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Autore: whitemushroom    10/03/2014    5 recensioni
Nonostante la guerra sia alle porte, c'è musica nel palazzo di Alexandria. Kuja fa scorrere le dita sul pianoforte, spingendo la regina Brahne una nota dopo l'altra verso la follia che la spingerà a liberare il potere dei maghi neri in tutto il Continente della Nebbia. Ma qualcuno inizia ad intravedere lo schema dell'angelo della morte ...
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Beatrix, Brahne Til Alexandros, Kuja
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Non un Jenoma - e altri racconti.'
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La maschera

Le dita scorrevano sui tasti, leggere, rapide. Aveva in testa la melodia, l’aveva suonata talmente tante volte che non aveva nemmeno bisogno dello spartito. Le note salivano e scendevano esattamente nella direzione che lui sceglieva, più pure di qualsiasi anima; appoggiò il piede sul pedale ed il suono si prolungò, dando tempo alla sua mano destra di raggiungere i tasti più distanti e riprendere la musica con un tono più delicato senza però interrompere quella meravigliosa armonia. Era come disegnare una circonferenza, perché tutto andava e veniva, morbido, senza alcuna imperfezione.
“Kuja”
Aveva parlato troppo presto. L’imperfezione arrivò, e le dita persero il ritmo. Cercò di recuperare il disegno evanescente, con il mero risultato di sbagliare tasto e creare un suono totalmente sbagliato.
“Kuja, mi stai ascoltando?”
Sospirò tra sé, abbandonando la musica. La piccola clessidra d’oro sul pianoforte gli fece notare che erano passati almeno cinque minuti da quando aveva appoggiato le dita sui tasti. Cinque minuti in cui la regina aveva probabilmente parlato da sola senza rendersi conto che la sua testa era altrove. “Certamente maestà. Ma non posso farci nulla, la Sua voce è una fonte d’ispirazione irresistibile, ed il pianoforte una tentazione troppo grande”.
La donna si profuse in un sorriso con la sua bocca gigantesca. Disgustoso pachiderma.
“I maghi neri che mi hai portato non sono sufficienti! La mia flotta è abbastanza grande da poterne ospitare ancora qualche centinaio, non si può accelerare la produzione?”
“Accelerare vuol dire rischiare di avere prodotti difettosi, maestà. E non mi perdonerei mai se quelle bambole si guastassero proprio nel momento del bisogno; ci sono stati dei casi isolati, ma vorrei evitare che questi difetti si propagassero in tutta la serie. Sa quanto sono scrupoloso su certe cose …”
“No che non lo so. È difficile capire cosa ti passa per la testa, sai?”
Come se una come te potesse vedere oltre il suo stesso grasso…
Contò fino a tre prima di voltarsi. Occorreva concentrazione per dipingere un perfetto sorriso falso. La maschera preferita della donna. “Sono certo che se fossi un libro aperto Sua maestà non troverebbe piacere nella mia presenza. Che diletto c’è nello sfogliare un libro se già se ne conosce il finale?”
La regina gongolò, quasi come se quelle parole fossero un complimento alla sua arguzia. Si avvicinò al tavolo, e spostò i candelieri e le sue scartoffie su un angolo per fare spazio ad un rotolo che aprì lentamente. Il grande foglio occupava tutto il tavolo, e Kuja abbandonò il suo morbido sgabello per osservare l’unica cosa che lo aveva spinto a rimandare di qualche ora l’attacco ad uno stormo di draghi neri. La luce rossa delle due candele colorò i confini orientali di Alexandria come un incendio; la donna contemplò estasiata la forma del Continente della Nebbia e fece scorrere il suo dito flaccido nel punto dorato che rappresentava la capitale. Un secondo dito scivolò verso ovest, dove la mappa si tingeva di grigio. “Burmesia sarà la prima a cadere”.
“Burmesia, maestà?” rispose, fingendo stupore nella sua voce. Eccellente.
“Certo che sì! Sono certa che quei ratti di fogna nascondono montagne di oro nelle loro viscide grotte! Con le loro ricchezze potrò finalmente potenziare le mie aereonavi per sferrare un vero attacco su Lindblum!” sogghignò, ed il fetore di quella bocca superò qualsiasi suo incantesimo protettivo. La mano libera della regina scivolò nella parte sud-occidentale della mappa, diretta verso la barriera dorata che separava la città della scienza dal resto del continente. “Con i tuoi maghi neri e gli eidolon di Garnet, nessuno potrà opporsi al potere di Alexandria!”
