Il motel delle notti di neve.
Non ricordo una simile tormenta di
neve dai giorni
lontani della mia adolescenza quando io e miei venivamo a Natale a
trovare la
nonna.
Ogni tanto si scatenavano vere e proprie bufere di neve
in cui era impossibile vedere al di là del proprio naso, era
un piacere quando
eravamo a casa di nonna e una disgrazia quando eravamo in macchina con
mio
padre.
Oggi tocca a me guidare nella neve e non è per niente
piacevole.
“C’è un motel lì,
fermiamoci!”
Esclama Mark a un certo punto, io seguo la direzione del
suo dito e vedo l’insegna luminosa mezzo nascosta dalla neve
di un motel.
Metto diligentemente la freccia e parcheggio nell’ampio
spazio davanti alla struttura.
Scendiamo dalla macchina ed entriamo nell’edificio, una
donna che sembra uscita dagli anni ’60 ci accoglie con un
sorriso cordiale.
“Siete qui anche voi per la tempesta?”
“Sì, è davvero terribile.”
Lei annuisce.
“Siete fortunati, c’è ancora una stanza
libera: la 666.”
Io e Mark ci guardiamo a disagio, una stanza con il
numero del diavolo non promette nulla di buono, ma o questo o la bufera.
“Ehm, va bene.”
La donna ci sorride – il suo sorriso ha una sfumatura di
incomprensibile maligno trionfo – e ci dà la
chiave, qualcosa in questo posto
non mi piace particolarmente, ma non potevamo continuare a guidare in
quelle
condizioni.
La proprietaria ci scorta fino alla camera e ci augura
buonanotte, noi entriamo e depositiamo i bagagli, poi ci facciamo tutti
e tre
una doccia e ci infiliamo a letto.
Ci sono un letto matrimoniale e un lettino separato dal
nostro da un basso muretto, dopo tutto non è male come
stanza.
Nel tepore delle lenzuola appoggiata sul petto di Mark mi
addormento subito.
Jack p.o.v.
Non riesco a capire come facciano
i miei a dormire. io
sento un incessante gocciolio che mi impedisce di prendere sonno.
Forse qualcuno ha dimenticato aperto un rubinetto dopo
essersi lavato i denti. Di malavoglia, mi alzo e mi metto le mie
ciabatte verde
fosforescente e vado in bagno. Il lavandino non gocciola, ma per un
attimo mi è
sembrato macchiato di sangue.
Fiori di sangue rosso vivo contro la ceramica bianca.
Mi strofino gli occhi e tutto torna normale, leggermente
inquieto torno in camera e mi tolgo il pigiama per rimettermi i miei
vestiti.
Il rumore non è affatto cessato e questo hotel emana
quelle che mia zia Anne chiamerebbe “vibrazioni
negative”.
Facendo attenzione a non farmi sentire dai miei esco
dalla stanza e chiudo delicatamente la porta dietro di me. Sono in un
corridoio
con la tappezzeria di un blu scolorito e il pavimento di linoleum a
cerchi neri
e azzurri, sembra di stare dentro a “Shining” e io
mi sento tanto Danny, il
povero bambino.
Cammino per quelle che mi sembrano ore lungo il
corridoio, finché il rumore di acqua che cade si fa
più forte dietro a una
porta. Mia madre mi ha insegnato l’educazione e il rispetto
della privacy
altrui, quindi se adesso aprissi questa porta le farei un torto e
disturberei
uno dei clienti, ma se non l’aprissi non riuscirei a darmi
pace.
Perché diavolo il rumore viene da questa porta e
perché
si sente in camera mia ?
E soprattutto perché i miei non lo sentono?
Sto impazzendo?
Dovrei tornare in camera, ma l’istinto di sopravvivenza
mi dice di aprire la porta e io gli do retta, stranamente non
è chiusa a
chiave. Quello che vedo mi fa venire voglia di urlare, il mio urlo
però mi
rimane fortunatamente in gola.
Mi trovo davanti a uno spettacolo orribile: una donna con
un vestitino a fiori, pende, muovendosi pigra, dal lampadario.
