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Autore: Layla    11/03/2014    1 recensioni
"Lui sbuffa.
“Va bene, perché passare la notte in un comodo letto quando possiamo passare la notte all’addiaccio su un’isola stregata?
Io rido.
“Chiamo la babysitter per Jack allora.”
“Chiamala, chiamala.”

{Dal primo capitolo.
Skye/Mark
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Mark Hoppus
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il motel delle notti di neve.

Non ricordo una simile tormenta di neve dai giorni lontani della mia adolescenza quando io e miei venivamo a Natale a trovare la nonna.
Ogni tanto si scatenavano vere e proprie bufere di neve in cui era impossibile vedere al di là del proprio naso, era un piacere quando eravamo a casa di nonna e una disgrazia quando eravamo in macchina con mio padre.
Oggi tocca a me guidare nella neve e non è per niente piacevole.
“C’è un motel lì, fermiamoci!”
Esclama Mark a un certo punto, io seguo la direzione del suo dito e vedo l’insegna luminosa mezzo nascosta dalla neve di un motel.
Metto diligentemente la freccia e parcheggio nell’ampio spazio davanti alla struttura.
Scendiamo dalla macchina ed entriamo nell’edificio, una donna che sembra uscita dagli anni ’60 ci accoglie con un sorriso cordiale.
“Siete qui anche voi per la tempesta?”
“Sì, è davvero terribile.”
Lei annuisce.
“Siete fortunati, c’è ancora una stanza libera: la 666.”
Io e Mark ci guardiamo a disagio, una stanza con il numero del diavolo non promette nulla di buono, ma o questo o la bufera.
“Ehm, va bene.”
La donna ci sorride – il suo sorriso ha una sfumatura di incomprensibile maligno trionfo – e ci dà la chiave, qualcosa in questo posto non mi piace particolarmente, ma non potevamo continuare a guidare in quelle condizioni.
La proprietaria ci scorta fino alla camera e ci augura buonanotte, noi entriamo e depositiamo i bagagli, poi ci facciamo tutti e tre una doccia e ci infiliamo a letto.
Ci sono un letto matrimoniale e un lettino separato dal nostro da un basso muretto, dopo tutto non è male come stanza.
Nel tepore delle lenzuola appoggiata sul petto di Mark mi addormento subito.

 

Jack p.o.v.

 