“Parole degne della dea della guerra, maestà!”
Kuja tirò un sospiro di sollievo. Il momento si stava avvicinando. Aveva atteso oltre dodici anni. La donna parlò di nuovo, spostando sulla mappa dei piccoli modellini di soldati ed aereonavi, ma davanti a lui c’erano solo anime, fuoco e sangue. Su quei campi di battaglia c’era il potere di cui aveva bisogno, come se per la prima volta dopo tanto tempo tutti gli ingranaggi che aveva disposto sul suo cammino avessero iniziato a girare insieme, aprendogli la via che fino a quell’istante non aveva potuto che sognare.
Trema, Garland. Trema.
Riusciva quasi a sentirlo. Riusciva quasi a gustare sulla sua pelle il flusso di anime che si sarebbe sollevato dalle grotte di Gizamaluke fino alle pianure di Lindblum. Un vortice impetuoso che sarebbe scaturito dagli esseri umani e sarebbe giunto fino all’Albero di Iifa, e che stavolta non sarebbe giunto nelle mani di Garland e dei suoi stupidi fantocci. Sarebbe stato suo, e solo suo. Avrebbe restituito al suo creatore tutto il sangue e le lacrime che aveva dovuto ingoiare dal giorno della sua creazione. Se davvero nella principessa Garnet dormiva il potere di Bahamut, il re dei draghi, avrebbe potuto unire la propria forza a quella dell’indomito eidolon, e allora … “Kuja?”
Si voltò, quasi sorpreso dal tono di voce della donna. Gli dava le spalle. I suoi occhi avevano abbandonato la mappa ed i modellini, ed erano fissi sul grande ritratto ad olio che occupava quasi tutta la parete della stanza. Il suo gatto scivolò dal letto e le si strofinò contro le caviglie, mandando un miagolio sommesso. “Sei sicuro … sei sicuro che Garnet non soffrirà?”
“Ma certo, maestà”.
Non aveva mai prestato più di un’occhiata a quel quadro; il soggetto era disgustoso, sgraziato, che colpiva lo sguardo solo per le forme grottesche che vi erano dipinte. Si era semplicemente abituato a non prestarvi attenzione. Eppure, nel pronunciare quella semplice bugia, gli sembrò quasi che le tre paia di occhi fissate nella tela si voltassero nella sua direzione. Quelli della bambina erano piccoli e taglienti, feroci come aghi; lo osservavano mentre si arrampicava sulle forme enormi della madre, stringendole il collo con le sue esili braccia. La donna aveva lo stesso sguardo vuoto della regina, solo con qualche rotolo di grasso in meno ed un abito molto più sfarzoso della veste da camera che la figura taurina sfoggiava in sua presenza.
Ma erano gli occhi dell’uomo che lo ferivano.
“Si fidi di me. L’ho mai delusa in qualcosa?”
Un viso anonimo. Era entrato centinaia di volte in quella stanza, ma non sarebbe stato in grado di dire se il vecchio re fosse alto o basso, bruno o biondo, grasso come la sua consorte o magro come un dito. Nemmeno in quel momento. C’erano solo i suoi occhi scuri che gli intimavano di andarsene. Estraneo, dicevano, estraneo.
Istintivamente fece un passo indietro. Era solo una figura dipinta, ma Kuja sentì il bisogno di guardare da un’altra parte.
“Il rituale per l’estrazione degli eidolon non è poi così complesso. La ragazza avrà al massimo qualche giramento di testa nei giorni successivi. E per la principessa cosa sarà mai un piccolo mal di testa davanti alla gloria della sua adorata madre?” respirò, quasi a fatica. Non aveva mai sentito il bisogno così forte di andarsene. Il cuore gli batteva dentro le tempie e nello stomaco, ed il fumo delle candele si era fatto più acre. Si avvicinò alla donna, e con delicatezza le sfiorò la guancia con il dorso della mano; nonostante il grasso era ruvida al contatto, ma Kuja scivolò lentamente fino alla punta del mento. “Un piccolo mal di testa per la gloria di Brahne Raza Alexandros XVI …”
La regina gli sorrise, e Kuja soffocò il senso di vomito con un profondo inchino. La commedia era durata abbastanza, e la maschera dell’adorabile cortigiano iniziava a bruciargli il viso. “Con permesso …”
Lasciò la stanza con un unico, fluido movimento. La porta si chiuse alle sue spalle senza emettere nemmeno un rumore, e scese le scale con un passo più affrettato del dovuto, ignorando lo sguardo inquisitore delle quattro guardie davanti alla stanza. I soldati della regina erano abituati alla sua presenza, e lui aveva imparato a lasciarsi alle spalle il loro mormorare. Non aveva importanza, dopotutto. Faceva tutto parte dello spettacolo.
