso?!». Ci voltammo tutti contemporaneamente per vedere da chi provenisse la voce e vedemmo Darren entrare spavaldamente in stanza.
Perfetto! Ci mancava solo lui.
Gettò un giubbino di pelle sulla poltrona accanto a Jeremy e si specchiò nella vetrina della cristalliera tentando di sistemarsi quei ciuffi sconvolti di capelli neri. Era un po’ la pecora nera della casa, l’unico ad avere una chioma così scura. Spesso Alexander blaterava che non era neanche figlio naturale di papà, che probabilmente era stato adottato. E forse era l’unica spiegazione razionale per motivare la sua diversità da Alexander e Jeremy.
«Cosa ci fai tu qui?», fece Alexander seccato, alzando gli occhi al cielo.
«Nostra sorella torna dopo tutti questi anni a casa e non le do il benvenuto?», sorrise sadico, puntando i suoi occhi neri su di me.
«Ciao, Darren», sussurrai a disagio mentre si avvicinava e mi afferrava per stringermi forte a sé. «Bentornata», mi sussurrò all’orecchio e mi accarezzò la schiena provocando un brivido lungo la spina dorsale.
«Sono… felice di rivederti», mormorai con un sorriso forzato. In realtà Darren mi aveva sempre messa un po’ in soggezione: era un tipo strano, misterioso, e mi dava l’impressione di uno psicopatico serial killer che amava affascinare le vittime con i suoi bei sorrisi. Fin dai miei primi ricordi di lui, della mia vita in questa casa, cercavo sempre di stargli alla larga: non avevo mai capito a che gioco giocasse quando tentava di sedurmi continuamente, quando mi accarezzava al posto sbagliato, quando non si curava del fatto che fossi sotto la doccia e iniziava a radersi costringendomi ad aspettare che finisse mentre ero avvolta nella tendina plastificata per coprirmi.
«Cos’è questa storia del matrimonio?», chiese interessato, aggrottando le sopracciglia mentre scrutava uno a uno i presenti nella stanza.
«Nulla che possa interessarti», tagliò corto Alexander.
«Sì, infatti, perché non sposo proprio nessuno», precisai, guardando sbieco il ragazzo.
«Papà nel testamento ha stabilito che per ereditare il denaro devono sposarsi», tagliò corto Jeremy disgustato.
«Ah, è questo allora… lo sapevo»
«Avevi già letto il testamento?», sussurrò Alexander furioso, guardandolo come se volesse incenerirlo.
Darren in tutta tranquillità andò a sedersi sul bracciolo della poltrona dove era seduto di nuovo Jeremy e sorrise furbamente.
«No, ma sapevo che l’avrebbe scritto…», accennò vago.
«E come diavolo-»
«Lascialo perdere, sta mentendo», m’interruppe Alexander, snobbandolo. Darren si limitò a sorridere, come se si stesse gustando la migliore delle opere teatrali.
«Quindi, Sara, non vuoi sposare Alex…», accennò vagamente il ragazzo.
«Certo che no», sbottai con una risatina nervosa.
«Perfetto! Allora niente matrimonio e festeggiamenti: se rifiuti di sposarlo, il diritto di ereditarietà passa a me», sorrise soddisfatto, facendo spallucce. Jeremy gli piantò una gomitata nel fianco mentre Alexander s’irrigidì di colpo ed io rimasi immobile a fissare il suo profilo.
Darren è un’irresponsabile, questo lo sanno anche le pietre. Lasciare nelle sue mani la direzione dell’intera Wilson Group significava far entrare sul serio la famiglia in crisi: mio padre aveva trascorso l’intera vita per rendere il Wilson Group quello che era oggi, ne era fiero, faceva continui progetti, e aveva pianificato di lasciare tutto ad Alexander perché era quello con il senso degli affari, quello responsabile, quello intelligente e brillante, quello persuasivo che lo faceva contrattare con le più importanti multinazionali europee e straniere. Alexander era davvero fiero del rispetto che suo padre nutriva nei suoi confronti e privarlo di questo sarebbe stato troppo.
Per quanto odi Alexander non posso permettere che accada questo… non posso permettere che tutti i sacrifici che papà ha fatto vadano in fumo.
«Infatti è per questo che Sara diventerà mia moglie», fece Alexander calcolatore. Alzai un sopracciglio.
«Come, scusa?»
«Solo un anno. Dopodiché chiederemo il divorzio e andrai dove vuoi. Preparati per il matrimonio, dolcezza», rise divertito della mia espressione sconvolta.
«Ma di cosa diamine parli?! Non voglio sposarti!»
«Non possiamo mandare migliaia di impiegati per strada… lo sappiamo entrambi che Darren non porterà a nulla di buono per l’agenzia: perché pensi che papà l’abbia affidata a me?», fece serio.
«Ehy, questo non è leale! Stai ricattando Sara perché ti ha rifiutato! Non è da te, fratello… non lo sai che il matrimonio richiede un consenso reciproco?»
«Sì, infatti Sara acconsentirà», replicò testardo Alexander, fronteggiandolo.
«Ne sei sicuro?», sussurrò il fratellastro, alzando un sopracciglio.
«Scommettiamo?», fece l’altro in tutta risposta.
«Scusate!», urlai, portandomi le mani ai fianchi, «la smettete di parlare come se non fossi presente?!», continuai isterica.
«Ascoltami, Sara…»
«Non m’interessa cos’hai da dirmi, Alexander»
«E’ per il bene di entrambi», precisò, fissandomi nella speranza che accettassi. Lo guardai esitante: che voleva dire per il bene di entrambi? A lui interessava soltanto ereditare l’impresa e non lasciare tutto nelle mani di Darren.
«Io… devo pensarci», farfugliai nervosa, dandogli le spalle per lasciare la stanza.
Richiusi la porta alle mie spalle e solo allora potei tirare un sospiro di sollievo.  Sì, certo, chiamiamolo “sollievo”…!
«Sara, immaginavo volessi restare per cui ti ho preparato una stanza»
«Grazie Agatha», mugolai mentre m’incamminavo verso quella che un tempo era stata la mia stanza. Mi tolsi il cappotto, lanciandolo sulla sedia, e mi fiondai sul letto affondando il viso nel cuscino.
Tutto questo era una pazzia, speravo ancora di potermi svegliare da quest’incubo. L’idea di sposare Alexander non riuscivo nemmeno a concepirla: era già abbastanza strano sposare uno che ero sempre stata costretta a chiamare “fratello”, figuriamoci poi se quel qualcuno è la persona che mi ha spezzato il cuore e cui ho giurato di farla pagare!
Alexander era completamente diverso da me e insieme eravamo del tutto sbagliati.
Eravamo come due colori bellissimi che insieme stonano.
Alexander ed io avevamo in comune solo una cosa: il cognome.



Angolo dell'autrice:
So che è un argomento scritto in tutte le salse ma spero che riusciate ad apprezzare questa mia versione della storia ^^
Per quanto riguarda questo capitolo, è un po' noiosetto ma erano necessarie spiegazioni e descrizioni e immagino anche che abbiate capito che le frasi in corsivo sono pensieri diretti della protagonista.
Per adesso può sembrarvi ancora molto confuso, ma con il tempo scoprirete man mano tutti i lati dei personaggi!
Mi scuso per eventuali errori, spero di ricevere vostri pareri, un bacione!
  
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