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Autore: Aries K    09/03/2014    3 recensioni
[SPOILER 1X15]
Due settimane e mezzo, e gli incubi riescono ancora a farmi svegliare come una ragazzina nel cuore della notte, pensai tristemente, sollevandomi per riprendere un respiro regolare ma, soprattutto, per districarmi dal lenzuolo che si era impigliato tra le mie gambe lunghe.
Per due settimane avevo vissuto come una reclusa in casa, simulando una malattia che non avevo, mentendo ai miei genitori che, comprensivi, si sforzavano con un sorriso bonario di credere al mio malessere. Avevo mentito a tutti, e agli occhi di tutti ero risultata credibile ma bastò che su di me si posasse lo sguardo di John Young per cedere, abbattere le difese e mostrarmi per quello che ero diventata...(...)
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buon pomeriggio a tutti! E' la prima volta che pubblico nel fandom di questo meraviglioso telefilm -ne sono perdutamente innamorata- e dopo l'ultima puntata non ho potuto far altro che creare un piccola OS per la coppia Jastrid, che mi ha colpito per la loro dolcezza e semplicità, shippandoli ancor prima del loro primo incontro.
Spero possa piacervi e mi farebbe tanto piacere conoscere le vostre impressioni.
Il titolo della OS è preso dalla bellissima canzone di Neffa, di cui troverete alcune righe qui all'inizio. Che altro dire? Buona lettura, un bacio!
ps: naturalmente nella FF ho ignorato del tutto il fatto che John sia tornato con Cara T.T





“Per darti di più
con le braccia posso stringerti
per darti le cose che tu credi indispensabili
per non stare solo
per sognare ancora
quando la tua stanza ti farà paura”

Per sognare ancora -Neffa







C’erano sempre loro, ovunque io guardassi. Sembravano poter anticipare i miei movimenti prima ancora che questi potessero prendere atto nella mia mente. In un incrocio di una delle tante strade di New York mi guardavo vertiginosamente intorno, registrando un insolito deserto. Persone, veicoli e la vita stessa sembravano aver abbandonato quella città per lasciarmi nelle mani dei miei aguzzini. Gli stessi che giravano intorno a me, come robot, che brulicavano da ogni dove apparendo, ai miei occhi, sempre più simili ad uno sciame di scarafaggi.
Ed era a quel punto del sogno che il fiato mi di mozzava, che un terrore sordo mi suggeriva che ben presto la loro indifferenza non sarebbe più stata clemente e che quindi mi avrebbero raggiunta per conseguire il loro compito. L’impulso di correre altrove sfumava in un’improvvisa paralisi, la quale mi costringeva a rimanere con i piedi incollati a terra, gli occhi sbarrati che inglobavano le loro figure nere. Le stesse figure nere che ora avevano preso coscienza della mia presenza, nemmeno mi fossi mossa o avessi gridato; tutt’altro, mi limitavo a piangere silenziosamente pregando di svegliarmi, di tornare a mirare il soffitto crepato della mia stanza…e invece no: ero lì impalata ad osservare il loro intercedere lento, meccanico, sicuri che la preda terrorizzata non aveva nessuna possibilità di scampo.
Gli agenti dell’Ultra si posizionarono di fronte a me come un plotone di esecuzione, sollevando con straziante lentezza le pistole verso il mio petto.
E quello, avevo imparato a capire, era il momento in cui nel sogno partiva un sincrono di spari capace di colmare il silenzio irreale di New York, unito alla mia ritrovata voce che gridava una sola e disperata implorazione “NO!”


Quella notte sbarrai di colpo gli occhi, scontrandomi con il buio confortante della mia stanza, una mano poggiata sul cuore per ascoltare i suoi battiti furiosi. Due settimane e mezzo, e gli incubi riescono ancora a farmi svegliare come una ragazzina nel cuore della notte, pensai tristemente, sollevandomi per riprendere un respiro regolare ma, soprattutto, per districarmi dal lenzuolo che si era impigliato tra le mie gambe lunghe.