È mezza
scheletro e mezza di carne viva e il sangue cola con una cadenza
regolare.
Perché questa donna è qui?
E perché nessuno trova strano che si sia impiccata e
nessuno chiama la polizia?
Chiudo la porta dietro di me, chiedendomi cosa troverò
nelle prossime stanze, visto che adesso sento un altro rumore: un forte
ronzio.
Forse sono solo api o calabroni, mi dico per calmarmi, ma
non mi credo nemmeno io.
In ogni caso, continuo a camminare e cerco di capire la
fonte del rumore, che è esattamente due porte più
in là rispetto a quella
dell’impiccata.
Apro la porta – non stupendomi più che non sia
chiusa – e
vedo delle mosche che svolazzano intorno a quello che resta di un uomo.
Questa volta non reggo e vomito sulla porta, prima di
richiuderla.
Dove diavolo siamo capitati?
Mi asciugo i
residui con la manica e cerco di andare verso la hall, giusto poco
prima di arrivarci noto
un quadro che prima non avevo notato.
È una natura morta con un ananas e una pera, solo che
nell’ananas c’è una finestrella in cui
si vede mio padre urlante e nella pera
una finestra con mamma, sotto ai due frutti c’è
una macchia che sembra sangue e
ho la sgradevole sensazione che sia il mio.
In ogni caso proseguo e poi mi nascondo dietro una
colonna, tutti gli ospiti sono nella hall.
“Loro due saranno il sacrificio, abbiamo bisogno di nuovo
sangue.”
Sorride maligna la proprietaria, la sua cotonatura fuori moda mi
dà ai brividi
insieme al suo tono freddo e del tutto privo di emozioni. Parla di
omicidi come
si potrebbe parlare del tempo o della politica.
“Il bambino invece rimarrà con noi.”
L’impiccata batte gioiosa le mani.
“Che bello, ho sempre desiderato un bambino.”
“Allora sarai tu a ucciderlo.”
Un brivido corre lungo la mia schiena.
“Ma se non volesse restare qui?”
“Non dire sciocchezze, Elise.
Chi non vorrebbe rimanere qui?
Voi volete rimanere qui, vero?”
Nessuno risponde alla donna e sotto la crosta umana
intravedo il demone che è in realtà. Ho visto e
sentito abbastanza, è meglio
che me ne vada se voglio salvare i miei genitori.
Percorro di corsa il corridoio e mi ritrovo davanti alla
stanza 666, apro la porta e la richiudo e poi scuoto vigorosamente i
miei.
Al primo tentativo ottengo solo dei grugniti, ma non
mollo, continuo a scuoterli finché non si svegliano.
“Cosa c’è, Jack?”
“Dobbiamo andarcene!”
Bisbiglio a bassa voce.
“Come mai?”
“Questo hotel è abitato da fantasmi, nessuno qui
dentro è vivo, a parte noi e
vogliono ucciderci.
Dobbiamo andarcene finché non si sono accorti che io
so.”
“Jack, è impossibile.
Avrai avuto un incubo.”
“Non sono nemmeno andato a letto, non avete visto che non
indosso il pigiama?”
Mia madre mi squadra.
“In effetti…”
“Sentite, io vi ho creduto senza riserve sulla storia di
Poveglia, per favore
credete alla mia storia questa volta.”
Li prego accoratamente, lentamente mia madre annuisce.
“E sia, ti crediamo.”
Escono tutti e due dal letto e si vestono, mio padre con un paio di
jeans, una
felpa e delle comode scarpe da tennis; mia madre con vestitino rosso e
degli
anfibi.
Prendiamo le giacche e apriamo la porta.
“Non possiamo passare per la hall, ma in fondo al
corridoio c’è un’uscita di emergenza,
forse potremmo usarla.”
Mio padre annuisce e si mette subito dietro di me, mia
madre chiude il corteo, spaventata.
Camminiamo facendo il meno rumore possibile, come se
fossimo dei ladri, tutti i nostri sensi sono all’erta e
questa volta anche i
miei sentono tutta una serie di strani rumori che li innervosiscono.
