Titolo: Let me
paint this picture
for you.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Avvertimenti: Incest, What if?
Alla mia Beks ♥
Riesci sempre a ispirarmi.
Let
me paint this picture for you.
Capitolo
1
“Il
tempo non conta per il cuore.
Si può amare anche stando lontani
e quell'amore, se è vero e puro,
non morirà mai neanche fra mille anni.”
«Cosa
ne pensi?»
Klaus distolse lo sguardo dalla tela che aveva di fronte, per puntarlo
sul
fratello che a capo chino si aggiustava il polsino della camicia di
alta
sartoria. Aggrottò la fronte quando Elijah fece altrettanto,
tutto preso
dall’abbottonare uno dei gemelli.
«Perché chiedi la mia opinione?» Klaus,
disinteressato, tornò alla sua opera.
Il paesaggio lacustre stava prendendo forma sotto le abili pennellate,
il verde
dell’erba che pian piano si sposava con l’azzurro
cupo delle acque.
Erano
trascorsi poco più di sei mesi da quando, in quello che lui
si sforzava di
considerare un eccesso di magnanimità, aveva lasciato andare
Rebekah. L’aveva
resa una donna libera, a suo dire. La realtà era invece ben
diversa.
L’aveva
mandata via, perché la ferita era ancora troppo profonda. Il
cuore di Klaus,
spezzato, non aveva ancora cessato di sanguinare.
E proprio quel sangue si
tramutò nel rosso dei papaveri che stava dipingendo nel suo
paesaggio.
Elijah
si avvicinò al fratello, per ammirare i colori intrappolati
nella tela, e di
sottecchi poi ne osservò il profilo.
Klaus non era mai stato tanto taciturno,
quasi apatico. Lo preferiva di gran lunga nei suoi scatti di ira
eccessiva,
nelle urla e nelle esemplari punizioni che aveva sempre inferto a
destra e
manca. Sebbene un bagliore di redenzione si fosse acceso in
quell’ibrido
millenario, Elijah non riusciva più a stargli accanto senza
domandarsi cosa gli
fosse accaduto.
Forse, pensò, la nascita della piccola Rebekah lo aveva
leggermente ammansito.
Forse, invece, quell’irreale calma era dovuta
all’assenza di una Rebekah ben più adulta della
bambina che dormiva al piano di
sopra.
«Niklaus» il maggiore dei Mikaelson
esalò un profondo respiro e lasciò ricadere
le braccia lungo i fianchi.
Non si diede neppure pena di aggiustarsi i risvolti
dell’elegante giacca scura che indossava, «per
quasi un anno non hai fatto
altro che lottare per riprendere il controllo di New Orleans e negli
ultimi
tempi sembra quasi che non ti importi più del posto in cui
vivi.»
D’accordo con
Hayley, che finalmente era diventata sua amorevole compagna, Elijah
aveva
deciso di mettere il fratello di fronte alle responsabilità
di cui doveva
tornare a farsi carico.
E proprio lui lasciò andare tavolozza e pennello e si
voltò a guardarlo, con quella sua solita aria spavalda, le
sopracciglia
sollevate, la fronte aggrottata e un’espressione derisoria
che gli solcava il
volto che in quel momento sembrava di pietra.
«Come desideri, fratello,
ti dirò
cosa penso.»
A Niklaus Mikaelson erano sempre piaciute le chiacchiere, ma in quel
momento
voleva solo stare da solo, nel silenzio e nella calma che la sua tela
gli
infondeva. Avrebbe quindi liquidato tempestivamente il fratello e
sarebbe
tornato alla sua reale occupazione.
Si allontanò dalla tela incompleta e si
accostò al mobile sul quale erano adagiati bicchieri e
bottiglie colme di
liquido ambrato.
Si versò due dita di quest’ultimo e ne prese un
sorso, per poi
far ondeggiare il bicchiere in mano.