Per due settimane avevo vissuto come una reclusa in casa, simulando una malattia che non avevo, mentendo ai miei genitori che, comprensivi, si sforzavano con un sorriso bonario di credere al mio malessere. Avevo mentito a tutti, e agli occhi di tutti ero risultata credibile ma bastò che su di me si posasse lo sguardo di John Young per cedere, abbattere le difese e mostrarmi per quello che ero diventata: una miserabile paurosa, terrorizzata dal minimo scricchiolio che, sì, proveniva da un qualsiasi mobile d i casa ma che, prima di potermene rendere conto, la mia mente aveva già sfilato i più incredibili scenari aventi come esclusivi protagonisti gli agenti dal lungo cappotto scuro, dagli occhi privi di calore celati dietro un paio di occhiali da sole, immancabilmente neri, come tutto in loro. Probabilmente anche la loro anima rispecchiava quel tono lugubre; d’altra parte, come si potrebbe sparare a freddo ad una adolescente senza possedere una grande, triste e profonda oscurità?
Avevano reso il mio quotidiano non molto lontano dagli incubi che mi braccavano di notte, seminando in me l’orribile sensazione di essere in pericolo persino con Stephen. Allungai un braccio per prendere la bottiglietta d’acqua sul comodino, cercando di ignorare l’impulso di girare il tappo e svuotarmela in testa, per riprendermi.
Stavo giusto per sorseggiare quando, tra la libreria di legno e l’angolo della camera vidi materializzarsi un corpo dal nulla.
Strozzando un grido lasciai la presa dalla bottiglietta che si rovesciò sopra le mie ginocchia, per poi rotolare sul materasso creando una pozza d’acqua.
Nello stesso istante in cui una voce profonda e familiare pronunciò il mio nome, io mi allungai sul bordo del letto per accendere l’abat jour.
-“John!”, esclamai tra il sollievo e il rimprovero.
Quest’ultimo emerse dall’ombra e in un primo momento non riuscii a capire cosa volesse esprimere la sua espressione; non era di certo arrabbiato ma, se è per questo, quello che aveva sul volto non era nemmeno lontanamente paragonabile ad un sorriso.
-“Astrid”, ripeté, lanciando un’occhiata furtiva ai lati della mia minuscola stanza,-“che è successo?”
-“Niente. O meglio, ho avuto un incubo, ma tu come…”
-“Hai invocato il mio nome non so quante volte.” Non mi lasciò nemmeno terminare la domanda che mi aveva già fornito una risposta… una risposta a dir poco imbarazzante.
Io avevo fatto cosa?
Fui pienamente consapevole dell’infuocato colorarsi delle mie guance.
-“Ho fatto il solito incubo: mi trovavo in una via ma non c’era anima viva in città, né macchine, né persone, nessun suono. C’erano solo loro: gli agenti dell’ Ultra. Che mi gravitavano intorno e alla fine…”, presi respiro,-“mi sparavano.”
John fece un ghigno, muovendo un passo verso il mio piazzale.
-“Conosco bene questo tipo di incubo.” Si era inchinato sui talloni di fronte a me, sorreggendosi con una mano sul comodino di legno, dove la lampada illuminava completamente il suo bel viso. Fu allora che capii cosa volesse significare lo sguardo un po’ accigliato che aveva prima: la sua era preoccupazione.
John era preoccupato per me e, ancora per una volta, era corso in mio aiuto.
Adesso, però, nei suoi occhi vi lessi un genuino sollievo per aver constatato che l’unica minaccia presente nella stanza si trovava negli anfratti della mia mente.
-“Finiranno mai?”, chiesi in un sussurro, sorpresami commossa per averlo al mio fianco.
-“Solo se tu glielo permetterai. Vedi, Astrid, è il solito discorso: non devi lasciarti dominare dalla paura. Credevo che ti fossi sbloccata.”
-“Era quello che credevo anche io, John”, mormorai torturando un lembo della coperta azzurra,-“vorrei poter essere come te; riuscire a vivere con la consapevolezza che nel mondo esiste una specie soprannaturale, che vive una guerra nell’ombra, una guerra a cui appartengono persone che hanno tentato per due volte di eliminarmi…vorrei poter mettere piede fuori casa senza essere accompagnata dai miei genitori o dalla paranoia. Domani tornerò a scuola, e non so come potrebbe andare.”