Arrivati davanti a una vecchia porta verde, con un
maniglione anti panico rosso io lo abbasso e immediatamente si propaga
per
tutto l’hotel il rumore forte di una sirena, simile a quella
che avvisa di un
bombardamento in corso.
Merda!
La porta non si apre, io e mio padre gli diamo una
spallata, in fondo
al corridoio si
cedono avanzare i primi fantasmi, mia madre geme sommessamente.
“Dobbiamo uscire, papà.”
“Diamogli un'altra spallata, Jack!”
Gliela diamo e questa volta cede, i fantasmi sono sempre più
vicini e mia madre
stringe convulsamente la mano di mio padre.
Al terzo tentativo la porta cade con un tonfo sordo e
veniamo investiti da una folata di vento e neve, usciamo correndo
scoordinati
come ubriachi. Io e papà siamo quasi arrivati alla macchina
quando sentiamo un
urlo che fa gelare il sangue nelle vene: un fantasma ha preso mamma e
la sta
trascinando dentro,
“Tu stai qui.”
Mio padre torna indietro e afferra le mani di mia madre
tirandola verso di lui, i
fantasmi però
sono testardi e non sembrano volerla mollare così facilmente.
Ci vuole tutta la forza di mio padre per tirarla via,
alla fine ai fantasmi non rimane altro che un anfibio nero in mano, che
viene
scagliato nella neve.
L’immagine di quell’anfibio nero, sporco di sangue
– è
stata l’impiccata a lanciarlo – mi
perseguiterà a vita.
“Jack, svelto apri la macchina.”
Mi lancia le chiavi e io apro la macchina e mi metto
subito sul sedile passeggeri.
Mio padre, poco dopo, depone mia madre sui sedili
posteriori e poi si mette alla guida.
Parte con una sgommata e corre in una maniera assurda
sulla strada coperta di neve e con il parabrezza mezzo coperto da
quello che i
tergicristalli non riescono a togliere.
Dietro di noi sentiamo dei singulti, io mi volto e vedo
mamma in lacrime che singhiozza in posizione fetale, un piede scalzo.
“Mamma, ce l’abbiamo fatta. È andato
tutto bene.”
Le dico per consolarla, lei annuisce tra le lacrime.
Dopo non so quante ore di guida
sotto una tormenta feroce
di neve arriviamo in una cittadina, mio padre tira un sospiro di
sollievo.
“Dici che si sarà un bed & breakfast o
qualcosa del
genere?”
gironzoliamo per un po’ fino a che non notiamo che
– appeso a una casa – c’è un
cartello in cui si dice che lì c’è un
bed & breakfast.
Io e lui scendiamo dalla macchina e suoniamo il campanello,
dopo un quarto d’ora una donna ci apre.
“Ci scusi per l’orario, ma siamo stati colti dalla
tempesta di neve e abbiamo bisogno di un posto dove dormire.”
La donna annuisce, io vado in macchina e convinco mamma a
scendere e prendo quello che si servirà per la notte.
Entriamo in una casa confortevole e alla luce del salotto
probabilmente dobbiamo sembrare pallidi e spaventati, perché
la donna spalanca
gli occhi.
“Ma voi avete bisogno di un the.”
“Non c’è bisogno che si
disturbi.”
Tenta di scantonare mio padre, ma la donna insiste.
“Soprattutto vostra moglie, forse per lei sarebbe meglio
un dito di whisky.”
Io guardo mia madre, è pallida e con gli occhi persi nel
vuoto. Forse qualcosa
potrebbe aiutarla, anche mio padre sembra pensarla così
perché alla fine
annuisce.
“Va bene.”
Poco dopo la donna torna con due tazze di the forte e zuccherato e un
bicchierino di whisky, che mia madre non
tocca.
“Skye, tesoro, ti prego, bevilo! Dopo ti sentirai un
po’
meglio.
Che ne dici? Vuoi farlo per me e Jack?”
Lei allunga una mano tremante e prende il bicchiere, ne beve una
generosa
sorsata e un po’ di colore sale sulle guance.
