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Autore: Macbeth nella Nebbia    16/03/2014    0 recensioni
[I Racconti dell\'Età del Jazz.]
“Com’è stato il viaggio, Zelda?”
“E’ stato tranquillo. Non ho le ossa rotte come l’ultima volta, queste nuove auto sono sempre più stupefacenti!”
“Hai ragione, le automobili ci hanno salvato le ossa! Montgomery è sempre come la ricordiamo?”
“C’è molta più gente rispetto a dieci anni fa, finti ricchi per lo più.”
“Che peccato, è una città così bella Montgomery. Un vero peccato che questi mascalzoni la stiano rovinando. Perché non dici ai tuoi ai genitori di trasferirsi qui vicino a noi a New York?” mi chiese la madre di Jane.
“Ci sono molte proprietà a basso prezzo qui vicino e vanno letteralmente a ruba!” aggiunse il padre aspirando una boccata di fumo dal suo sigaro.
Jane chiese il permesso di potersi accendere una sigaretta, feci lo stesso anche io e allora cominciammo entrambe la nostra sigaretta mentre i maggiordomi tenevano il fuoco vivo aggiungendo legna.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER:
I fatti qui narrati sono stati completamente inventati dalla sottoscritta. So benissimo che storicamente parlando, non ha senso questa one-shot, ma essendo una grande appassionata dei libri di Fitzgerald ho voluto omaggiare il suo essere con questa cavolata.
So bene che Zelda conoscerà Fitzgerald quando lui avrà già pubblicato Di Qua Dal Paradiso ma in questo mio scritto li farò conoscere quando lui avrà già comprato la casa a Long Island, dove come ben saprete verrà ispirato per la stesura de Il Grande Gatsby.
Spero possiate ugualmente apprezzare, se invece siete un po’ scettici e quant’altro, non esitate a contattarmi o lasciare una recensione :)
buona lettura a chi leggerà.
rainsofcastamere




“Io non voglio vivere. Io voglio prima amare, e incidentalmente vivere.”




 
One-shot partecipante al concorso "Uno, nessuno e centomila" indetto dal gruppo "I Lettori Sono Personaggi Immaginari Creati Dalla Fantasia Degli Scrittori." su Facebook.


 
 







Era l’inverno del 1923. Febbraio, 1923. Faceva terribilmente freddo quell’anno.
Mi trovavo in una cittadina poco fuori New York. Ero andata per rivedere una mia cara amica, Jane.
Avevo poco più di diciannove anni, ero così spensierata. Jane aveva la mia stessa età, c’era un mese di differenza tra noi due.
Lei era una ragazza meravigliosa. Alta, capelli biondi come il sole lunghi fin sotto le orecchie portati lisci e rotondi, l’immancabile fascia nera o bianca per tenere la frangia.
Il giorno che arrivai in quella piccola città aveva indosso un’ingombrante pelliccia bianca, la fascia anch’essa di colore bianco e le scarpe nere chiuse con un poco di tacco che le regalai io per il suo diciottesimo compleanno.
Le sorrisi da lontano, poi, tenendo la piccola valigia in cuoio marrone e un libro nell’altra mano cominciai a correre goffamente per raggiungerla. Quando la abbracciai mi sentii invadere da un’immensa gioia.
Ero così felice di poterla rivedere, di divertirmi con lei, di raccontarle cosa facevo nella casa dei miei genitori a Montgomery, in Alabama.
“Stasera andremo ad una festa per festeggiare il tuo arrivo!” mi disse euforica prendendomi la valigia dalla mano e guidandomi verso la macchina che ci avrebbe portato nella sua villa ad East Egg.
La baia di New York era il covo dei nuovo ricchi, ma la famiglia di Jane era ricca da ancor prima che lei nascesse, questo era poco ma sicuro.
“C’è un tipo, uno scrittore famoso, ha invitato i miei genitori alla sua festa di carnevale. Possiamo andarci anche noi, poi ho un po’ di amici da farti conoscere!”


La villa della famiglia di Jane era regale. Tinta di giallo pastello con le colonne bianche, la casa si estendeva per metri e metri, su due piani. C’erano un’infinità di stanze, la mia che era la solita degli ospiti era al secondo piano in fondo a destra, dava sul piccolo bosco della tenuta. Si potevano vedere le altre case dei ricchi.
A Montgomery io vivevo anche in una piccola villa ma non aveva nulla a che fare con queste enormi di New York. Però mi ci trovavo bene. Non mi sentivo a disagio.
La servitù era gentile, anche se molto spesso venivano presi in giro o trattati male dai genitori di Jane o dai loro amici. Io mi limitavo a sorridere per cortesia ma provavo un tremendo disgusto per coloro che mi stavano ospitando.

