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Autore: SunlitDays    07/03/2014    7 recensioni
«Forse non ricorda che una volta eravate insieme e quanto eravate felici, ma questa è un’ottima occasione per ricominciare, Annabeth. Vedila in questo modo: sarà come innamorarsi una seconda volta.»
[Percabeth - What if...? - Amnesiac!Percy]
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Percy Jackson, Percy/Annabeth
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Titolo della storia: I Fall in Love With You (Two Times)
Autore: terachan/SunlitDays
Prompt: Tra le dita tutto sfugge via/come neve, come una bugia (The Nightmare Before Christmas OST) (Prompt Orfani)
Limitazione:  una storia divisa in tre parti più o meno della stessa lunghezza che seguano uno sviluppo temporale al contrario: futuro, presente, passato.
Pairing: Percy/Annabeth
Wordcount: 4399
Rating: PG13
Avvertimenti: What if...?, Angst, Amnesiac!Percy, Spoiler fino a the Mark of Athena ma non tiene conto del famoso cliffhanger.
Sommario: «Forse non ricorda che una volta eravate insieme e quanto eravate felici, ma questa è un’ottima occasione per ricominciare, Annabeth. Vedila in questo modo: sarà come innamorarsi una seconda volta.»
Note dell'autore: ci ho messo tre giorni per finire questa fic e continuo a non esserne soddisfatta. Molto probabilmente vi sentirete confusi leggendola. Bene, era proprio la mia intenzione LOL L'idea è che il lettore si senta confuso tanto quanto Percy. Il fatto che lo sviluppo temporale della storia sia inverso non aiuta di certo xD
Tutto dovrebbe essere più chiaro alla fine, ma, nel caso non fosse così, vi consiglio di rileggerla in ordine cronologico.
Scritta per l'iniziativa Limitaprompt sulla piscinadiprompt.
 



 
V(a)
La memoria poteva farti brutti scherzi nei momenti meno opportuni. Era ingannevole e sfuggente, una lama affilata e incandescente nel cranio, un dolore bianco e agonizzante. Sfuggiva tra le dita, come neve, come una bugia.
Sarebbe potuto accadere in un milione di modi. Aveva sperato di svegliarsi una mattina e annunciare so chi sono! e invece era successo nella sacra terra di Atene, tra migliaia di mostri e davanti la più fatale delle dee.
E mentre il suo passato tornava con la violenza di uno tsunami, Percy vide il suo futuro allontanarsi e spegnersi pian piano. Gli occhi vitrei, il respiro veloce e irregolare, la pelle pallida in contrasto al rosso vivo del suo sangue.
No! Non ora! Non mai! ANNABETH! Il suo grido coprì le urla dei suoi compagni, il clangore delle spade e la risata malefica del loro nemico.
Era bastato un momento di déjà-vu: una battaglia, il luccichio di una spada che si avvicina, Annabeth che gli fa da scudo col suo corpo... E all’improvviso fu come se un portone si fosse spalancato nella sua mente.
I riccioli biondi sembravano un’aureola che le contornava il viso pallido, un solo sussurro esalato dalle sue labbra tremanti: Percy.
Immagini in technicolor assalirono la sua mente. Cibo blu, il sorriso caldo di sua madre, una ninna nanna, un campo di fragole, occhi grigi, un labirinto, un bacio nel fondo del lago.
E Annabeth...
Annabeth...
Sempre Annabeth.
Annabeth che lo batteva nell’arena, Annabeth che lo prendeva in giro, Annabeth con gli occhi tempestosi di rabbia, Annabeth che gettava la testa all’indietro mentre rideva di una sua stupida battuta.
Annabeth... che ancora una volta era stata ferita mortalmente da un colpo destinato a lui...
Annabeth... che stava morendo tra le sue braccia.
L’abbracciò forte mentre una battaglia infuriava attorno a lui e un’altra nella sua mente. La strinse e la baciò come se in qualche modo potesse passarle la sua vita in un respiro, rigettarle nel corpo tutte le sue energie, scambiare la propria anima con la sua.
Non lasciarmi, Annabeth! Non lasciarmi! respirò nella sua bocca.
