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Autore: klabeks_ks    15/03/2014    3 recensioni
Sono trascorsi sei mesi dal giorno in cui Klaus ha deciso di lasciare libera sua sorella, simulando un distacco che non ha mai posseduto nei suoi riguardi. New Orleans è diventata sua, l’ibrido ha finalmente ottenuto tutto quel che avesse mai desiderato, eppure si sente insoddisfatto, perché la parte più importante di sé è scomparsa con l’unica donna che sia mai riuscita a spezzargli il cuore. Nemmeno sua figlia è in grado di attirare la sua attenzione; l’arte è l’unico mezzo attraverso il quale Klaus esterna l’incompletezza della sua anima. Almeno fino a quando Elijah, stanco della situazione, decide di ricongiungere definitivamente la famiglia, mettendosi in contatto con Rebekah…
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Elijah, Hayley, Klaus, Rebekah, Mikaelson
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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Titolo: Let me paint this  picture for you.
Genere: Romantico, Introspettivo. 
Avvertimenti: Incest, What if? 

Alla mia Beks 
Riesci sempre a ispirarmi.


Let me paint this picture for you.

Capitolo 1

“Il tempo non conta per il cuore.
Si può amare anche stando lontani
e quell'amore, se è vero e puro,
non morirà mai neanche fra mille anni.”