Non riesco a capire come facciano i miei a dormire. io sento un incessante gocciolio che mi impedisce di prendere sonno.
Forse qualcuno ha dimenticato aperto un rubinetto dopo essersi lavato i denti. Di malavoglia, mi alzo e mi metto le mie ciabatte verde fosforescente e vado in bagno. Il lavandino non gocciola, ma per un attimo mi è sembrato macchiato di sangue.
Fiori di sangue rosso vivo contro la ceramica bianca.
Mi strofino gli occhi e tutto torna normale, leggermente inquieto torno in camera e mi tolgo il pigiama per rimettermi i miei vestiti.
Il rumore non è affatto cessato e questo hotel emana quelle che mia zia Anne chiamerebbe “vibrazioni negative”.
Facendo attenzione a non farmi sentire dai miei esco dalla stanza e chiudo delicatamente la porta dietro di me. Sono in un corridoio con la tappezzeria di un blu scolorito e il pavimento di linoleum a cerchi neri e azzurri, sembra di stare dentro a “Shining” e io mi sento tanto Danny, il povero bambino.
Cammino per quelle che mi sembrano ore lungo il corridoio, finché il rumore di acqua che cade si fa più forte dietro a una porta. Mia madre mi ha insegnato l’educazione e il rispetto della privacy altrui, quindi se adesso aprissi questa porta le farei un torto e disturberei uno dei clienti, ma se non l’aprissi non riuscirei a darmi pace.
Perché diavolo il rumore viene da questa porta e perché si sente in camera mia ?
E soprattutto perché i miei non lo sentono?
Sto impazzendo?
Dovrei tornare in camera, ma l’istinto di sopravvivenza mi dice di aprire la porta e io gli do retta, stranamente non è chiusa a chiave. Quello che vedo mi fa venire voglia di urlare, il mio urlo però mi rimane fortunatamente in gola.
Mi trovo davanti a uno spettacolo orribile: una donna con un vestitino a fiori, pende, muovendosi pigra, dal lampadario. È mezza scheletro e mezza di carne viva e il sangue cola con una cadenza regolare.
Perché questa donna è qui?
E perché nessuno trova strano che si sia impiccata e nessuno chiama la polizia?
Chiudo la porta dietro di me, chiedendomi cosa troverò nelle prossime stanze, visto che adesso sento un altro rumore: un forte ronzio.
Forse sono solo api o calabroni, mi dico per calmarmi, ma non mi credo nemmeno io.
In ogni caso, continuo a camminare e cerco di capire la fonte del rumore, che è esattamente due porte più in là rispetto a quella dell’impiccata.
Apro la porta – non stupendomi più che non sia chiusa – e vedo delle mosche che svolazzano intorno a quello che resta di un uomo.
Questa volta non reggo e vomito sulla porta, prima di richiuderla.
Dove diavolo siamo capitati?
Mi asciugo  i residui con la manica e cerco di andare verso la hall, giusto poco prima di arrivarci noto un quadro che prima non avevo notato.
È una natura morta con un ananas e una pera, solo che nell’ananas c’è una finestrella in cui si vede mio padre urlante e nella pera una finestra con mamma, sotto ai due frutti c’è una macchia che sembra sangue e ho la sgradevole sensazione che sia il mio.
In ogni caso proseguo e poi mi nascondo dietro una colonna, tutti gli ospiti sono nella hall.
“Loro due saranno il sacrificio, abbiamo bisogno di nuovo sangue.”
Sorride maligna la proprietaria, la sua cotonatura fuori moda mi dà ai brividi insieme al suo tono freddo e del tutto privo di emozioni. Parla di omicidi come si potrebbe parlare del tempo o della politica.
“Il bambino invece rimarrà con noi.”
L’impiccata batte gioiosa le mani.
“Che bello, ho sempre desiderato un bambino.”
“Allora sarai tu a ucciderlo.”
Un brivido corre lungo la mia schiena.
“Ma se non volesse restare qui?”
“Non dire sciocchezze, Elise.