Uscì sul primo balcone che riuscì a trovare, e solo quando l’aria fredda delle ultime luci del giorno lo avvolse riuscì a calmare i battiti del suo cuore.
Pioveva.
Si strofinò contro un fianco la mano che aveva toccato la donna-elefante, poi lasciò andare tutto il suo corpo alla pioggia. L’acqua gli scivolò sulla pelle e tra le labbra, ed in un attimo gli abiti aderirono alla sua figura. Riempì i palmi fin quasi a vedere il proprio riflesso, poi lanciò le poche gocce d’acqua contro il cielo, quasi a rispedirle alle nuvole. Si avvicinò alla balaustra marmorea e guardò in basso.
Gli piaceva la pioggia. Non le quattro sporadiche gocce d’acqua dell’autunno di Alexandria, ma il rumore del temporale scrosciante che batteva il ritmo sulla sua pelle, quello dove si poteva ascoltare il brontolio del tuono in lontananza. Il tempo ideale per volare. Si mise seduto sulla ringhiera, con le gambe nel vuoto nonostante i dieci piani d’altezza; sentì la presenza del drago d’argento in lontananza, a caccia lungo la costa, e capì che avrebbe dovuto aspettare almeno venti minuti prima di poterle salire in groppa ed arrivare alle nuvole sfidando il vento.
La pioggia aveva preso la città alla sprovvista: anche da quella posizione poteva vedere la gente correre alla ricerca di un riparo, mentre i negozianti riponevano in gran fretta le loro merci all’interno dei negozi. Come al solito le guardie erano più d’impiccio che altro, ed i Plutò marciavano in file decisamente scomposte verso gli argini del fiume; poteva sentire le acque gonfiarsi.
Aveva compreso con gli anni che gli umani odiavano la pioggia; i Burmesiani la tolleravano, abituati com’erano alle acque perpetue della loro capitale, ma gli umani e la maggior parte dei bipedi la temevano. Gli piaceva osservarli da lì: le figure colorate disegnavano una figura intricatissima, e si trovava spesso ad immaginare come cambiare quella figura, quella disposizione, come una qualsiasi piccola variazione –come quella pioggia improvvisa- potesse mutare tutto e costringerli a rappresentare qualcosa di nuovo sotto i suoi occhi. La guerra stava per iniziare, e quel disegno sarebbe cambiato.
“Ci siamo quasi …” sussurrò tra sé, accarezzando la sua lunga piuma di drago.
Non poteva permettersi errori.
Oltre il muro d’acqua scrosciante poteva vedere l’enorme impalcatura che avrebbe accolto la corte reale per la festa in onore del sedicesimo compleanno della principessa Garnet. Sebbene la fanciulla fosse nelle sue stanze nell’ala opposta del palazzo poteva sentire sin da quel balcone la magia che le ruggiva dentro, i tre eidolon ormai maturi che scalpitavano dentro il suo petto, chiamavano, esigevano di uscire. Una forza incredibile, un turbine che chiamava il suo stadio Trance; una vibrazione calda che avrebbe potuto definire estatica se non fosse stato costretto a sopprimerla dentro di sé. Con quei tre eidolon –e Alexander, se fosse riuscito a localizzare il quarto frammento della sua essenza- avrebbe avuto abbastanza potere da vendicarsi del suo creatore senza la necessità di ricorrere al mostro dalla criniera rossa che continuava a deriderlo.
I giorni successivi sarebbero stati vitali. Non poteva giocare liberamente, il desiderio di vendetta non doveva rovinare il suo perfetto ingranaggio. Non era l’unico predatore che si aggirava nel palazzo di Alexandria. Né il più pericoloso.
Un paio di passi si avvicinarono nella sua direzione, senza cercare di nascondersi.
Come direbbe quello stupido comandante dei Plutò … lupus in fabula …
La figura si fermò a due passi dalle sue spalle. Non sembrava intenzionata ad andarsene. Kuja non aveva nemmeno bisogno di voltarsi per sapere a chi appartenessero quell’occhio che probabilmente lo stava fissando con disprezzo.