«Cosa ne pensi?»
Klaus distolse lo sguardo dalla tela che aveva di fronte, per puntarlo sul fratello che a capo chino si aggiustava il polsino della camicia di alta sartoria. Aggrottò la fronte quando Elijah fece altrettanto, tutto preso dall’abbottonare uno dei gemelli.
«Perché chiedi la mia opinione?» Klaus, disinteressato, tornò alla sua opera.
Il paesaggio lacustre stava prendendo forma sotto le abili pennellate, il verde dell’erba che pian piano si sposava con l’azzurro cupo delle acque.
Erano trascorsi poco più di sei mesi da quando, in quello che lui si sforzava di considerare un eccesso di magnanimità, aveva lasciato andare Rebekah. L’aveva resa una donna libera, a suo dire. La realtà era invece ben diversa.
L’aveva mandata via, perché la ferita era ancora troppo profonda. Il cuore di Klaus, spezzato, non aveva ancora cessato di sanguinare.
E proprio quel sangue si tramutò nel rosso dei papaveri che stava dipingendo nel suo paesaggio.
Elijah si avvicinò al fratello, per ammirare i colori intrappolati nella tela, e di sottecchi poi ne osservò il profilo.
Klaus non era mai stato tanto taciturno, quasi apatico. Lo preferiva di gran lunga nei suoi scatti di ira eccessiva, nelle urla e nelle esemplari punizioni che aveva sempre inferto a destra e manca. Sebbene un bagliore di redenzione si fosse acceso in quell’ibrido millenario, Elijah non riusciva più a stargli accanto senza domandarsi cosa gli fosse accaduto.
Forse, pensò, la nascita della piccola Rebekah lo aveva leggermente ammansito.
Forse, invece, quell’irreale calma era dovuta all’assenza di una Rebekah ben più adulta della bambina che dormiva al piano di sopra.
«Niklaus» il maggiore dei Mikaelson esalò un profondo respiro e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.
Non si diede neppure pena di aggiustarsi i risvolti dell’elegante giacca scura che indossava, «per quasi un anno non hai fatto altro che lottare per riprendere il controllo di New Orleans e negli ultimi tempi sembra quasi che non ti importi più del posto in cui vivi.»
D’accordo con Hayley, che finalmente era diventata sua amorevole compagna, Elijah aveva deciso di mettere il fratello di fronte alle responsabilità di cui doveva tornare a farsi carico.
E proprio lui lasciò andare tavolozza e pennello e si voltò a guardarlo, con quella sua solita aria spavalda, le sopracciglia sollevate, la fronte aggrottata e un’espressione derisoria che gli solcava il volto che in quel momento sembrava di pietra.
«Come desideri, fratello, ti dirò cosa penso.»
A Niklaus Mikaelson erano sempre piaciute le chiacchiere, ma in quel momento voleva solo stare da solo, nel silenzio e nella calma che la sua tela gli infondeva. Avrebbe quindi liquidato tempestivamente il fratello e sarebbe tornato alla sua reale occupazione.
Si allontanò dalla tela incompleta e si accostò al mobile sul quale erano adagiati bicchieri e bottiglie colme di liquido ambrato.
Si versò due dita di quest’ultimo e ne prese un sorso, per poi far ondeggiare il bicchiere in mano.
«Marcel vuole recuperare terreno e finora sei stato bravo a non concederglielo, ma mi rendo conto di essere stato troppo indulgente con lui. Insieme al suo amico Thierry sta mettendo a soqquadro il quartiere e ha creato una fazione che ci è nemica. Quei due hanno preso i vampiri più forti e hanno fatto uccidere quelli che erano rimasti dalla nostra parte, segno che con noi erano rimasti solo i novellini. Per questo motivo vanno eliminati, entrambi.» E magari avrebbe anche ottenuto la vendetta che tanto e da troppo tempo bramava.
L’ibrido notò un leggero cambiamento nello sguardo del fratello, un piccolo lampo di luce che gli aveva illuminato gli occhi scuri.
«Va bene Niklaus, allora andiamo. Possiamo dare un taglio a questa farsa ancor prima che lui se ne accorga.»
Il maggiore era quasi felice che suo fratello fosse tornato a parlare di punizioni e omicidi, stava tornando ad essere il solito Klaus.
Finalmente avrebbe potuto smettere di preoccuparsi, pensò. Subito dopo però si rese conto che lui, Elijah Mikaelson, non avrebbe mai smesso di preoccuparsi per i suoi fratelli. Gli ultimi che gli erano rimasti, quelli cui teneva più di ogni altra cosa.
«Temo però che dovrai occupartene tu, perché io al momento sono in vacanza.» Stringendosi nelle spalle, il viso di Klaus si illuminò di un sorriso che però non gli giunse agli occhi. «Sono diventato padre da poco, ricordi? Devo stare con mia figlia, cambiare pannolini…»
«Niklaus, quella bambina quasi non ti conosce. Hai costretto Hayley a darle il nome che tu avevi scelto e poi hai sempre cercato di evitarla.»
«Però devi ammettere che il nome che le ho dato è molto bello.»
Adesso Elijah cominciava a spazientirsi. La sua fronte venne solcata da una linea profonda, segno di una preoccupazione sempre maggiore.
Ma anche di una rabbia che a stento riusciva a trattenere.
Era quello pacato e virtuoso, lui, non avrebbe dovuto lasciarsi andare a inutili e letali scatti d’ira. Quella era una prerogativa del fratello che gli stava di fronte. «Fa’ come vuoi, Niklaus, continua a comportarti come stai facendo adesso. Ma se perderemo New Orleans, la città che consideriamo la nostra casa, dovrai arrangiarti da solo.»
Uscì dalla stanza lasciando il fratello con ancora il bicchiere in mano, un sorrisetto soddisfatto sulle labbra e i demoni che urlavano dentro di lui.
Klaus non si scompose di quella minaccia, perché ormai la solitudine non gli faceva più paura.
L’aveva sperimentata negli ultimi sei mesi e la stava vivendo anche in quel momento.
Suo fratello avrebbe dovuto cambiare registro per riuscire a intaccarlo, perché la scusa della solitudine ormai non reggeva più.
Sotto quel punto di vista, Klaus Mikaelson era ormai inattaccabile e indistruttibile.
Lasciò il bicchiere quasi vuoto sul tavolo e tornò al suo quadro che, però, non lo ispirava più come prima.
Per questo afferrò il blocco dei suoi schizzi e lo sfogliò, fino a quando trovò l’ultimo disegno.
Quello incompleto, quello che aveva paura di terminare.
Nonostante tentasse sempre di mostrarsi forte e temibile, non era raro che la paura lo attanagliasse fino a farlo fuggire perfino da se stesso.
Non aveva mai saputo amare nel modo giusto. Troppo assillante, troppo ossessivo.
Non aveva mai saputo lasciare libertà alle persone che amava. A Rebekah. La libertà di agire, di amare e di sbagliare.
Aveva sempre cercato di riparare ai suoi errori ancor prima che lei li compisse, finendo per allontanarla da sé.
L’aveva portata allo stremo della pazienza, era stato a causa sua che Rebekah aveva condotto Mikael in quella città.
E le aveva comunque dato la colpa. Perché è più facile colpevolizzare gli altri, piuttosto che se stessi.
È più facile sentirsi la vittima, anziché il carnefice della persona che si ama.
Alla fine però l’aveva lasciata andare, le aveva concesso la possibilità di vivere e di essere felice lontana da lui.
Almeno questo, ricordò a se stesso, lo doveva alla sorellina che lo aveva sempre amato e che gli era sempre stata accanto.
Non lo aveva mai lasciato, almeno fino a sei mesi prima. 
Sfiorando quasi con timore il liscio profilo del volto impresso sulla carta, finalmente Klaus si decise a completare quel ritratto.
Magari riprendendo proprio dalle seriche onde color grano che incorniciavano un viso altrettanto incantevole.
 