Chi non vorrebbe rimanere qui?
Voi volete rimanere qui, vero?”
Nessuno risponde alla donna e sotto la crosta umana intravedo il demone che è in realtà. Ho visto e sentito abbastanza, è meglio che me ne vada se voglio salvare i miei genitori.
Percorro di corsa il corridoio e mi ritrovo davanti alla stanza 666, apro la porta e la richiudo e poi scuoto vigorosamente i miei.
Al primo tentativo ottengo solo dei grugniti, ma non mollo, continuo a scuoterli finché non si svegliano.
“Cosa c’è, Jack?”
“Dobbiamo andarcene!”
Bisbiglio a bassa voce.
“Come mai?”
“Questo hotel è abitato da fantasmi, nessuno qui dentro è vivo, a parte noi e vogliono ucciderci.
Dobbiamo andarcene finché non si sono accorti che io so.”
“Jack, è impossibile.
Avrai avuto un incubo.”
“Non sono nemmeno andato a letto, non avete visto che non indosso il pigiama?”
Mia madre mi squadra.
“In effetti…”
“Sentite, io vi ho creduto senza riserve sulla storia di Poveglia, per favore credete alla mia storia questa volta.”
Li prego accoratamente, lentamente mia madre annuisce.
“E sia, ti crediamo.”
Escono tutti e due dal letto e si vestono, mio padre con un paio di jeans, una felpa e delle comode scarpe da tennis; mia madre con vestitino rosso e degli anfibi.
Prendiamo le giacche e apriamo la porta.
“Non possiamo passare per la hall, ma in fondo al corridoio c’è un’uscita di emergenza, forse potremmo usarla.”
Mio padre annuisce e si mette subito dietro di me, mia madre chiude il corteo, spaventata.
Camminiamo facendo il meno rumore possibile, come se fossimo dei ladri, tutti i nostri sensi sono all’erta e questa volta anche i miei sentono tutta una serie di strani rumori che li innervosiscono.
Arrivati davanti a una vecchia porta verde, con un maniglione anti panico rosso io lo abbasso e immediatamente si propaga per tutto l’hotel il rumore forte di una sirena, simile a quella che avvisa di un bombardamento in corso.
Merda!
La porta non si apre, io e mio padre gli diamo una spallata,  in fondo al corridoio si cedono avanzare i primi fantasmi, mia madre geme sommessamente.
“Dobbiamo uscire, papà.”
“Diamogli un'altra spallata, Jack!”
Gliela diamo e questa volta cede, i fantasmi sono sempre più vicini e mia madre stringe convulsamente la mano di mio padre.
Al terzo tentativo la porta cade con un tonfo sordo e veniamo investiti da una folata di vento e neve, usciamo correndo scoordinati come ubriachi. Io e papà siamo quasi arrivati alla macchina quando sentiamo un urlo che fa gelare il sangue nelle vene: un fantasma ha preso mamma e la sta trascinando dentro,
“Tu stai qui.”
Mio padre torna indietro e afferra le mani di mia madre tirandola verso di lui,  i fantasmi però sono testardi e non sembrano volerla mollare così facilmente.
Ci vuole tutta la forza di mio padre per tirarla via, alla fine ai fantasmi non rimane altro che un anfibio nero in mano, che viene scagliato nella neve.
L’immagine di quell’anfibio nero, sporco di sangue – è stata l’impiccata a lanciarlo – mi perseguiterà a vita.
“Jack, svelto apri la macchina.”
Mi lancia le chiavi e io apro la macchina e mi metto subito sul sedile passeggeri.
Mio padre, poco dopo, depone mia madre sui sedili posteriori e poi si mette alla guida.
Parte con una sgommata e corre in una maniera assurda sulla strada coperta di neve e con il parabrezza mezzo coperto da quello che i tergicristalli non riescono a togliere.
Dietro di noi sentiamo dei singulti, io mi volto e vedo mamma in lacrime che singhiozza in posizione fetale, un piede scalzo.
“Mamma, ce l’abbiamo fatta. È andato tutto bene.”
Le dico per consolarla, lei annuisce tra le lacrime.