«Alzati, Perseus Jackson.» Percy riconobbe la voce, ma non si mosse, perché se avesse lasciato andare Annabeth tutto sarebbe finito, come se la vita di lei fosse legata al loro abbraccio, alle loro labbra incollate.
«Alzati, Perseus!» ripeté la voce, perentoria.
«Ti prego salvala! Ti prego!» E se anche non avesse recuperato improvvisamente la memoria, avrebbe saputo che quella era la prima volta che pregava una divinità con tanta disperazione.
«Mi figlia ha compiuto il sacrificio a lei richiesto. Ora tocca a te, Perseus. Alzati, unisciti ai tuoi compagni e mettiamo fine a questa guerra.» Voce fredda e calcolatrice. «O il suo sacrificio sarà invano.» Un tremito.
E forse fu proprio il dolore che percepì scaturire dalla voce di Atena che scongelò le sue membra. Staccò lentamente le braccia dal suo passato ritrovato e il suo futuro irraggiungibile.
Non muoverti, non muoverti. Come se avesse potuto farlo. Torno subito.
«Nessuno la toccherà.»
La battaglia continuava a infuriare. Erano rinchiusi in un cerchio invisibile dove nessun mostro, né Gigante, né semidio poteva entrare. Il tempo non si era fermato e Percy si chiese stupidamente perché.
Atena era in piedi al loro fianco, nel cerchio impenetrabile creato da lei, dove nessuno avrebbe toccato Annabeth. Dove sarebbe morta da sola.
Semidio e dea fecero un passo avanti, uscendo dai confini protetti. Il suono della battaglia assalì le sue orecchie come se avesse aperto la porta di una discoteca dove l’unico ballo concesso era quello della morte.
Un fuoco violento nacque dal suo stomaco e si propagò in tutto il suo corpo. Puntò gli occhi in quelli di Gea. Lei rise e aprì le braccia come invitandolo a danzare, assolutamente incurante dei semidei feriti e esausti che combattevano contro i Giganti con furia e disperazione negli occhi.
«Adesso, Perseus!»
Percy alzò la spada e urlò. E fu come se i suoi amici non aspettassero altro. Risposero al suo urlo con rinnovato vigore e, con il potere della dea Atena al loro fianco, attaccarono.




IV
Ormai sapeva dove trovarla. Quello che non sapeva, era perché la cercasse sempre.
Si sedette al suo fianco silenziosamente. Lei gli sorrise come se già sapesse che lui sarebbe arrivato.
«Di nuovo non riesci a dormire?» le chiese. Lei alzò semplicemente le spalle in risposta, ancora sorridente.
Distolse lo sguardo prima di rischiare di fare qualcosa di imbarazzante e lo portò verso il basso, osservando la terra della Grecia sfrecciare sotto di loro attraverso il pavimento di vetro della stalla dei pegasi.
«Sai cosa mi ricorda questo posto?» disse lei improvvisamente.
Percy scosse la testa e notò gli angoli degli occhi di Annabeth arricciarsi. Era un’espressione che aveva imparato a riconoscere: tristezza.
Odiava esserne la causa.
«Durante la nostra prima impresa insieme, ci intrufolammo clandestinamente nel furgone di uno zoo. C’era un odore nauseabondo e gli animali erano trattati in modo vergognoso.» Sorrise con nostalgia.
«Non mi sembra un bel ricordo» disse Percy.
Lei rise. «Non lo è. Non proprio. Dovevamo trovare la Folgore di Zeus e non sapevamo nemmeno da che parte cominciare. Eravamo stanchi e senza un soldo e bloccati a Las Vegas. Però...»
«Però...?» la incitò lui. Era sempre affamato di racconti di un passato che non riusciva a ricordare. E gli piaceva ascoltare la voce di Annabeth. Quando non era impegnata a formulare piani complicati, passava il tempo a evitarlo. Era diventata la missione personale di Percy quella di cercarla.
«Però... è stata la prima volta che abbiamo parlato veramente. Il momento in cui... siamo diventati amici. Avevamo solo dodici anni. È passato così tanto tempo.» L’ultima parte fu solo un sussurro e Percy capì quanto le facesse del male essere l’unica a ricordare tutte le avventure che avevano passato insieme.