«Marcel vuole recuperare terreno e finora sei stato bravo a
non concederglielo,
ma mi rendo conto di essere stato troppo indulgente con lui. Insieme al
suo
amico Thierry sta mettendo a soqquadro il quartiere e ha creato una
fazione che
ci è nemica. Quei due hanno preso i vampiri più
forti e hanno fatto uccidere
quelli che erano rimasti dalla nostra parte, segno che con noi erano
rimasti
solo i novellini. Per questo motivo vanno eliminati,
entrambi.» E magari
avrebbe anche ottenuto la vendetta che tanto e da troppo tempo bramava.
L’ibrido notò un leggero cambiamento nello sguardo
del fratello, un piccolo
lampo di luce che gli aveva illuminato gli occhi scuri.
«Va bene Niklaus, allora andiamo. Possiamo dare un taglio a
questa farsa ancor
prima che lui se ne accorga.»
Il maggiore era quasi felice che suo fratello
fosse tornato a parlare di punizioni e omicidi, stava tornando ad
essere il
solito Klaus.
Finalmente avrebbe potuto smettere di preoccuparsi, pensò.
Subito
dopo però si rese conto che lui, Elijah Mikaelson, non
avrebbe mai smesso di
preoccuparsi per i suoi fratelli. Gli ultimi che gli erano rimasti,
quelli cui
teneva più di ogni altra cosa.
«Temo però che dovrai occupartene tu,
perché io al momento sono in vacanza.»
Stringendosi
nelle spalle, il viso di Klaus si illuminò di un sorriso che
però non gli
giunse agli occhi. «Sono diventato padre da poco, ricordi?
Devo stare con mia
figlia, cambiare pannolini…»
«Niklaus, quella bambina quasi non ti conosce. Hai costretto
Hayley a darle il
nome che tu avevi scelto e poi hai sempre cercato di
evitarla.»
«Però devi ammettere che il nome che le ho dato
è molto bello.»
Adesso Elijah cominciava a spazientirsi. La sua fronte venne solcata da
una
linea profonda, segno di una preoccupazione sempre maggiore.
Ma anche di una
rabbia che a stento riusciva a trattenere.
Era quello pacato e virtuoso, lui,
non avrebbe dovuto lasciarsi andare a inutili e letali scatti
d’ira. Quella era
una prerogativa del fratello che gli stava di fronte.
«Fa’ come vuoi, Niklaus,
continua a comportarti come stai facendo adesso. Ma se perderemo New
Orleans,
la città che consideriamo la nostra casa, dovrai arrangiarti
da solo.»
Uscì dalla stanza lasciando il fratello con ancora il
bicchiere in mano, un
sorrisetto soddisfatto sulle labbra e i demoni che urlavano dentro di
lui.
Klaus non si scompose di quella minaccia, perché ormai la
solitudine non gli
faceva più paura.
L’aveva sperimentata negli ultimi sei mesi e la stava vivendo
anche in quel momento.
Suo fratello avrebbe dovuto cambiare registro per
riuscire a intaccarlo, perché la scusa della solitudine
ormai non reggeva più.
Sotto quel punto di vista, Klaus Mikaelson era ormai inattaccabile e
indistruttibile.
Lasciò il bicchiere quasi vuoto sul tavolo e
tornò al suo
quadro che, però, non lo ispirava più come prima.
Per questo afferrò il blocco
dei suoi schizzi e lo sfogliò, fino a quando
trovò l’ultimo disegno.
Quello
incompleto, quello che aveva paura di terminare.
Nonostante tentasse sempre di
mostrarsi forte e temibile, non era raro che la paura lo attanagliasse
fino a
farlo fuggire perfino da se stesso.
Non aveva mai saputo amare nel modo giusto.
Troppo assillante, troppo ossessivo.
Non aveva mai saputo lasciare libertà alle
persone che amava. A Rebekah. La libertà di agire, di amare
e di sbagliare.
Aveva sempre cercato di riparare ai suoi errori ancor prima che lei li
compisse,
finendo per allontanarla da sé.