-“Tu non vorresti essere davvero come me, Astrid.” Sorrise, inclinando il capo e alzandosi in piedi.
Lo seguii con gli occhi mentre curiosava nella mia stanza con un abbozzo di sorriso ad increspargli le labbra; valutò la mia libreria dondolando il capo, lisciò la superficie della scrivania con un dito fino a picchiettare questo sul grande tomo di matematica, sbirciando poi tra le innumerevoli pagine al limite del comprensibile.
-“Questo è più complicato”, scherzò, continuando il suo giretto turistico.
Percepii le mie labbra distendersi nel primo sorriso spontaneo da quando non lo avevo più rivisto, poggiando il mento sulle ginocchia piegate contro il grembo, su cui un battito curiosamente accelerato ci bussava contro. Avevo cercato di ignorare la vertigine che si era impadronita della mia testa non appena John si era avvicinato a me, con il suo profumo naturalmente selvatico, il volto dolce distorto per l’apprensione, su cui la luce soffusa della stanza si divertiva a giocare, rendendolo ancora più bello di quanto non lo sia. Il modo in cui il mio corpo reagiva alla sua presenza –tremando appena, in una maniera più piacevole rispetto ai tremori della paura- era una sensazione nuova quanto conturbante. Talmente forte da farmi dubitare se i miei sentimenti passati per Stephen fossero stati veri, e non alimentati dalle mie fantasie, dalla sensazione di abitudine e sicurezza che provavo nel pensare a lui come ad un fidanzato; e compresi che, no, quel tipo di emozione non aveva niente a che fare con quella che John Young esercitava su tutto il mio essere.
Era la prima volta in tutta la mia ordinaria vita che provavo il desiderio di potermi lanciare in un qualcosa che non conoscevo, soprattutto se quel qualcosa mi avrebbe fatta finire dritta nelle sue braccia.
-“Anche essere me comporterebbe la sua buona dose di incubi, ma i miei continuano costantemente ad esistere anche quando apro gli occhi. Tu ora sei al sicuro –anche se fatichi a crederlo- per me non è proprio così.”
Dovetti riprendere in mano il controllo di me stessa per rendermi conto che John , ora, si stagliava a pochi centimetri dai miei occhi assonati, e aveva ripreso il discorso.
-“Ho visto e vissuto cose di cui non si potrebbe cancellarne il ricordo nemmeno vivendo altre cento vite, ma non ho potuto permettere alle mie remore di fermarmi, di rendermi schiavo delle mie paure, di precludermi la possibilità di camminare in questo mondo…quella stessa occasione che stai rischiando di perdere. E non puoi, Astrid Finch, permetterti di farti schiacciare da quello che hai qui dentro.” Si picchiettò con un dito la tempia, per poi allungarlo verso la piazza del letto vuota, nel punto dove io avevo fatto rovesciare la bottiglietta d’acqua.
-“Posso?”, fece.
Annuii, incapace di riprodurre un suono che non fosse un colpo di tosse per schiarirmi la gola improvvisamente arsa. Per non far troppo rumore, muovendosi quasi a rallentatore, John si sedette accanto a me dove nessuno vi era mai stato. Fu strano e oltremodo eccitante sentire l’inclinarsi del letto sotto il peso di un’altra persona.
Ci guardammo un istante negli occhi, in perfetto silenzio, non potendo non domandarmi come quei due specchi azzurri e limpidi potessero aver visto le brutture del mondo. Indagai nel suo sguardo, ma tutto ciò che scorsi fu un animo puro, non corrotto dalla crudeltà della vita. Un moto di ammirazione nei suoi confronti per poco non mi spinse ad avvicinarmi per poggiare il capo sulla sua spalla forte; ma se volevo evitare momenti imbarazzanti dovevo riuscire a governarmi, non assalendolo in un abbraccio impacciato come in passato era accaduto.
-“Il tuo unico incubo dovrebbe essere la stanza di Stephen, di primo mattino quando sembra che due bombe siano esplose dal nulla”, mormorò, riempiendo il silenzio della notte con una risata argentina, che gli illuminò il viso. Mi unii al suo beffeggiamento, ridacchiando.
-“Già”, convenni, dunque,-“sei ancora ospite di quella tana o caverna…o come vuoi chiamarla.”