Provò di nuovo quel senso di colpa cocente nello stomaco. E questa volta ripetersi non è colpa mia! non servì a niente.
Voleva ricordare più di ogni altra cosa al mondo. E non solo per se stesso.
Allungò una mano per toccare un ricciolo biondo che le copriva gli occhi. Solo dopo averlo avvolto attorno al suo dito si rese conto che forse quel gesto era troppo intimo per due amici, ma Percy non era mai stato bravo a pensare prima di agire. Almeno così credeva.
I loro occhi si incontrarono. Annabeth aveva le guance un po’ rosse e gli occhi più luminosi del solito. Era una vista a lui sconosciuta eppure familiare.
Lasciò andare il ricciolo per poterle accarezzare il mento e rimase affascinato quando lei aprì leggermente le labbra per esalare un respiro tremante. Non riusciva a distogliere lo sguardo, il senso di colpa allo stomaco si trasformò in una sensazione calda e piacevole. Si chiese se il suo cuore avesse sempre battuto così forte ogni volta che i loro visi erano vicini, se le sue labbra ricordavano cosa si provasse ad accarezzare quelle di Annabeth.
I loro respiri si mischiarono, ma Percy esitò ad accorciare ulteriormente le distanze. Si sentiva insicuro e inebriato dalle emozioni.
Era questo che si provava ad essere innamorati?
Innamorarsi una seconda volta...
«Non ti si addice» disse lei con un sorriso.
«Cosa?» le domandò, gli occhi incollati alla sua bocca.
«Pensare.»
«Mi stai per caso prendendo in giro?»
Il sorriso di Annabeth si accentuò. Le si formò una fossetta sulla guancia sinistra. Percy la toccò con l’indice. Fu più forte di lui.
«Smettila di scervellarti e baciami, Testa d’Alghe!»
E Percy la baciò. Le sue labbra si fusero con quelle di Annabeth e non poté evitare di gemere quando lei aprì la bocca e le loro lingue si incontrarono.
Percy non ricordava i baci che aveva condiviso con Annabeth in passato, ma il suo corpo sembrava non aver dimenticato cosa fare. Allungò una mano per poterla avvolgere attorno alla sua vita, un dito si intrufolò sotto la maglietta arancione del Campo Mezzosangue. Lei affondò le mani nei suoi capelli e alzò una gamba per avvicinarsi di più a lui, così da essere quasi seduta sul suo grembo. Infilò una mano nella sua maglietta facendo pressione su un punto della schiena di Percy e lui fu colpito da un ricordo sfuggente. Non era la prima volta che Annabeth lo toccava in quel punto. Aveva un significato particolare, ma per quanto si sforzasse, non riuscì a capire quale. Poi lei si strinse ancora di più a lui e Percy non pensò più a niente.
Dopo un tempo interminabile, o forse troppo breve, si fermarono. Annabeth nascose il viso nel suo collo, il suo fiato grosso gli accarezzava le orecchie. Percy non era in condizioni migliori.
«Domani è il primo agosto» sussurrò lei. «E finalmente arriveremo ad Atene.»
Percy ebbe un brivido e questa volta non fu perché il profumo di limoni di Annabeth gli annebbiava i sensi.
Un ultimo sacrificio.
«Andrà tutto bene» disse, il viso affondato nei suoi riccioli biondi. «Ce la faremo. Staremo bene.» Starai bene, non ti succederà nulla, non lo permetterò avrebbe voluto dire, ma le parole gli rimasero incastrate in gola.
«Lo so» rispose Annabeth alzando la testa per guardarlo negli occhi. «Finché saremo insieme, andrà tutto bene.»




III
Percy aveva imparato durante l’impresa con Frank e Hazel in Alaska, che non c’era nulla che potesse consolidare un’amicizia più di una situazione di pericolo, e lui e gli altri passeggeri dell’Argo II ormai ne avevano passate abbastanza da poter essere considerati una famiglia. Forse era una realizzazione a cui era giunto anni prima, ma, se così fosse stato, di certo lui non lo ricordava.