L’aveva portata allo stremo della pazienza, era
stato a causa sua che Rebekah aveva condotto Mikael in quella
città.
E le aveva
comunque dato la colpa. Perché è più
facile colpevolizzare gli altri, piuttosto
che se stessi.
È più facile sentirsi la vittima,
anziché il carnefice della
persona che si ama.
Alla fine però l’aveva lasciata andare, le aveva
concesso
la possibilità di vivere e di essere felice lontana da lui.
Almeno questo,
ricordò a se stesso, lo doveva alla sorellina che lo aveva
sempre amato e che
gli era sempre stata accanto.
Non lo aveva mai lasciato, almeno fino a sei mesi
prima.
Sfiorando quasi con timore il liscio profilo del volto impresso
sulla carta, finalmente Klaus si decise a completare quel ritratto.
Magari
riprendendo proprio dalle seriche onde color grano che incorniciavano
un viso
altrettanto incantevole.
Quando raggiunse la camera che divideva con la compagna, Elijah permise
a se
stesso di riprendere la calma che aveva perso.
Un evento raro, visto che non la
perdeva neppure nei momenti di più profonda tensione.
Alla domanda silenziosa
di Hayley, lui rispose con un leggero scuotimento del capo e la ragazza
si
lasciò cadere seduta sul letto con uno sbuffo.
«So che è strano da dire, ma lo
preferivo quando faceva lo psicopatico, almeno era facile
odiarlo» esordì la
licantropa, afferrando una mano di Elijah che le si era seduto vicino.
«Ho
anche perso la voglia di ucciderlo, mi fa solo una gran
pena.»
Senza dire una
parola, il vampiro annuì e intensificò la stretta
alla mano della giovane
compagna.
Vedere il velo di preoccupazione che le copriva gli occhi, non fece
altro che allargarli il vuoto che sentiva allo stomaco. Se anche Hayley
era in
pena per Klaus, allora la situazione era davvero molto grave.
«Ti prego,
Elijah, fallo tornare detestabile.»
E quell’ultima preghiera servì a darli la spinta
finale per rendere reale la
decisione che aveva preso.
Elijah annuì ancora una volta, posò un lieve
bacio
sulle labbra della compagna e afferrò il telefono.
L’Europa l’aveva sempre affascinata. Nettamente
più antica dell’America,
Rebekah vi aveva sempre colto un velo di magia e mistero.
Respirò a pieni
polmoni l’aria fredda di San Pietroburgo e sorrise quando il
fiato le uscì
dalle labbra in piccole nuvole bianche.
Nonostante la sua condizione di
immortale la riparasse dal freddo gelido della Russia, la vampira si
strinse
nel suo cappotto di cashmere e, come fecero tutti gli umani in fila
davanti a
lei, mostrò il biglietto d’ingresso
all’addetto del museo. Il complesso
architettonico formato da cinque grandi palazzi era proprio come lo
ricordava.
Maestoso e lussuoso, nel puro stile degli zar che –nel primo
Novecento- erano
stati uccisi dai rivoluzionari. Rebekah alzò il capo, mentre
il suo sorriso
prendeva ancor più vita alla vista della bellezza che
nutriva i suoi occhi.
“Noi siamo come l’arte, Rebekah. Immortali e
maestosi, senz’alcun timore e in grado di ammaliare anche
l’animo più
incorruttibile. È pur vero, però, che nessun
animo lo è davvero. Incorruttibile,
intendo.”
Le parole di Klaus gli danzarono nella mente, costringendola ad
abbassare lo sguardo e a proseguire dritto all’interno del
museo.
Quelle
parole, a distanza di secoli, erano riuscite ancora una volta a farle
perdere
il sorriso.
Loro erano i Mikaelson, i primi vampiri mai creati, abomini della
natura. Erano duri come roccia e freddi come il ghiaccio.
Rebekah invece no.