 

Dopo non so quante ore di guida sotto una tormenta feroce di neve arriviamo in una cittadina, mio padre tira un sospiro di sollievo.
“Dici che si sarà un bed & breakfast o qualcosa del genere?”
gironzoliamo per un po’ fino a che non notiamo che – appeso a una casa – c’è un cartello in cui si dice che lì c’è un bed & breakfast.
Io e lui scendiamo dalla macchina e suoniamo il campanello, dopo un quarto d’ora una donna ci apre.
“Ci scusi per l’orario, ma siamo stati colti dalla tempesta di neve e abbiamo bisogno di un posto dove dormire.”
La donna annuisce, io vado in macchina e convinco mamma a scendere e prendo quello che si servirà per la notte.
Entriamo in una casa confortevole e alla luce del salotto probabilmente dobbiamo sembrare pallidi e spaventati, perché la donna spalanca gli occhi.
“Ma voi avete bisogno di un the.”
“Non c’è bisogno che si disturbi.”
Tenta di scantonare mio padre, ma la donna insiste.
“Soprattutto vostra moglie, forse per lei sarebbe meglio un dito di whisky.”
Io guardo mia madre, è pallida e con gli occhi persi nel vuoto. Forse qualcosa potrebbe aiutarla, anche mio padre sembra pensarla così perché alla fine annuisce.
“Va bene.”
Poco dopo la donna torna con due tazze di the forte e zuccherato e un bicchierino di whisky, che mia madre non  tocca.
“Skye, tesoro, ti prego, bevilo! Dopo ti sentirai un po’ meglio.
Che ne dici? Vuoi farlo per me e Jack?”
Lei allunga una mano tremante e prende il bicchiere, ne beve una generosa sorsata e un po’ di colore sale sulle guance.
“Cosa vi è successo?”
Ci chiede la donna.
“Prima di arrivare qui ci siamo fermati in un motel, solo che non era un motel normale. Era un posto gestito e abitato da spiriti che volevano ucciderci.
Siamo riusciti a scappare solo per un colpo di fortuna.”
La donna impallidisce.
“Io credevo che questa storia fosse finita con l’incendio, ma certe storie non finiscono mai, immagino.”
“Scusi, potrebbe essere più chiara?”
Chiede mio padre.
“Il motel di cui parlate venne costruito nei primi anni del Novecento, su un vecchio cimitero indiano. Pochi anni dopo la sua apertura cominciarono ad avvenire cose strane là dentro: omicidi, suicidi, morti naturali inspiegabili.
I proprietari cambiavano, ognuno faceva del suo meglio per ristrutturare e rendere accogliente il posto, ma dopo pochi anni – dopo ogni cambio di gestione – le morti iniziavano di nuovo.
L’ultimo che ha preso in gestione la baracca è stato un tizio del Maryland all’inizio degli anni Settanta, si era trasferito qui con il figlio quindicenne per iniziare una nuova vita dopo la morte della moglie.
Dopo nemmeno quindici giorni trovò il ragazzino morto per un overdose di eroina, lui ha giurato che non si era mai fatto. Solo qualche canna, ma mai ero e quindi ha deciso di mollare e tornare a casa.
Dopo è rimasto disabitato fino a quando, nell’74, qualcuno ha dato fuoco alla casa, il sindaco è stato molto felice di liberarsi delle macerie o almeno così raccontano gli anziani.
La leggenda dice che durante le notti di neve come queste riappare per mietere nuove vittime, c’è qualcosa in quel posto e vi dico che è vivo.”
Scuote la testa con un brivido, io e mio padre rimaniamo a bocca aperta per lo shock.
“E voi siete stati lì dentro?”
Annuiamo come baccalà.
“Siete fortunati a esserne usciti vivi, la maggior parte della gente che si perde in quella zona non torna più indietro. Ci credo che sua moglie stia così male.
Si sente meglio, signora?”
“Sì, credo di sì.”
“Bene, allora è meglio che andiate a letto, domani vi sembrerà tutto migliore.”
Veniamo scortati al piano superiore, la porta della stanza e di un legno scuro e dentro c’è un letto matrimoniale con una calda trapunta e letto più piccolo per me, sembra molto accogliente.
Ci facciamo tutti e tre la doccia per la seconda volta e poi ci mettiamo a letto, questa volta non sento rumori strani e mi addormento tranquillo.
Non credo che qui ci siano spiriti pronti a ucciderci.
La mattina dopo mi sveglio di buono umore, mio padre sta bene e persino mia madre sembra migliore rispetto a ieri sera.
“Scusate per la brutta avventura, ma sembra che io sia in grado di attirare ogni cosa maledetta o demoniaca nel giro di un miglio.”
“Skye, non è colpa tua. Stava nevicando, eravamo tutti stanchi e non vedevamo l’ora di fermarci, nessuno poteva immaginare che razza di posto fosse.”