Si accarezzò la pancia piena e si rilassò sulla sedia, mentre osservava i suoi amici interagire tra loro. In un’altra occasione avrebbe partecipato anche lui all’amichevole battibecco, ma in quel momento voleva solo godere di quel fugace momento di pace.
I suoi occhi schizzarono verso le immagini in tempo reale del Campo Mezzosangue, altra causa di emicranie. I semidei stavano indossando le armature e preparando armi e trappole, sui loro volti espressioni tese ma determinate. Un centauro si avvicinò a galoppo — si chiamava Chirone, gli avevano detto — e Percy lo vide parlare agli eroi e dare ordini che lui non poteva sentire.
Il Campo Mezzosangue si stava preparando a difendersi contro il Campo Giove.
Il silenzio improvviso gli fece capire che anche i suoi amici avevano notato la scena. L’atmosfera rilassata di poco prima era evaporata in un attimo.
«Credete che...» cominciò Piper, ma dei passi affrettati la interruppero.
Annabeth entrò in mensa correndo, i capelli in disordine e gli occhi spiritati. «È già accaduto?» chiese.
«I romani stanno per attaccare, se è questo che intendi» le rispose Jason, cupo. Gli si erano formate delle rughe attorno agli occhi. Percy sapeva cosa provava. Fra loro sette, lui e Jason erano gli unici che avevano un legame con entrambi i Campi e sapere che da lì a poco si sarebbero ammazzati a vicenda era una sensazione quasi peggiore dell’essere posseduto da un Eidolon e non riuscire a impedirsi di attaccare uno dei suoi migliori amici.
Percy non ricordava nulla del Campo Mezzosangue, solo piccole impressioni, ma aveva passato settimane intere a osservare le immagini mute in mensa o ad ascoltare i suoi amici parlarne e, in qualche modo, sentiva un legame verso quel luogo, come una vecchia canzone che ogni volta che ascolti ti fa provare delle emozioni alle quali non riesci a collegare un ricordo preciso.
«No» disse Annabeth, sedendosi lentamente nel posto più lontano da Percy, anche se c’era una comodissima poltrona proprio al suo fianco. «No, non attaccheranno.»
«Cosa? Come lo sai?» chiese Frank.
«L’ho sognato. Stanno per arrivare.»
Annabeth si sporse di più dalla sua sedia per guardare meglio le immagini nel monitor gigante. Tutti seguirono il suo esempio.
L’ora successiva passò in un silenzio teso. Leo si era messo a giocherellare con alcuni pezzi di metallo e Percy desiderò avere anche lui qualcosa da fare, la sua iperattività stava cominciando a farsi sentire, i suoi occhi continuavano a tornare su Annabeth, ma lei evitava il suo sguardo come sempre. Avrebbe tanto voluto avvicinarsi a lei e parlarle, ma sapeva che la sua lingua avrebbe finito per ingarbugliarsi dal nervosismo.
Odiava aspettare, voleva agire, ma non c’era nulla che potesse fare confinato com’era nell’Argo II.
«Quello è il Pugno di Zeus. Te lo ricordi?» Saltò quando sentì la voce di Annabeth provenire dalla sua sinistra. Era così distratto che non si era accorto che si era avvicinata.
Seguì la direzione che lei indicava. Era un blocco di rocce nel bosco che limitava il Campo. Dei semidei si stavano arrampicando, probabilmente una mossa strategica.
Percy piegò la testa di lato e aggrottò le sopracciglia. In effetti, sembrava proprio un grosso pugno. «No» disse. «Ha un significato particolare?»
Gli angoli degli occhi di Annabeth si arricciarono. «Non importa.»
Il senso di colpa gli attanagliò lo stomaco. Non è colpa mia! voleva gridare.
Proprio quando stava per sfogare le sue frustrazioni, i romani attaccarono.
In centinaia arrivarono dalla cima della collina Mezzosangue, le armi pronte e le bocche aperte in un grido collettivo silenzioso. I greci erano pronti al contrattacco. Percy vide Chirone alzare un braccio per dare l’ordine di partire alla carica.
Sembrava un vecchio film muto, ma era la realtà.