“Cosa vi è successo?”
Ci chiede la donna.
“Prima di arrivare qui ci siamo fermati in un motel, solo
che non era un motel normale. Era un posto gestito e abitato da spiriti
che
volevano ucciderci.
Siamo riusciti a scappare solo per un colpo di fortuna.”
La donna impallidisce.
“Io credevo che questa storia fosse finita con
l’incendio, ma certe storie non finiscono mai,
immagino.”
“Scusi, potrebbe essere più chiara?”
Chiede mio padre.
“Il motel di cui parlate venne costruito nei primi anni
del Novecento, su un vecchio cimitero indiano. Pochi anni dopo la sua
apertura
cominciarono ad avvenire cose strane là dentro: omicidi,
suicidi, morti
naturali inspiegabili.
I proprietari cambiavano, ognuno faceva del suo meglio
per ristrutturare e rendere accogliente il posto, ma dopo pochi anni
– dopo
ogni cambio di gestione – le morti iniziavano di nuovo.
L’ultimo che ha preso in gestione la baracca è
stato un
tizio del Maryland all’inizio degli anni Settanta, si era
trasferito qui con il
figlio quindicenne per iniziare una nuova vita dopo la morte della
moglie.
Dopo nemmeno quindici giorni trovò il ragazzino morto per
un overdose di eroina, lui ha giurato che non si era mai fatto. Solo
qualche
canna, ma mai ero e quindi ha deciso di mollare e tornare a casa.
Dopo è rimasto disabitato fino a quando, nell’74,
qualcuno
ha dato fuoco alla casa, il sindaco è stato molto felice di
liberarsi delle
macerie o almeno così raccontano gli anziani.
La leggenda dice che durante le notti di neve come queste
riappare per mietere nuove vittime, c’è qualcosa
in quel posto e vi dico che è
vivo.”
Scuote la testa con un brivido, io e mio padre rimaniamo
a bocca aperta per lo shock.
“E voi siete stati lì dentro?”
Annuiamo come baccalà.
“Siete fortunati a esserne usciti vivi, la maggior parte
della gente che si perde in quella zona non torna più
indietro. Ci credo che
sua moglie stia così male.
Si sente meglio, signora?”
“Sì, credo di sì.”
“Bene, allora è meglio che andiate a letto, domani
vi sembrerà tutto migliore.”
Veniamo scortati al piano superiore, la porta della
stanza e di un legno scuro e dentro c’è un letto
matrimoniale con una calda
trapunta e letto più piccolo per me, sembra molto
accogliente.
Ci facciamo tutti e tre la doccia per la seconda volta e
poi ci mettiamo a letto, questa volta non sento rumori strani e mi
addormento
tranquillo.
Non credo che qui ci siano spiriti pronti a ucciderci.
La mattina dopo mi sveglio di buono umore, mio padre sta
bene e persino mia madre sembra migliore rispetto a ieri sera.
“Scusate per la brutta avventura, ma sembra che io sia in
grado di attirare ogni cosa maledetta o demoniaca nel giro di un
miglio.”
“Skye, non è colpa tua. Stava nevicando, eravamo
tutti stanchi e non vedevamo
l’ora di fermarci, nessuno poteva immaginare che razza di
posto fosse.”
Lei sospira e giurerei che le sia scesa una lacrima.
“Grazie per perdonarmi sempre, vo voglio bene.”
“Non c’è niente da perdonare.”
Mio padre abbraccia mia madre e io mi unisco all’abbraccio,
ho il sospetto che
abbia bisogno di affetto.
Dopo questo abbraccio di gruppo scendiamo al piano
inferiore e troviamo una ricca colazione, preparata dalla proprietaria
del
b&b.
“Buongiorno! Come state?”
“Bene, grazie. Abbiamo dormito benissimo.”
Risponde mio “Lei, signora, sta bene?”
“Sì, grazie e
grazie per il whisky di
ieri sera, ne avevo bisogno.”
“Non c’è nulla per cui ringraziarmi, con
la brutta
avventura che le era capitata era il minimo".
“Già, preferisco non pensarci o sto di nuovo
male.”
