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Autore: Maiwe    11/03/2014    2 recensioni
La storia di Thranduil e Legolas, dalla loro fuga dal Doriath alla IV Era.
Una mia visione delle loro vite ispirata ai vari Racconti tolkeniani, cercando di rispondere alle tante domande che avvolgono le loro figure, così importanti eppure così schive e poco inclini a farsi raccontare.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo si era fermato.

Palpitava, il tempo, pulsava nelle mie tempie, sotto le mie palpebre chiuse, e in tutto il mio corpo; ogni muscolo era teso, lo sentivo, sorpreso, sopraffatto, tremante.

Il mare, intorno a noi e alle nostre spalle, lasciava vibrare solamente qualche nota, a tratti, proprio come un'onda. Ne percepivo i rumori tra un respiro e l'altro, completamente avvolto.

Il tempo aveva iniziato a fermarsi non appena avevo lasciato casa mia, la mia gente. Il tempo si era dilatato, ed era un tempo che profumava di una libertà mai provata prima: via, lontano, viaggiare, e nei tempi di pace ancora tutti da scoprire era una sensazione inedita.

Avevo attraversato Rohan e la grande foresta di Barbalbero, Fangorn, con Gimli. Avevamo viaggiato per mezzo mondo conosciuto, io e lui, due fratelli. Semplicemente fratelli. Oltre l'amicizia, oltre rancori che non ci appartenevano e che avevamo capito non esserci mai appartenuti, rancori figli di un'epoca buia. Un amico leale, Gimli, come lo era Aragorn.

Avevamo soggiornato anche a Gondor, per lungo tempo, ospiti del re, suoi bracci destri, legati in eterno da amicizia profonda. E l'amicizia che mi legava a quelle due creature così diverse, con le quali avevo affrontato vita e morte, era diventata, se possibile, ancora più salda, un voto: non avremmo lasciato Gondor finché il suo re fosse stato in vita.

Fu con dolore, e perdita, quindi, che una mattina di prima estate, una mattina colorata di rosso da un sole che si andava levando pigro, io e Gimli salpammo dai Porti Grigi, lasciando la Terra di Mezzo.

Avevo costruito con le mie mani una barca. L'avevo ricavata da un piccolo albero che avevo conosciuto là, ai Porti Grigi, un albero che stava lentamente avviandosi alla morte. Una piccola quercia molto simile a quelle che erano solite crescere a Eryn Galen, non molto differente da esse. Ritenni che quel legno sarebbe stato perfetto per il mio addio a quell'immensa parte di mondo.

Iniziai a lavorarlo quando, ormai, riconobbi sul volto di Elessar i primi segni di una resa: stava scegliendo il momento adatto per morire, il re di Gondor, e io scavavo, pulivo e lavoravo, raffinavo, quel legno grigio tanto bello e nodoso. La morte era una sensazione di freddo, di gelo, in fondo al mio cuore, e mi sentivo stanco. La mia sete di scoperta e di vita non si sarebbe esaurita lì.

Salpammo dai Porti Grigi una mattina di prima estate, dunque, e l'aria era fredda. Lasciavamo su quella banchina di pietra, e lo sapevamo, un'Era intera. Cambiamenti e conquiste, ormai ricordi.

Ricordo la lettera che giunse dal di là del Mare: Dama Galadriel concedeva a Gimli il Nano di raggiungere Valinor. Era destino che, ovunque andassimo, io e quel mio imprevisto amico – eravamo davvero una strana visione, agli occhi di molti – portassimo il cambiamento.

Ricordo lo sguardo di mio padre, e il dolore che difficilmente riuscivo ad ammettere nel separarmi da lui. Ricordo i nostri occhi incrociarsi a malapena, nel momento dell'addio. Un addio formale, di un re esperto e con la vocazione per essere una vera guida per il suo popolo a un eterno principe, che non aveva una corona con sé, perché non gli spettava. I secondogeniti hanno uno strano destino, di eterna sudditanza, di non appartenenza alle linee gerarchiche; non era mia quella corona che mio padre voleva indossassi.

Quando ci salutammo, quando lasciai casa, pensando “questa volta è per sempre”, mi disse solamente “Fai attenzione”. Mi sarebbe mancata la sua posatezza, e la sua severità. I suoi silenzi che raccontavano sempre tutto come un libro aperto.

Un libro. Fu proprio un libro l'unico regalo di Arian, un libro che ero solito amare, da giovane. Lo presi dalle sue mani e la abbracciai forte, sicura che si sarebbe presa cura di mio padre e della mia casa come sempre aveva fatto. C'era un foglio, all'interno del libro, una pagina strappata da un'altra storia: non so quale libro fosse, ma riguardava una piazza, una piazza di un paese, affollata a festa.

Capii la referenza solamente quando ormai mi trovavo in alto mare, lontano.

Tutto mi tornava alla mente, in quel momento. Tutto quanto mi ero lasciato alle spalle, dolorosamente ma con decisione. Persino la mano salda di Gimli che afferrava, fiduciosa, la mia, quando si decise finalmente a salire a bordo. Persino il suo comico mal di mare che era durato tutta la traversata e si era intensificato con l'avvistamento di grossi nuvoloni neri sopra la nostra testa.

La testa mi vorticava, e non riuscivo a smettere di godermi l'attimo, non avendone mai abbastanza, abbracciando quella veste blu con delicatezza, un lungo abito blu intenso, intenso come i capelli di lei, scuri come la notte, voluminosi, in cui affondare le mani.

Respirai a fondo, serrando improvvisamente le labbra. La guardai negli occhi e mi resi conto di essermi completamente, profondamente e irrimediabilmente innamorato di lei, di quella donna che tenevo tra le braccia e che mi sorrideva con gli occhi lucidi e le guance rosse.




  
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