«Non avevi detto che non avrebbero attaccato?» ruppe il silenzio Leo. «A me questo non sembra esattamente un tea party
«Stanno per arrivare. Devono arrivare.» Annabeth si toccò la collana dal nervosismo e, anche in una situazione del genere, Percy non poté evitare di pensare quanto fosse bella.
E proprio quando le armi stavano per scontrarsi, arrivarono. Al centro della battaglia, si materializzarono dal nulla Nico, Reyna e il coach Hedge e, in mezzo a loro, l’intimidente statua di Atena.
«Sì!» esclamò Annabeth.
«Ce l’hanno fatta!» urlò Hazel.
I semidei si fermarono all’unisono, i loro sguardi confusi puntarono tutti verso l’enorme statua che pochi attimi prima non c’era.
Reyna disse qualcosa, probabilmente un’offerta di pace, e Chirone le si avvicinò poco dopo. Seguirono vari minuti di discussioni mute che i passeggeri dell’Argo II potevano solo immaginare cosa riguardassero.
Poi, chi con gioia, chi con riluttanza, greci e romani si strinsero la mano. La battaglia era stata evitata.
Quella fu la serata più felice della loro intera permanenza sulla nave. Leo aprì una bottiglia di tequila, dicendo che era il momento giusto per approfittare dell’assenza del pazzo coach Hedge. Festeggiarono come se fossero dei normali adolescenti i cui genitori erano partiti, e non importava se da un momento all’altro avrebbero potuto subire un attacco o se il giorno dopo qualcuno di loro li avrebbe abbandonati per sempre. Erano insieme, erano felici ed erano una famiglia.
Annabeth continuava ad evitarlo, ma rideva ed era così bella che Percy l’abbracciò improvvisamente, semplicemente perché gli sembrava una cosa naturale, come se lo avesse fatto centinaia di volte. Lei si irrigidì ma poi rispose al suo abbraccio con un’intensità inaspettata.
«Ce l’hai fatta» le sussurrò nell’orecchio.
«Io? È stato Nico a viaggiare via ombra per...»
«No,» la interruppe, prendendole il viso nelle mani e guardandola negli occhi. «Tu ce l’hai fatta. Hai affrontato le tue peggiori paure e hai recuperato la statua di Atena. Io... non te l’ho ancora detto, ma... sono fiero di te,» balbettò, improvvisamente a disagio. Non era mai certo di come comportarsi con Annabeth. La sua intelligenza lo intimidiva, il suo modo di porsi e di gesticolare lo affascinavano, le sue tecniche di combattimento lo ammutolivano. E i suoi occhi... i suoi occhi riuscivano sempre a lasciarlo senza fiato. «Non che... non che avessi dubitato per un attimo che non ci saresti riuscita. Voglio solo dire...»
Annabeth gettò la testa all’indietro e rise, stringendo ancora di più le braccia attorno al suo collo. La vista fece venire le vertigini a Percy, un ricordo gli affiorò nella mente prima di sparire con la stessa velocità con cui era comparso.
«Grazie, Percy,» disse, gli occhi addolciti. «Ma,» continuò, sfuggendo al suo sguardo. «Il mio compito a quanto pare non è ancora finito.»
«Che vuoi dire?»
«Nel mio sogno c’era mia madre. Era nelle sue vesti greche e... completamente sana di mente, se capisci cosa voglio dire. Mi ha detto che ho fatto un buon lavoro, ma... c’è ancora un ultimo sacrificio che devo fare.»
«Sacrificio? Che genere di sacrificio?» domandò Percy, stringendo istintivamente le mani sui suoi fianchi.
«Io... non lo so. Immagino lo scopriremo presto.»
Ma stava mentendo. Percy non era sicuro di come facesse a saperlo. C’era qualcosa nell’espressione di Annabeth — lo sguardo basso, gli angoli della sua bocca arricciati — che gli suggeriva che lei non gli stesse dicendo la verità.
«Non importa,» si costrinse a dire. «Staremo insieme e andrà tutto bene.»
Lo sperò con tutto il suo essere.