Lei voleva essere calda come il fuoco, voleva essere viva. Desiderava
l’amore e
quella famiglia che, sapeva, non avrebbe mai potuto creare. In un certo
senso,
Klaus aveva avuto ragione. Loro erano come l’arte, immortali.
Resistenti al
tempo, alle malattie, perfino alla morte.
Resistevano alle lacrime versate e a
quelle trattenute; ai sospiri e alle urla; alla gioia e al dolore; ai
rimorsi e
ai rimpianti.
Girovagando tra le varie sculture, la vampira si fermò a
osservarne una in
particolare.
La targhetta sottostante informava che l’autore era
Michelangelo,
lo stesso artista che aveva dipinto uno dei luoghi che più
l’affascinavano.
“Siamo tutti peccatori. Lo sono tutti, anche
quelli che Michelangelo ha dipinto tanto in alto” le
aveva detto un giorno
Klaus, mentre lei stava ammirando in silenzio “Il giudizio
universale”, l’opera
più maestosa che lei avesse mai visto.
«Tu però lo sei più di ogni
altro» mormorò puntando gli occhi sul giovane
accovacciato, con le mani incrociate sul terreno e il riccioluto capo
chino.
Quel giovane, sebbene i suoi lineamenti fossero poco marcati, le
ricordò
proprio quel fratello che l’aveva cacciata via da New
Orleans. Forse per i
capelli ricci o per l’espressione inquieta. Per questo motivo
scattò e si
allontanò velocemente da quell’opera
d’arte senza dubbio splendida, ma
colpevole di averla rimandata a ricordi dolorosi.
«No.» Il sussurro strozzato uscì dalle
sue labbra, mentre gli occhi le si
riempirono di lacrime.
Klaus era proprio lì davanti a lei, anche se non in
senso letterale.
Rebekah, cercò di ricacciare le lacrime e guardò
in silenzio
il paesaggio che si stagliava davanti a sé. Non era una vera
esperta di
pittura, ma la mano dell’artista era inconfondibile. Era
stata presente durante
la creazione di quel meraviglioso paesaggio.
Aveva atteso per settimane che
esso venisse completato, per poterlo ammirare nella sua interezza.
Era come guardare
una cartolina, una foto in grado di catturare ogni cosa, anche il
leggero
soffiare del vento.
Quel quadro, che solo in pochi avevano osservato mentre gli
altri turisti avevano semplicemente tirato dritto, era stato creato da
un
artista che aveva desiderato mantenere l’anonimato. La
vampira respirò a labbra
schiuse e si asciugò gli occhi con una mano, un gesto secco
e veloce che a una
semplice umana avrebbe sicuramente causato un’irritazione
della pelle.
E lei
odiava non soffrire di quelle piccole debolezze!
Le voleva, voleva tutto ciò
che rappresentasse l’umanità che aveva perso.
Restò a fissare le foglie
immobili e appassite anche quando il telefono le vibrò in
tasca e lei rispose,
senza neppure leggere il nome di chi la stava cercando. Il groppo alla
gola non
fece altro che stringersi quando sentì Elijah pronunciare il
suo nome.
“Forse
è arrivato il momento di tornare a casa, Rebekah.”
Già,
tornare a casa. Ma quale? Rebekah non aveva più una casa.
Forse non l’aveva mai
avuta.
Casa era quel luogo in cui viveva con i suoi fratelli, durante le
interminabili fughe.
Casa era stato il luogo che aveva condiviso con Klaus
quando, nell’ultima fuga della loro vita, avevano lasciato
Elijah a New
Orleans.
Una fuga che lei stessa aveva causato.
Girovagava tre le strade ammantate di neve, ma non si stava godendo la
tanta
desiderata libertà.
“Non posso sprecare
quest’opportunità di
essere libera, Elijah.”
Non poteva proprio. Se fosse tornata a New Orleans, Klaus non
le avrebbe
dato una seconda occasione per essere felice. Forse avrebbe cambiato
idea, una
volta vista, e l’avrebbe uccisa sull’uscio di casa.