Una sola persona poteva rimanere immobile in quel temporale. “Shogun Beatrix, non trova che sia una meravigliosa giornata?”
“Come fai a sapere che sono io?”. La voce che gli rispose era secca come una pietra che batteva sul legno.
“Non bastano di certo poche gocce di pioggia per nascondere il profumo della Rosa di Maggio …” disse con calma. Era in quel palazzo ormai da qualche anno, ma le conversazioni con la comandante dell’esercito regio erano state quasi sempre ridotte a rapidi monosillabi. E mai di cortesia.
“Tieni per qualcun altro queste frasi da damerino e usa la tua galanteria per voltarti quando ti parlo!”
Il volo avrebbe dovuto attendere; i prossimi minuti minacciavano burrasca, ma in fondo non poteva dire di esserne sorpreso. Aveva sempre sospettato che prima o poi quella donna sarebbe venuta a presentargli il conto. Si girò, sistemandosi la piuma tra i capelli bagnati; rimase però seduto sulla ringhiera per guardare dall’alto in basso la donna alta e dalle spalle larghe che lo avrebbe spinto di sotto soltanto con lo sguardo. Dei tanti aggettivi che conosceva, gradevole era l’ultimo che avrebbe usato per definire lo shogun Beatrix. “Un palcoscenico piuttosto umido per un’intima chiacchierata …”
“Cosa stai facendo alla regina, Kuja?”
Pessimo tempismo … “Fare? Io?” gli anni di menzogne gli costruirono sul viso un’espressione piuttosto risentita, ma sapeva benissimo che non avrebbe mai funzionato con il predatore davanti a lui. Aveva sempre trovato qualche difficoltà nell’assegnare un ruolo all’imperscrutabile soldato nella tragedia che stava preparando. “È forse una colpa levare le preoccupazioni ad una donna tanto sola offrendole qualche nota ed una delicata poesia?”
“Ed un esercito di maghi neri, se permetti la precisazione …”
“Oh, sì, le mie piccole bambole …”
“Bambole piuttosto pericolose, oserei dire. Bambole che vengono armate sulle mie navi e che non sono certo per decorare i compartimenti. La regina sta preparando una guerra …” l’unico occhi scuro della donna sembrava attraversargli la testa “… e davanti a me non vedo altro che un viscido mercante d’armi che avrebbe tutti gli interessi a far sprofondare il mio paese nella rovina”.
Mercante d’armi.
A volte dimenticava di indossare anche quel costume. Era una maschera poco graziosa, noiosa da vestire, ma necessaria: persino il minuscolo cervello soffocato nel grasso della regina avrebbe sospettato qualcosa se le avesse offerto delle favolose e nuove armi senza chiedere nulla in cambio. Era molto più divertente bearsi delle luci di palazzo, dei mille colori dei vestiti dei nobili e della musica come un semplice cortigiano; scivolare tra i sorrisi delle donne e qualche elegante baciamano. Gli piaceva lasciar scorrere qualche ora in mezzo a quel caleidoscopio che probabilmente la guerra non avrebbe nemmeno intaccato, e le chiacchiere maligne dei duchi e delle baronesse servivano solo a strappargli qualche risata quando si spogliava di tutto e volava fino a toccare il cielo. “Se permette, shogun Beatrix, credo che lei abbia visto un po’ troppi melodrammi …”
“Da quale pulpito viene la predica!”
“Vediamo un po’ … Potrei essere un uomo molto ambizioso e infido … Una persona che crea uno stato di tensione incredibile tra i vari regni di un continente fino a spingerli alla guerra, finanziando segretamente entrambe le fazioni e donando a tutti delle armi sempre più potenti che le condurranno allo stremo. Un essere che solo a quel punto si dimostrerà amico di tutti, e che prenderà il potere nelle sue mani per mantenere la pace, per una società più salda e più sicura!” Da un vaso proprio alla sua destra staccò un fiore bianco e lo gettò ai piedi della donna “… una trama davvero interessante, mia signora. Potrebbe essere l’idea per un bello spettacolo, ma temo che sia un po’ troppo esagerato per la realtà”.
I capelli dello shogun erano ormai una massa umida e informe, e li scansò con una violenta mossa del capo; guardò verso il fiore ai suoi piedi e, dopo un rapido sguardo di sfida, lo calpestò con lo stivale. I petali bianchi si unirono all’acqua e diventarono un’orribile poltiglia. Kuja stava per risponderle a tono, ma quando si chinò per raccogliere quello che rimaneva del fiore si trovò con la punta di una lama proprio davanti al ventre. “Forse non ci siamo capiti …”
Il cuore iniziò a battergli fin dentro le orecchie. La voce del soldato sembrava distorta, come se venisse dal fondo del mare. “Un’altra parola e dovrai andare a cercare la tua lingua nel pozzo più profondo del palazzo, Kuja!”