II
Gli dissero che il suo cognome era Jackson, che sua madre si chiamava Sally, che era un eroe greco e al Campo Mezzosangue era considerato una leggenda. A quanto pareva, aveva salvato il mondo quasi da solo in una battaglia epica avvenuta a Manhattan solo pochi mesi prima.
Percy non aveva motivo di dubitare delle parole di quegli sconosciuti che si erano improvvisamente presentati al Campo Giove. Se gli avessero detto che di giorno facesse il netturbino e di notte la drag queen, l’avrebbe creduto lo stesso.
E poi ci sarebbero stati anche Frank e Hazel, i suoi unici amici. I romani gli avevano parlato così tanto di Jason che quasi gli sembrava di conoscerlo. Anche Piper e Leo non erano male.
L’unico a metterlo a disagio era la figlia di Atena, Annabeth. Forse perché, a quanto pareva, era l’unica a conoscerlo.
Era sbarcata dall’Argo II come una furia, l’aveva incatenato nei suoi tempestosi occhi grigi e aveva tuonato: «Sai chi sono?»
«Uhm... no?» aveva risposto Percy, intimidito. La ragazza sembrava pronta a stenderlo con un destro, ma poi gli angoli dei suoi occhi si erano arricciati e aveva distolto lo sguardo. Da quel momento in poi si comportava come se Percy non ci fosse.
Era un mistero per lui. A volte avvertiva il suo sguardo su di sé, come se stesse aspettando qualcosa, e Percy si sentiva perennemente frustrato e, per qualche ragione, in colpa. Aveva provato molte volte a parlarle, a chiederle del suo passato, ma sembrava che ogni volta lei avesse qualcosa da controllare nel suo laptop.
«Siamo amici?» le aveva chiesto una sera. Era il turno di Annabeth di fare la guardia di notte e lui ne aveva approfittato per coglierla di sorpresa. «Voglio dire... prima che perdessi la memoria, eravamo amici?»
Un’emozione indecifrabile le aveva attraversato il viso. «Sì, eravamo amici, Testa d’Alghe,» una pausa. «Altre domande stupide?»
Percy aveva battuto le palpebre, colpito da un momento di déjà-vu. «Be’, scusami tanto se sono curioso di conoscere il mio passato.»
Lei aveva stretto le labbra e l’aveva guardato con lo stesso sguardo con cui lo fissava sempre e che Percy non riusciva mai a decifrare.
Annabeth lo incuriosiva. Era sempre in controllo, ma c’erano stati dei momenti in cui Percy aveva avvertito una certa vulnerabilità in lei.
Si scoprì ad osservarla costantemente. Sapeva che anche lei soffriva della dislessia che accomunava tutti i semidei, eppure ciò non le impediva di leggere enormi volumi che solo a guardarli gli facevano girare la testa. Combatteva con un semplice pugnale, ma era così scaltra e astuta che nessun mostro le sfuggiva mai. Notò tutti i suoi gesti e tic, come il modo il cui si scostava la frangia troppo lunga quando doveva lavorare su qualche piano, la sua abitudine di toccare la collana del Campo quando era agitata, la cadenza che prendeva la sua voce quando era arrabbiata, la fossetta che le si formava sulla guancia sinistra quando sorrideva.
Percy era affascinato e pieno di domande. Voleva ricordare la sua amicizia con Annabeth Chase a tutti i costi.
Stava andando in camera sua con tutta l’intenzione di fare una pennichella quando sentì le voci di Piper e Annabeth giungere da un paio di porte più in là. Non aveva bisogno di ricordare gli insegnamenti di sua madre per sapere che era sbagliato origliare, ma la fame di informazioni era più forte.
«—amici, capisci? Non ricorda assolutamente nulla di noi.»
«Forse non ricorda che una volta eravate insieme e quanto eravate felici, ma questa è un’ottima occasione per ricominciare, Annabeth. Vedila in questo modo: sarà come innamorarsi una seconda volta.»
«Io non voglio che si innamori una seconda volta. Voglio che ricordi tutte le nostre imprese, tutte le volte che ci siamo salvati la vita a vicenda, il nostro primo bacio, il mesiversario passato a Parigi...»
Percy entrò nella sua camera e si appoggiò alla porta. Adesso era tutto molto più chiaro e allo stesso tempo molto più confuso.