Infilando le mani nelle
tasche del cappotto, la vampira percorse gli ultimi isolati che la
separavano
dal suo albergo, da un bagno caldo e dal grande e comodo letto sul
quale
sperava di trovare un sonno senza sogni.
Aveva fatto una
promessa. E non si poteva certo dire che
Klaus Mikaelson non mantenesse le sue promesse.
Per questo motivo aveva
lasciato carta bianca al fratello.
Voleva disperatamente piantare una mano nel
torace di Marcel e strappargli via il cuore.
Proprio come lui e Rebekah avevano
strappato via il suo.
E magari pestarlo, più e più volte, fino a
ridurlo in
poltiglia mentre dinnanzi a lui il vampiro crollava a terra ed esalava
l’ultimo
respiro. Ma non poteva. Le sue mani erano bloccate e i polsi legati da
un
laccio invisibile.
In piedi davanti alla culla di legno intarsiato, Klaus
approfittò di quel momento di assoluta solitudine per
sfiorare la guancia
paffuta della figlia con un polpastrello. Senza nessuno a ronzargli
intorno per
controllare che non uccidesse quel piccolo fagotto, non riusciva a
guardarla
con indifferenza. Le sue labbra erano piccole e carnose e i radi
capelli biondi
erano ribelli e ondulati come i suoi.
Scostò la mano dalla bambina appena
avvertì la presenza del fratello farsi vicina e
indietreggiò di un passo per
allontanarsi dalla culla.
Quando si voltò verso la porta, notò lo sguardo
amorevole che Elijah aveva rivolto alla piccola addormentata e
avvertì un moto
di irritazione divampargli dentro. Suo fratello poteva tranquillamente
tenersi
la giovane lupa, ma la bambina era sua. Rebekah era sua.
«Ti somiglia molto.» Elijah gli si
avvicinò e incrociò le braccia al petto, ben
attento a non guardare la piccola in presenza del fratello minore che
schioccò
la lingua e lo guardò con annoiato.
«Almeno adesso sappiamo per certo che è mia
figlia.»
A quella dichiarazione di possesso che celava una certa minaccia, il
vampiro
sorrise e arricciò il naso, come se ciò che aveva
appena sentito fosse molto
divertente. O alquanto ridicolo.
Sicuramente gli stava nascondendo qualcosa, pensò, ed era
intenzionato a
scoprire di cosa si trattasse.
Elijah invece, da quanto tre giorni prima aveva
telefonato alla sorella, non aveva fatto altro che pregare
silenziosamente,
sperare e contare le ore, i minuti e perfino i secondi.
«La faccenda con Marcel è stata
sistemata» cambiò argomento, consapevole che,
se da una parte aveva compiaciuto il fratello, dall’altra
aveva deluso la
sorella. Rebekah non l’avrebbe mai perdonato, ne era certo.
Un altro fratello
da odiare, un altro fratello cui dire addio.
Questa volta per sempre, perché
era sicuro che si sarebbe rifiutata di parlargli anche al telefono.
Così come
Niklaus, anche lui l’avrebbe persa. E proprio il fratello,
per la prima volta
in sei mesi, gli rivolse un sorriso smagliante.
«Molto bene, fratello,
finalmente una buona notizia!»
Klaus lo ricompensò con una pacca sulla spalla e
uscì dalla stanza, forse per rintanarsi in quello che era
divenuto il suo luogo
per eccellenza.
Magari si sarebbe immerso in un nuovo quadro, tutto pur di non
affrontare la realtà a testa alta.
Era nell’indole di Klaus.
Quante volte aveva percorso quella strada, seduta comodamente in quella
stessa
auto?
Ormai Rebekah aveva perso il conto. Il vento tra i capelli,
però, riuscì
a portare via con sé il timore che le irrigidiva le spalle.