Lei sospira e giurerei che le sia scesa una lacrima.
“Grazie per perdonarmi sempre, vo voglio bene.”
“Non c’è niente da perdonare.”
Mio padre abbraccia mia madre e io mi unisco all’abbraccio, ho il sospetto che abbia bisogno di affetto.
Dopo questo abbraccio di gruppo scendiamo al piano inferiore e troviamo una ricca colazione, preparata dalla proprietaria del b&b.
“Buongiorno! Come state?”
“Bene, grazie. Abbiamo dormito benissimo.”
Risponde mio “Lei, signora, sta bene?”
“Sì, grazie  e grazie per il whisky di ieri sera, ne avevo bisogno.”
“Non c’è nulla per cui ringraziarmi, con la brutta avventura che le era capitata era il minimo".
“Già, preferisco non pensarci o sto di nuovo male.”
Rabbrividisce e si guarda i piedi, forse pensando a quell’anfibio perso nella neve che non ritroverà mai più.
Ci sediamo a tavola e mangiamo, stranamente abbiamo tutti appetito, di solito alla mattina sono io l’unica che ce l’ha.
“Cosa pensate di fare adesso?”
“Di andarcene una volta cessata la tempesta.”
“Giusto.”
Mark guarda fuori dalla finestra, sta ancora nevicando.
“Penso che per il pomeriggio si sarà placata.”
Lui annuisce, ci guardiamo negli occhi, nessuno sa cosa fare.
“Beh, esco a comprare il giornale e le sigarette.”
Mormora incerto mio padre.
“Va bene, io rimarrò qui con Jack.”
Lui esce di casa, mia madre invece dà una mano alla nostra padrona di casa nel lavare i piatti e poi si siedono davanti alla tv.
Mi sorbisco una telenovela messicana, mio padre – rientrato – legge il giornale con finto interesse.
Che mattinata noiosa, ma forse ci vogliono anche queste mattinate per apprezzare il fatto di essere vivi. Non avrei voluto essere in quel motel per nessun motivo al mondo.
Alla fine, a causa della neve, la donna è costretta a prepararci anche il pranzo, sebbene non rientri tra i suoi compiti
Ci prepara delle bistecche piuttosto buone, è gentile con noi e soprattutto con mamma, ma è palese che non vede l’ora che ce ne andiamo.
Verso le due smette di nevicare e possiamo finalmente metterci in viaggio verso New York, dove ci attende un comodo volo per Londra.
Di solito mi piace stare negli Stati Uniti, ma questa volta non vedo l’ora di tornare nella cara vecchia Inghilterra, penso che lì staremo in pace almeno per un po’.
Saliamo in macchina e salutiamo la signora che ci risponde sventolando la sua mano e sorridendo, sembra ok, ma ho come l’impressione che sia segretamente felice di vederci andare via.
Arriviamo a New York giusto in tempo per prendere un volo all’ultimo minuto per Londra, mentre allacciamo le cinture sento mia madre emettere un debole sospiro di sollievo. Di noi tre è quella più provata e l’ho sorpresa più volte guardarsi il piede destro, come se ritenesse incredibile che fosse ancora lì.
Atterriamo e troviamo il famigliare clima piovoso, solo qualche giorno dopo la pioggia si trasforma in neve, questa volta però non fa paura a nessuno.
La vita rientra nei soliti binari: io vado a scuola, mio padre alterna il suo lavoro a New York con il comporre per i blink – a volta vola anche a Los Angeles  per questo motivo– mia madre lavora per mtv come se nulla fosse.
La nostra breve avventura in quel motel sembra dimenticata, scorre – come un fiume sotterraneo –  nei nostri cervelli e ogni tanto riappare nei nostri incubi.
L’estate dopo andiamo di nuovo a trovare la nonna, mio padre si tiene accuratamente alla larga dalla parte vecchia del cimitero e dalla scala, non ha intenzione di finire i suoi giorni su  una vecchia scala di pietra in attesa di un poveretto che lo liberi e prenda il suo posto.
In quell’occasione percorriamo la stessa strada che abbiamo fatto quella notte e guardiamo tutti e tre dove avevamo visto il motel.
Nessuno vuole davvero fermarsi e non c’èa nulla da vedere, solo erba: una distesa di prato verde che si gode pigramente il sole estivo.
Non che ci aspettassimo davvero di vedere qualcosa, ma volevamo verificare la storia che ci aveva raccontato quella donna.
Era tutto vero.
È stato tutto vero, dal gocciolio alla nostra fuga fino a trovare ospitalità da una povera affittacamere.
Ci allontaniamo con un brivido che corre lungo le nostre schiene. Nelle notti di neve non ci fermeremo mai più in un motel.
Non vogliamo diventare i prossimi ospiti per l’eternità.

   
 
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