Quando raggiunse la camera che divideva con la compagna, Elijah permise a se stesso di riprendere la calma che aveva perso.
Un evento raro, visto che non la perdeva neppure nei momenti di più profonda tensione.
Alla domanda silenziosa di Hayley, lui rispose con un leggero scuotimento del capo e la ragazza si lasciò cadere seduta sul letto con uno sbuffo.
«So che è strano da dire, ma lo preferivo quando faceva lo psicopatico, almeno era facile odiarlo» esordì la licantropa, afferrando una mano di Elijah che le si era seduto vicino. «Ho anche perso la voglia di ucciderlo, mi fa solo una gran pena.»
Senza dire una parola, il vampiro annuì e intensificò la stretta alla mano della giovane compagna.
Vedere il velo di preoccupazione che le copriva gli occhi, non fece altro che allargarli il vuoto che sentiva allo stomaco. Se anche Hayley era in pena per Klaus, allora la situazione era davvero molto grave. «Ti prego, Elijah, fallo tornare detestabile.»
E quell’ultima preghiera servì a darli la spinta finale per rendere reale la decisione che aveva preso.
Elijah annuì ancora una volta, posò un lieve bacio sulle labbra della compagna e afferrò il telefono.

L’Europa l’aveva sempre affascinata. Nettamente più antica dell’America, Rebekah vi aveva sempre colto un velo di magia e mistero.
Respirò a pieni polmoni l’aria fredda di San Pietroburgo e sorrise quando il fiato le uscì dalle labbra in piccole nuvole bianche. 
Nonostante la sua condizione di immortale la riparasse dal freddo gelido della Russia, la vampira si strinse nel suo cappotto di cashmere e, come fecero tutti gli umani in fila davanti a lei, mostrò il biglietto d’ingresso all’addetto del museo. Il complesso architettonico formato da cinque grandi palazzi era proprio come lo ricordava.
Maestoso e lussuoso, nel puro stile degli zar che –nel primo Novecento- erano stati uccisi dai rivoluzionari. Rebekah alzò il capo, mentre il suo sorriso prendeva ancor più vita alla vista della bellezza che nutriva i suoi occhi.
“Noi siamo come l’arte, Rebekah. Immortali e maestosi, senz’alcun timore e in grado di ammaliare anche l’animo più incorruttibile. È pur vero, però, che nessun animo lo è davvero. Incorruttibile, intendo.”