Si sporse in avanti, pronto a saltare. Non c’era una sola fibra del suo corpo che non volesse scagliare una pioggia di ghiaccio sul nemico e vedere il suo sangue sul pavimento. Sarebbe stato appagante prenderle l’anima, per poi rimanere ad osservare la pioggia che lavava via il sangue; scese di scatto dalla ringhiera, e sfiorò il metallo della spada con la pelle del ventre. La donna non la arretrò di un palmo. Gli sibilò qualcosa, ma un rombo di tuono coprì le sue parole.
“Non mi piacciono le minacce”.
“Guarda un po’, a me invece piacciono moltissimo … altrimenti non sarei venuta fino alla tua viscida presenza”. Secondo rombo di tuono. “Se scopro realmente che stai ingannando la regina per qualche tuo sporco fine non basterà nemmeno la Sua parola per impedirmi di farti a pezzi. O uno stormo delle tue lucertole troppo cresciute”.
Era facile. Anche troppo facile.
Gli sarebbe bastato saltare su quella spada ed afferrarle la gola. Oppure far correre un fulmine su quella bell’arma appuntita e friggere lo sprezzante shogun. Strinse la coda contro la coscia mentre la magia iniziò a pizzicargli la punta delle dita. La bestia dalla criniera rossa, quella che si affacciava durante la Trance, gli rise nella parte più lontana del cervello, reclamando la sua parte; cercò di ignorare quella voce simile al ruggito di un mostro, concentrandosi solo sulla spada, sulla donna e sul muro d’acqua che li separava. Non sarebbe stato diverso da un ballo molto veloce.
Poi si ricordò della maschera.
Stava per lasciarla cadere, la sentiva quasi scivolare via dal viso. E quello che c’era sotto … odiava quello che c’era sotto.
La recuperò proprio all’ultimo, quando la magia già gli aveva infiammato i polmoni. Se la sistemò con grazia, sperando che la donna non avesse visto il suo volto cambiare, o il desiderio di sangue mutarsi in un’espressione triste, debole e preoccupata. Sospirò, portandosi una mano alla fronte. “Davanti a simili argomentazioni non posso che restare senza parole, davvero …”
Non è questo il momento.
Appoggiò la mano sul filo della spada, come per scansarla. “Ma riponga questo ferro, mia signora. Qualcuno potrebbe farsi male”. Non io.
“Il tuo bel faccino ne risentirebbe …”
“Invero. Inoltre detesto la violenza” sussurrò, spostandosi di lato. Le braccia della sua avversaria erano tese, ma la spada non seguì il suo movimento. “Specie quando il suo messaggio è stato così chiaro. Se dipendesse da me questa guerra non inizierebbe nemmeno, anzi … cercherò di convincere la regina a desistere da questo progetto. La guerra è una cosa abominevole, dispendiosa ed anche terribilmente antiestetica!”
Lei aspettò un attimo, poi rinfoderò la spada. Il rumore del metallo calmò del tutto i battiti del suo cuore, che riprese a battere al ritmo della pioggia; il suono che annunciava la fine delle danze. Il comandante lo fissò di nuovo, poi sputò per terra. “Ti ho detto di risparmiare le parole. Mi basta solo averti avvisato. Se fossi in te mi prenderei una lunga vacanza a Toleno in questi giorni …”
“Mai consiglio è stato più saggio” sussurrò con un mezzo inchino, ma la donna gli aveva già dato le spalle ed era scomparsa a passo veloce all’interno dell’edificio. Kuja sospirò, aggiungendo quell’inchino alla lunga lista delle cose che avrebbe fatto pagare alla regina Brahne ed alla sua insopportabile guardia del corpo il giorno che il suo piano si sarebbe realizzato. Si piegò per raccogliere il fiore; i petali si afflosciarono tra le sue dita, altri si disintegrarono in una poltiglia informe. Lo appoggiò nel vaso, vicino agli altri fiori ancora sani, disteso nel terriccio bagnato. Gli sarebbe piaciuto farlo sbocciare di nuovo, ma la sua magia non glielo avrebbe mai permesso.
Era un angelo della morte, e poteva solo distruggere.