Stava tornando a
casa, convinta da suo fratello Elijah. Le aveva assicurato che Klaus
non ci
sarebbe stato. E aveva rincarato la dose di sensi di colpa, facendo
leva
sull’amore che provava per quella bambina che non aveva
ancora avuto modo di
vedere.
Sarebbe tornata a casa, avrebbe cullato tra le braccia la sua nipotina
e sarebbe nuovamente andata via. Solo poche ore.
Un viaggio di quasi un giorno
intero, per sole poche ore in famiglia. Una famiglia dimezzata, visto
che
avrebbe avuto la sola compagnia di un fratello amorevole, una ragazza
che aveva
lasciato prima che potesse davvero diventare sua amica e una nipotina
che non
aveva mai visto.
Sarebbe entrata dalla porta sul retro, magari sarebbe stata fortunata e
non
avrebbe incontrato Klaus.
Rebekah scosse il capo quando spense il motore,
stupendosi per la sua ingenuità. Come se non sapesse che
Klaus avrebbe potuto
sentirla anche se fosse entrata dal retro! Lui sapeva sempre tutto,
sentiva
sempre tutto, vedeva sempre tutto.
Smontò dall’auto con una decisione che non
provava, ma che era costretta a ostentare per non lasciar trapelare
l’incertezza che viveva dentro di lei. Incertezza e timore,
insieme a un’aspettativa
che non avrebbe dovuto sentire. Per secoli aveva desiderato la
libertà e adesso
sperava di vedere proprio quell’unica persona che non aveva
mai voluto
concedergliela?
Battendo le palpebre e costringendosi a ricacciare indietro ogni
emozione che
non era giusto provare, la vampira mise piede in casa. Come
un’accoglienza
preparata, un vagito la raggiunse dal piano di sopra e lei sorrise. Era
come se
la sua nipotina avesse saputo che la zia fosse arrivata proprio per
lei.
Il sorriso però le si spezzò sulle labbra, mentre
il respiro le si bloccava in
gola.
La presenza alle sue spalle era inconfondibile.
«Rebekah.» Una sola parola che la fece voltare, per
guardare in faccia l’uomo
che le aveva reso l’esistenza un vero inferno.
Ma, al tempo stesso, l’uomo che
per mille anni aveva amato con tutta se stessa. Klaus la fissava con
gli occhi
sgranati e le labbra schiuse.
E in quel momento, la somiglianza tra i due fu
inconfutabile.
Una somiglianza che non coinvolgeva i tratti fisici, ma emozioni
ed espressioni. Una somiglianza tutta loro.
«Ciao, Nik» sussurrò lei in
risposta, immobile, incerta se restare in quella casa o scappare via.
Nik le avrebbe fatto del male? Per la prima volta dopo decenni, Rebekah
pensò
che Niklaus Mikaelson non le avrebbe torto neppure un capello.
O forse era solo
la speranza che stava offuscando la sua capacità di
giudizio.
Non potendo
essere sicura di quella sua sensazione, non le restò altro
che provare a
fidarsi.
Angolino targato
“klabeks_ks”
Buondì!
Perdonatemi qualora trovaste che Elijah e Hayley non sono
caratterizzati
correttamente, ma non ho mai scritto nulla su di loro e ammetto di non
conoscerli molto bene.
La storia si svolge sei mesi dopo l’addio di Rebekah a New
Orleans e ho deciso
di non seguire gli avvenimenti che saranno presenti nel prossimo
episodio di
The Originals. Prendetela come un tentativo di rendere giustizia a una
coppia
che, nel bene e nel male, ci ha emozionati dalla prima
all’ultima scena.
Spero che questa breve fanfiction senz’alcuna pretesa possa
piacervi!
E adesso mi siedo, buona buona, e aspetto i vostri pareri.
Al prossimo capitolo! XD
Ps. CW, PLEC,
TUTTI GLI ARCANGELI DEL PARADISO E PURE DIO IN
PERSONA…
RIDATECI CLAIRE HOLT IN “THE ORIGINALS”!