Annabeth era la sua ragazza. Si sentì stordito da emozioni contrastanti.
Cosa significava adesso? Doveva andare da lei e comportarsi come un fidanzato? Dille che era meglio che rimanessero amici perché lui non aveva la più pallida idea di chi fosse lei tanto meno chi fosse lui stesso? Fingere di non sapere niente?
Ricominciare... Innamorarsi una seconda volta...
Decise che ci avrebbe dormito sopra.



I
«Na-na-naa del divino Apollo canterò na-na-naaa»
 «Per Zeus! Percy, sei stonato come una campana. E stai inventando tutte le parole» rise Annabeth.
Percy l'abbracciò da dietro. «È rompiscatole e pignola, ma tre meravigliose settimane passerò con la mia bestiolaaaa na-na-naaa.»
«Chi hai chiamato bestiola, eh?» gli dette una gomitata nel costato.
«Oh!» esclamò Percy, piegandosi in due con una mano sul fianco.
Annabeth alzò gli occhi al cielo. «Sei invulnerabile. Lo so che non ti sei fatto niente.»
«Parola mia, la mia ragazza è troppo violenta. Dovrei denunciarla per maltrattamenti fisici e morali ai danni della mia persona.»
Si trovavano nell'anfiteatro del Campo Mezzosangue, tutti gli altri semidei erano già andati via. I resti del falò emanavano ancora una nuvola di fumo.
Percy si sentiva felice e rilassato come non lo era da tempo. Non c'era nessun guerra o profezia o scuola a disturbare quella fresca e spensierata serata. Le vacanze di Natale erano cominciate in anticipo e lui poteva finalmente godere della presenza della sua ragazza per ben tre settimane.
Erano sempre impegnati con i compiti o, nel caso di Annabeth, con la ricostruzione dell'Olimpo, e spesso passavano giorni interi prima che potessero stare insieme in intimità.
Annabeth incrociò le braccia al petto. «Smettila di fare il melodrammatico, signor Invulnerabilità.»
Percy imitò la sua posizione. «Signor Invulnerabilità mi piace. Un nome fico per un tipo fico come me.»
«Un nome pomposo per un tipo pomposo.»
«Oh! Annabeth, Annabeth,» disse lui, scuotendo la testa. «Ammettilo che mi trovi irresistibile, con la mia pelle d'acciaio e tutto il resto.»
«Oh! Percy, Percy,» lo scimmiottò lei. «Stai attento, se ti si gonfia un po' di più la testa potresti prendere il volo.»
Lui le pizzicò il naso. «Sei solo gelosa perché sai che in un combattimento ti batterei.»
«Ne sei proprio sicuro?» ribatté lei, poggiando le mani sul petto di Percy e risalendo lentamente fino alle sue spalle.
«Uhm...» Le afferrò per i fianchi e l'attirò verso di sé. «Sicurissimo. Invulnerabile e imbattibile, ricordi?»
«Non basta la forza fisica in battaglia» disse Annabeth, poi cominciò a mordicchiargli il mento. «E poi,» continuò, infilando una mano sotto la maglietta arancione del Campo di Percy e accarezzandogli la schiena con movimenti lenti e seducenti. «Non dimenticare che io conosco il tuo tallone d'Achille.» Premette con le dita sul suo punto debole e Percy si sentì trafitto da mille saette. Gemette e le afferro il viso per baciarla, ma, improvvisamente, Annabeth gli dette una spinta con la spalla e lui si ritrovò sbattuto a terra.
«Oi! Non è giusto! Non ero pronto» lamentò.
Annabeth lo guardò dall'alto, un sorriso trionfante in volto. «Te l'ho detto: la forza fisica non basta. Ci vuole anche astuzia e destrezza.»
«Tu, donna malefica, prima mi seduci e poi mi picchi» gemette Percy, gesticolando teatralmente.
Annabeth rise. «Andiamo, alzati, Testa d'alghe. Si è fatto tardi.» Gli tese una mano per aiutarlo a sollevarsi e lui l'afferrò, solo per tirarla verso di sé e farla cadere sul suo petto.