Rabbrividisce e si guarda i piedi, forse pensando a
quell’anfibio perso nella
neve che non ritroverà mai più.
Ci sediamo a tavola e mangiamo, stranamente abbiamo tutti
appetito, di solito alla mattina sono io l’unica che ce
l’ha.
“Cosa pensate di fare adesso?”
“Di andarcene una volta cessata la tempesta.”
“Giusto.”
Mark guarda fuori dalla finestra, sta ancora nevicando.
“Penso che per il pomeriggio si sarà
placata.”
Lui annuisce, ci guardiamo negli occhi, nessuno sa cosa
fare.
“Beh, esco a comprare il giornale e le sigarette.”
Mormora incerto mio padre.
“Va bene, io rimarrò qui con Jack.”
Lui esce di casa, mia madre invece dà una mano alla nostra
padrona di casa nel
lavare i piatti e poi si siedono davanti alla tv.
Mi sorbisco una telenovela messicana, mio padre –
rientrato – legge il giornale con finto interesse.
Che mattinata noiosa, ma forse ci vogliono anche queste
mattinate per apprezzare il fatto di essere vivi. Non avrei voluto
essere in
quel motel per nessun motivo al mondo.
Alla fine, a causa della neve, la donna è costretta a
prepararci anche il pranzo, sebbene non rientri tra i suoi compiti
Ci prepara delle bistecche piuttosto buone, è gentile con
noi e soprattutto con mamma, ma è palese che non vede
l’ora che ce ne andiamo.
Verso le due smette di nevicare e possiamo finalmente
metterci in viaggio verso New York, dove ci attende un comodo volo per
Londra.
Di solito mi piace stare negli Stati Uniti, ma questa
volta non vedo l’ora di tornare nella cara vecchia
Inghilterra, penso che lì
staremo in pace almeno per un po’.
Saliamo in macchina e salutiamo la signora che ci
risponde sventolando la sua mano e sorridendo, sembra ok, ma ho come
l’impressione che sia segretamente felice di vederci andare
via.
Arriviamo a New York giusto in tempo per prendere un volo
all’ultimo minuto per Londra, mentre allacciamo le cinture
sento mia madre
emettere un debole sospiro di sollievo. Di noi tre è quella
più provata e l’ho
sorpresa più volte guardarsi il piede destro, come se
ritenesse incredibile
che fosse ancora lì.
Atterriamo e troviamo il famigliare clima piovoso, solo
qualche giorno dopo la pioggia si trasforma in neve, questa volta
però non fa
paura a nessuno.
La vita rientra nei soliti binari: io vado a scuola, mio
padre alterna il suo lavoro a New York con il comporre per i blink
– a volta
vola anche a Los Angeles per questo motivo– mia
madre lavora per mtv come se
nulla fosse.
La nostra breve avventura in quel motel sembra
dimenticata, scorre – come un fiume sotterraneo – nei nostri cervelli e ogni
tanto riappare nei
nostri incubi.
L’estate dopo andiamo di nuovo a trovare la nonna, mio
padre si tiene accuratamente alla larga dalla parte vecchia del
cimitero e
dalla scala, non ha intenzione di finire i suoi giorni su una vecchia scala di
pietra in attesa di un
poveretto che lo liberi e prenda il suo posto.
In quell’occasione percorriamo la stessa strada che
abbiamo fatto quella notte e guardiamo tutti e tre dove avevamo visto
il motel.
Nessuno vuole davvero fermarsi e non c’èa nulla da
vedere, solo
erba: una distesa di prato verde che si gode pigramente il sole estivo.
Non che ci aspettassimo davvero di vedere qualcosa, ma
volevamo verificare la storia che ci aveva raccontato quella donna.
Era tutto vero.
È stato tutto vero, dal gocciolio alla nostra fuga fino a
trovare ospitalità da una povera affittacamere.
Ci allontaniamo con un brivido che corre lungo le nostre
schiene. Nelle notti di neve non ci fermeremo mai più in un
motel.
Non vogliamo diventare i prossimi ospiti per l’eternità.