Le parole di Klaus gli danzarono nella mente, costringendola ad abbassare lo sguardo e a proseguire dritto all’interno del museo.
Quelle parole, a distanza di secoli, erano riuscite ancora una volta a farle perdere il sorriso.
Loro erano i Mikaelson, i primi vampiri mai creati, abomini della natura. Erano duri come roccia e freddi come il ghiaccio.
Rebekah invece no. Lei voleva essere calda come il fuoco, voleva essere viva. Desiderava l’amore e quella famiglia che, sapeva, non avrebbe mai potuto creare. In un certo senso, Klaus aveva avuto ragione. Loro erano come l’arte, immortali.
Resistenti al tempo, alle malattie, perfino alla morte.
Resistevano alle lacrime versate e a quelle trattenute; ai sospiri e alle urla; alla gioia e al dolore; ai rimorsi e ai rimpianti.
Girovagando tra le varie sculture, la vampira si fermò a osservarne una in particolare.
La targhetta sottostante informava che l’autore era Michelangelo, lo stesso artista che aveva dipinto uno dei luoghi che più l’affascinavano.
“Siamo tutti peccatori. Lo sono tutti, anche quelli che Michelangelo ha dipinto tanto in alto”
le aveva detto un giorno Klaus, mentre lei stava ammirando in silenzio “Il giudizio universale”, l’opera più maestosa che lei avesse mai visto.
«Tu però lo sei più di ogni altro» mormorò puntando gli occhi sul giovane accovacciato, con le mani incrociate sul terreno e il riccioluto capo chino. Quel giovane, sebbene i suoi lineamenti fossero poco marcati, le ricordò proprio quel fratello che l’aveva cacciata via da New Orleans. Forse per i capelli ricci o per l’espressione inquieta. Per questo motivo scattò e si allontanò velocemente da quell’opera d’arte senza dubbio splendida, ma colpevole di averla rimandata a ricordi dolorosi.
«No.» Il sussurro strozzato uscì dalle sue labbra, mentre gli occhi le si riempirono di lacrime.
Klaus era proprio lì davanti a lei, anche se non in senso letterale.
Rebekah, cercò di ricacciare le lacrime e guardò in silenzio il paesaggio che si stagliava davanti a sé. Non era una vera esperta di pittura, ma la mano dell’artista era inconfondibile. Era stata presente durante la creazione di quel meraviglioso paesaggio.
Aveva atteso per settimane che esso venisse completato, per poterlo ammirare nella sua interezza.
Era come guardare una cartolina, una foto in grado di catturare ogni cosa, anche il leggero soffiare del vento.
Quel quadro, che solo in pochi avevano osservato mentre gli altri turisti avevano semplicemente tirato dritto, era stato creato da un artista che aveva desiderato mantenere l’anonimato. La vampira respirò a labbra schiuse e si asciugò gli occhi con una mano, un gesto secco e veloce che a una semplice umana avrebbe sicuramente causato un’irritazione della pelle.
E lei odiava non soffrire di quelle piccole debolezze!
Le voleva, voleva tutto ciò che rappresentasse l’umanità che aveva perso.
Restò a fissare le foglie immobili e appassite anche quando il telefono le vibrò in tasca e lei rispose, senza neppure leggere il nome di chi la stava cercando. Il groppo alla gola non fece altro che stringersi quando sentì Elijah pronunciare il suo nome.