«Ofh!»
«Ah! Ah! Com'è che hai detto? Astuzia e destrezza, eh?»
«Vedo che frequentarmi ha un buon effetto su di te. Sei riuscito a farmi cadere con lo scherzo più vecchio del mondo.»
«Ehi, sei tu che dici sempre che bisogna arrangiarsi con le poche armi a disposizione.»
Risero, ma poi i loro occhi si incrociarono e le loro risate si trasformarono ben presto in ansimi, mentre le loro bocche erano impegnate a esplorarsi.
«Adesso dobbiamo davvero andare, Percy. Non mi va di affrontare un'arpia a quest'ora.»
Si incamminarono lentamente verso le loro cabine mano nella mano, ma nonostante il coprifuoco fosse passato, si presero tutto il tempo.
«Ci vediamo domattina, Sapientona,» sussurrò Percy, quando furono arrivati alla cabina sei.
«Riposa bene perché ho intenzione di sfidarti in duello, e poi vedremo chi dei due è il migliore» disse Annabeth.
«Preparati ad essere umiliata.»
«Uhm... non cantare vittoria.»
Si baciarono un'ultima volta prima di separarsi, inconsapevoli che, quella, sarebbe stata davvero l'ultima volta per molto, molto tempo.
 
 

V(b)
Il fumo gli oscurava gli occhi, un odore rancido di morte gli pizzicava il naso. Sentiva i suoi amici piacere di gioia o forse di dolore. Percy non si unì all'abbraccio di gruppo. Gea era stata sconfitta e i suoi Giganti mandati nel Tartaro, e a lui non importava nulla.
Voleva solo raggiungere Annabeth, stendersi al suo fianco e morire con lei.
Cadde in ginocchio accanto al suo corpo immobile. Fa' che non sia troppo tardi fa' che non sia troppo tardi.
«A-a-annabeth» riuscì a sussurrare, nonostante il macigno il gola. «Annabeth, svegliati, Annabeth!»
Sentì i suoi compagni avvicinarsi, i loro singhiozzi degli echi lontani.
Le sue mani sporche e insanguinate le accarezzavano il viso, il collo, le spalle, le mani. Era fredda e immobile.
«No! No! Annabeth!» urlò e sperò che il suo grido potesse arrivare fin negli Inferi e in qualche modo riportarla indietro.
Una mano si posò sulla sua spalla, Percy la scacciò violentemente.
«No! No! Non la toccare!»
«Percy,» il viso di Hazel entrò nel suo campo visivo, ma lui la spinse via. Voleva solo vedere Annabeth, voleva che se ne andassero tutti. «Percy, ascolta.»
Una forza invisibile lo spinse di lato. «Spostati, sciocco ragazzo!» esclamò la dea Atena. Solo allora Percy vide che non erano più soli. Gli dei dell'Olimpo erano intorno a loro, alcuni con le vesti greche, altri con quelle romane. Tipico degli dei, presentarsi quando tutto era finito e i loro figli morti.
«Apollo.»
Il dio annuì verso Atena e si avvicinò ad Annabeth. «Non è troppo tardi» disse e solo allora Percy pianse.
Gattonò fino al corpo inerme della sua ragazza, i singhiozzi che gli scuotevano il petto. Riuscì ad afferrarle la mano, nonostante le lacrime gli offuscassero la vista e i tremori gli impedivano i movimenti, e sentì la pelle di Annabeth riscaldarsi, il suo battito farsi più forte. Si asciugò le lacrime furiosamente.
Gli occhi di Annabeth batterono due volte prima di aprirsi del tutto. «Percy?» gracchiò.
«Sono qui» singhiozzò.
Lei sorrise debolmente. «Perché piangi, Testa d'Alghe?»
Percy sentì una risata isterica nascergli in gola. Le accarezzò la guancia. «Riprenditi presto, Sapientona. Credo di doverti ancora un duello. Forza contro astuzia e destrezza.»
Il viso di Annabeth si illuminò col suo sorriso più bello, quello che le faceva brillare gli occhi e le formava una fossetta sulla guancia sinistra.
«Ti amo,» disse Percy. «Due volte.»
 
   
 
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