Una folata di vento più forte del solito gli sollevò i capelli umidi. “Mi stavo chiedendo quanto tempo ci avresti impiegato a sbranare quell’umana, socio!”
La massa argentata scivolò sopra di lui, ed il corpo del drago scese dal cielo con un movimento fluido. Il balcone non era abbastanza grande per la sua figura, ed appoggiò le zampe posteriori proprio sulla ringhiera mentre la lunga coda scivolava verso il basso. Erano passati molti anni dal loro primo incontro, ma Kuja non riusciva a rimanere indifferente quando le grandi ali piumate si spiegavano e coprivano tutto il suo campo visivo in un intreccio di bianco, rosa ed argento. Dal fondo della gola partì un ringhio basso che avrebbe scoraggiato qualsiasi altro umano ad avvicinarsi, anche se in quel momento nessuno avrebbe usato mettere piede su quel balcone. L’ultimo Plutò che ci aveva provato si era ritrovato con un arto di meno.
“Da quanto tempo stavi guardando?”
“Abbastanza” tintinnò con la sua voce che gli scivolava dentro la mente. Sembrava parlare ad ogni fibra del suo corpo. “È la prima volta che vedo una femmina puntarti una spada invece di capitolare ai tuoi piedi! Il tuo fascino sta perdendo colpi?”
“Smettila …” le toccò il fianco, grato del calore che emanavano le squame. Sotto quell’ala tutto perdeva significato. Era l’unico posto dove riuscisse a dimenticare persino le lezioni di Garland. “Lo shogun Beatrix mi serve viva. Quella palla di grasso della regina non riuscirebbe a vincere da sola una guerra nemmeno se le quadruplicassi le scorte dei maghi neri”.
“Davvero l’hai risparmiata? Ed io che pensavo che fossi scappato con la coda tra le gambe … passami il gioco di parole …” ridacchiò, per quanto fosse possibile per il suo muso triangolare. Chinò la testa proprio verso di lui, fissandolo con i grandi occhi neri privi di iridi, invitandolo a salire con un colpetto. “L’hai lasciata andare solo per questo?”
Forse.
C’era anche qualcos’altro, qualcosa che la sua compagna di volo non sarebbe riuscita a capire nonostante l’unione delle loro menti. Uscì dal riparo offerto dall’ala e con un solo salto si trovò sulla sua schiena, con la grande spina dorsale tra le sue gambe che si piegò mentre dispiegava le ali per prepararsi al volo.
Aveva rischiato di perdere la maschera e di mostrare il volto dell’attore. Lo spettacolo sarebbe stato irreparabilmente rovinato se l’angelo della morte avesse fatto la sua comparsa prima del tempo. Era meglio lasciare il cortigiano o il mercante d’armi sulla scena, lui stesso le trovava delle figure davvero affascinanti.
“Diciamo di sì …”
È questo che mi piace delle maschere. Impediscono di vedere ciò che c’è sotto.
Prese la sua, e la appoggiò delicatamente su quel balcone; l’avrebbe indossata al suo ritorno, quando la magia che gli pulsava nel cuore si sarebbe placata e il cielo si sarebbe rasserenato. Sarebbe rimasta lì, ad aspettarlo, perfetta nel suo vestito di lusinghe e bugie; non gli dispiaceva indossarla, ma era superflua quando sfiorava le nuvole. Appena la lasciò sentì una nuova aria entrargli nei polmoni.
“Ma adesso andiamo”.

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N.d.w. L'idea iniziale era un rapidissimo dialogo con Brahne e poi un incontro / scontro con Beatrix con tanto di coreografia. Poi il mio "rapidissimo" si è evoluto in un paio di pagine di Word che mi piacevano e non volevo tagliarle, mentre per il pezzo con Beatrix mi sono resa conto che sarebbe stato assolutamente fuori posto farli sfidare per poi farli convivere sotto lo stesso tetto come si vede nei primi dischi di FF IX. L'idea di far ruotare tutto intorno alla maschera mi è venuta molto dopo ed ho dovuto riprendere praticamente la storia in mano. Mi auguro che piaccia!

La prima parte l'ho scritta pensando che Kuja stesse suonando il suo tema (il primo, non quello della boss battle finale). Certo, siamo ben lontani dal tema One Winged Angel, però a modo suo credo che questo tema sia inquietante, perché è delicato e terribilmente subdolo allo stesso tempo. Ho provato a descriverlo nel testo, ma senza eclatanti risultati.
  
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