“Forse è arrivato il momento di tornare a casa, Rebekah.”
Già, tornare a casa. Ma quale? Rebekah non aveva più una casa. Forse non l’aveva mai avuta.
Casa era quel luogo in cui viveva con i suoi fratelli, durante le interminabili fughe.
Casa era stato il luogo che aveva condiviso con Klaus quando, nell’ultima fuga della loro vita, avevano lasciato Elijah a New Orleans.
Una fuga che lei stessa aveva causato.
Girovagava tre le strade ammantate di neve, ma non si stava godendo la tanta desiderata libertà.
“Non posso sprecare quest’opportunità di essere libera, Elijah.”
Non poteva proprio. Se fosse tornata a New Orleans, Klaus non le avrebbe dato una seconda occasione per essere felice. Forse avrebbe cambiato idea, una volta vista, e l’avrebbe uccisa sull’uscio di casa. Infilando le mani nelle tasche del cappotto, la vampira percorse gli ultimi isolati che la separavano dal suo albergo, da un bagno caldo e dal grande e comodo letto sul quale sperava di trovare un sonno senza sogni.

Aveva fatto una promessa. E non si poteva certo dire che Klaus Mikaelson non mantenesse le sue promesse.
Per questo motivo aveva lasciato carta bianca al fratello.
Voleva disperatamente piantare una mano nel torace di Marcel e strappargli via il cuore.
Proprio come lui e Rebekah avevano strappato via il suo.
E magari pestarlo, più e più volte, fino a ridurlo in poltiglia mentre dinnanzi a lui il vampiro crollava a terra ed esalava l’ultimo respiro. Ma non poteva. Le sue mani erano bloccate e i polsi legati da un laccio invisibile.
In piedi davanti alla culla di legno intarsiato, Klaus approfittò di quel momento di assoluta solitudine per sfiorare la guancia paffuta della figlia con un polpastrello. Senza nessuno a ronzargli intorno per controllare che non uccidesse quel piccolo fagotto, non riusciva a guardarla con indifferenza. Le sue labbra erano piccole e carnose e i radi capelli biondi erano ribelli e ondulati come i suoi.
Scostò la mano dalla bambina appena avvertì la presenza del fratello farsi vicina e indietreggiò di un passo per allontanarsi dalla culla.
Quando si voltò verso la porta, notò lo sguardo amorevole che Elijah aveva rivolto alla piccola addormentata e avvertì un moto di irritazione divampargli dentro. Suo fratello poteva tranquillamente tenersi la giovane lupa, ma la bambina era sua. Rebekah era sua.
«Ti somiglia molto.» Elijah gli si avvicinò e incrociò le braccia al petto, ben attento a non guardare la piccola in presenza del fratello minore che schioccò la lingua e lo guardò con annoiato.
«Almeno adesso sappiamo per certo che è mia figlia.»
A quella dichiarazione di possesso che celava una certa minaccia, il vampiro sorrise e arricciò il naso, come se ciò che aveva appena sentito fosse molto divertente. O alquanto ridicolo.
Sicuramente gli stava nascondendo qualcosa, pensò, ed era intenzionato a scoprire di cosa si trattasse.
Elijah invece, da quanto tre giorni prima aveva telefonato alla sorella, non aveva fatto altro che pregare silenziosamente, sperare e contare le ore, i minuti e perfino i secondi.
«La faccenda con Marcel è stata sistemata» cambiò argomento, consapevole che, se da una parte aveva compiaciuto il fratello, dall’altra aveva deluso la sorella. Rebekah non l’avrebbe mai perdonato, ne era certo.
Un altro fratello da odiare, un altro fratello cui dire addio.
Questa volta per sempre, perché era sicuro che si sarebbe rifiutata di parlargli anche al telefono.
Così come Niklaus, anche lui l’avrebbe persa. E proprio il fratello, per la prima volta in sei mesi, gli rivolse un sorriso smagliante.
«Molto bene, fratello, finalmente una buona notizia!»
Klaus lo ricompensò con una pacca sulla spalla e uscì dalla stanza, forse per rintanarsi in quello che era divenuto il suo luogo per eccellenza.
Magari si sarebbe immerso in un nuovo quadro, tutto pur di non affrontare la realtà a testa alta.
Era nell’indole di Klaus.