-“In realtà sono tornato nel Rifugio. Sai, qualcuno poco meno di qualche giorno fa mi disse di affrontare ciò che mi bloccava nel tornare a casa. Davvero bizzarro, considerando che quella persona, adesso, si trova rannicchiata in un letto, con una papera stampata sul pigiama a gridare il mio nome.”
Come se le sue parole mi avessero di colpo denudata mi portai le lenzuola al petto, nascondendo alla sua vista l’effettiva ed enorme papera che albergava sul davanti del mio pigiama rosa.
-“Ormai l’ho vista. Ma ho visto pigiami peggiori.”
-“Tipo? Prova a confortarmi.”
-“Il pigiama di Stephen.”
Mi accigliai.
-“Ma non dorme in boxer, lui?”
John sospirò: -“appunto.”
Restammo un istante a mirare entrambi un punto imprecisato di fronte a noi poi, come se avessimo stipulato un tacito accordo, lasciammo sprigionare la grassa risata che ci sconquassò.
Prima di allora non mi ero nemmeno resa conto che sul mio petto gravasse un enorme macigno e che quella risata liberatoria me l’aveva strappato via, permettendomi di respirare meglio.
Fui invasa da una deliziosa sensazione di vita, di libertà e di infinite possibilità perché, scoprii, ero ancora capace di ridere, di ritrovare un controllo e tutto questo grazie all’unica persona che è stata in grado di raggiungermi nel punto in cui mi ero lasciata andare, prendendomi per mano affinché mi guidasse fuori dal labirinto di paure in cui non finivo mai di perdermi, inesorabilmente.
-“Io ce l’ho fatta. Ora sta’ a te. Un passo alla volta, senza fretta e sarai di nuovo libera. Fidati di me, Astrid, questa volta sul serio, d’accordo?”
-“D’accordo. Mi fido di te, John. Come life coach non sei niente male, in fondo.”
-“Perché adesso non provi a dormire? E’ quasi l’alba.” Mi suggerì, lasciando andare il capo contro la spalliera del letto e, a giudicare dalle ombre violacee sotto gli occhi, John doveva essere stremato dal sonno perduto almeno quanto me. In colpa e assonnata quel tanto che basta per diventare audace, gli domandai:
-“Resti con me?”
Non c’era stato nemmeno il bisogno di rispondermi; semplicemente, John si limitò a scivolare sotto le coperte, abbassando le palpebre, invitandomi a fare altrettanto. Gli diedi le spalle e allungai un braccio per spegnere l’abat jour. Piombammo immediatamente in un’oscurità opprimente ma che, grazie alla sua presenza, divenne quanto meno tollerabile. Mi cinse inaspettatamente da dietro, scansandomi i capelli con le mani, dunque il mio collo fu solleticato dalla peluria bionda ed incolta della sua mascella. Senza dire una parola, cullandomi nel torpore del suo corpo contro il mio –e nella magnifica sensazione di aver trovato un posto in cui sentirmi al sicuro- lasciai le mie palpebre condurmi nel buio.
-“Astrid?” La sua voce rauca e profonda mi soffiò sull’orecchio qualche minuto dopo, facendomi fremere e ardere in un colpo solo.
-“Sì?”, mugugnai, stremata in un braccio di ferro tra la veglia e il sonno, ove quest’ultimo stava clamorosamente avendo la meglio.
-“Ti ricordi quando mi parlasti della lista delle cose che volevi fare prima di morire?”
-“Mh, mh.”
-“Ne ho una anche io, adesso”, ammise, e per qualche strana ragione che ancora mi sfugge cercai la sua mano per accoglierla nella mia; così, dopo averla trovata, la sollevai vicino alle mie labbra.
-“Il primo punto qual è?”
Non rispose, almeno non nell’immediato.
Rimasi in attesa di una sua risposta non so per quanto tempo, lottando contro l’incoscienza che mi bramava a tutti i costi; eppure John rispose, alla fine. Ma io ero scivolata via, lontano, lontano, in un luogo che non avrebbe potuto raggiungere…o forse sì, come aveva fatto quella sera.
Non m’importava: ero tra le sue braccia, e potevo sognare ancora.


   
 
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