Quante volte aveva percorso quella strada, seduta comodamente in quella stessa auto?
Ormai Rebekah aveva perso il conto. Il vento tra i capelli, però, riuscì a portare via con sé il timore che le irrigidiva le spalle.
Stava tornando a casa, convinta da suo fratello Elijah. Le aveva assicurato che Klaus non ci sarebbe stato. E aveva rincarato la dose di sensi di colpa, facendo leva sull’amore che provava per quella bambina che non aveva ancora avuto modo di vedere.
Sarebbe tornata a casa, avrebbe cullato tra le braccia la sua nipotina e sarebbe nuovamente andata via. Solo poche ore.
Un viaggio di quasi un giorno intero, per sole poche ore in famiglia. Una famiglia dimezzata, visto che avrebbe avuto la sola compagnia di un fratello amorevole, una ragazza che aveva lasciato prima che potesse davvero diventare sua amica e una nipotina che non aveva mai visto.
Sarebbe entrata dalla porta sul retro, magari sarebbe stata fortunata e non avrebbe incontrato Klaus.
Rebekah scosse il capo quando spense il motore, stupendosi per la sua ingenuità. Come se non sapesse che Klaus avrebbe potuto sentirla anche se fosse entrata dal retro! Lui sapeva sempre tutto, sentiva sempre tutto, vedeva sempre tutto.
Smontò dall’auto con una decisione che non provava, ma che era costretta a ostentare per non lasciar trapelare l’incertezza che viveva dentro di lei. Incertezza e timore, insieme a un’aspettativa che non avrebbe dovuto sentire. Per secoli aveva desiderato la libertà e adesso sperava di vedere proprio quell’unica persona che non aveva mai voluto concedergliela?
Battendo le palpebre e costringendosi a ricacciare indietro ogni emozione che non era giusto provare, la vampira mise piede in casa. Come un’accoglienza preparata, un vagito la raggiunse dal piano di sopra e lei sorrise. Era come se la sua nipotina avesse saputo che la zia fosse arrivata proprio per lei.
Il sorriso però le si spezzò sulle labbra, mentre il respiro le si bloccava in gola.
La presenza alle sue spalle era inconfondibile.
«Rebekah.» Una sola parola che la fece voltare, per guardare in faccia l’uomo che le aveva reso l’esistenza un vero inferno.
Ma, al tempo stesso, l’uomo che per mille anni aveva amato con tutta se stessa. Klaus la fissava con gli occhi sgranati e le labbra schiuse. 
E in quel momento, la somiglianza tra i due fu inconfutabile.
Una somiglianza che non coinvolgeva i tratti fisici, ma emozioni ed espressioni. Una somiglianza tutta loro.
«Ciao, Nik» sussurrò lei in risposta, immobile, incerta se restare in quella casa o scappare via.
Nik le avrebbe fatto del male? Per la prima volta dopo decenni, Rebekah pensò che Niklaus Mikaelson non le avrebbe torto neppure un capello.
O forse era solo la speranza che stava offuscando la sua capacità di giudizio.
Non potendo essere sicura di quella sua sensazione, non le restò altro che provare a fidarsi.


Angolino targato “klabeks_ks”
Buondì!
Perdonatemi qualora trovaste che Elijah e Hayley non sono caratterizzati correttamente, ma non ho mai scritto nulla su di loro e ammetto di non conoscerli molto bene.
La storia si svolge sei mesi dopo l’addio di Rebekah a New Orleans e ho deciso di non seguire gli avvenimenti che saranno presenti nel prossimo episodio di The Originals. Prendetela come un tentativo di rendere giustizia a una coppia che, nel bene e nel male, ci ha emozionati dalla prima all’ultima scena.
Spero che questa breve fanfiction senz’alcuna pretesa possa piacervi!
E adesso mi siedo, buona buona, e aspetto i vostri pareri.
Al prossimo capitolo! XD

Ps. CW, PLEC, TUTTI GLI ARCANGELI DEL PARADISO E PURE DIO IN PERSONA…
RIDATECI CLAIRE HOLT IN “THE ORIGINALS”!


   
 
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