 


“Com’è stato il viaggio, Zelda?”
“E’ stato tranquillo. Non ho le ossa rotte come l’ultima volta, queste nuove auto sono sempre più stupefacenti!”
“Hai ragione, le automobili ci hanno salvato le ossa! Montgomery è sempre come la ricordiamo?”
“C’è molta più gente rispetto a dieci anni fa, finti ricchi per lo più.”
“Che peccato, è una città così bella Montgomery. Un vero peccato che questi mascalzoni la stiano rovinando. Perché non dici ai tuoi ai genitori di trasferirsi qui vicino a noi a New York?” mi chiese la madre di Jane.
“Ci sono molte proprietà a basso prezzo qui vicino e vanno letteralmente a ruba!” aggiunse il padre aspirando una boccata di fumo dal suo sigaro.
Jane chiese il permesso di potersi accendere una sigaretta, feci lo stesso anche io e allora cominciammo entrambe la nostra sigaretta mentre i maggiordomi tenevano il fuoco vivo aggiungendo legna.

La piccola veranda chiusa dava sul grande giardino, al fondo di questo c’era un molo dove era attraccata una piccola imbarcazione.
Avevamo finito la cena da poco. Stavamo in un religioso silenzio quando Jane decise di dire i programmi della serata alla madre e al padre.
“Stasera veniamo con voi alla festa di quello scrittore che abita qui vicino. Possiamo, vero? Dobbiamo festeggiare l’arrivo di Zelda e poi dobbiamo provare le nostre maschere!”
La madre fece un cenno al marito che annuì.
Quella sera, ancora non sapevo che avrei incontrato l’uomo della mia vita.

 

“Questa maschera ti dona moltissimo.” Mi disse Jane vedendomi con una bizzarra maschera come quelle del famoso carnevale di Venezia, nera con brillanti argento. Tutta attorno era contornata di piccole piume grigie ed una piccola asticella nera mi permetteva di tenerla davanti agli occhi.
“Ti starebbe benissimo, hai il vestito proprio di quei colori!”
Le sorrisi, annuendo. “Hai ragione. Porterò questa.”
La aiutai a scegliere la sua maschera.
“I miei genitori vogliono che stasera mi trovi un ragazzo, ricco, da poter sposare. Ma io voglio semplicemente divertirmi e se lo troverò sarà perché mi piace veramente.”
“E perché lo ami veramente...”
“Nessuno ama più veramente, Zelda. Credi per caso ancora nell’amore vero?”
“Io? Bhe, un poco. Insomma.”
“Toglitelo dalla testa, l’amore vero ed immortale non esiste, non lo trovi come l’oro o come i vestiti.”
Guardai fuori dalla finestra mentre Jane continuava a dirmi la sua strana convinzione sull’amore. Le carezzavo i capelli con la spazzola.
Non le credevo. Non le avrei mai creduto.

 

Partimmo con l’auto gialla guidata dall’autista personale della famiglia.
Io e Jane eravamo euforiche, ci saremmo divertite molto anche perché i genitori della mia amica erano su un’altra macchina e si sarebbero fermati poco.
Non amavano presenziare alle feste. E loro nemmeno ne facevano.
Io e Jane ne andavamo matte. Ogni volta che ci trovavamo, alla sera dovevamo per forza trovare qualcuno che facesse dei party meravigliosi nelle loro ville.
Quando l’autista ci informò che era arrivato davanti al cancello della villa ci fiondammo con le teste fuori dai finestrini per vedere qualcosa.
Un lungo viale alberato e la strada sterrata portavano dinnanzi ad una meravigliosa villa fatta come un castello.
Una fontana e delle aiuole facevano da rotonda per le macchine per poter scaricare gli ospiti.
C’era molta gente, almeno un centinaio ed erano tutti giovani già ubriachi.
I ruggenti anni ’20, gli anni del Jazz non aspettavano altro che noi due, Jane e Zelda.
Scendemmo dalla macchina ringraziando l’autista. Tenemmo le nostre maschere in una mano e con un veloce sguardo ci mettemmo a ridacchiare per tutto lo sfarzo che ci circondava.
Jane era visibilmente euforica, io lo ero a mio modo.
Silenziosa seguii Jane all’interno della casa, anzi, seguii la scia di gente che affollava il corridoio enorme della casa. Quando ci avvicinammo ad una porta il traffico fluiva in un grande cortile, ampio, con una meravigliosa ed enorme piscina. Ballerine con vestiti al limite della decenza di quegli anni, musica jazz, ballerini, musica jazz, champagne.
Queste erano le basi per una festa, poi se il proprietario era uno sconosciuto, ma tu ti stavi divertendo ugualmente, la festa allora era una bomba.
“Scusate ma voi sapete di chi è questa festa?”
“Di uno scrittore, non sappiamo chi sia. Però ci hanno chiesto se ci venivamo e abbiamo accettato!”
“Noi siamo state invitate, o meglio, i miei genitori sono stati invitati, noi li abbiamo seguiti!”
Jane stava conversando tranquillamente con quattro ragazzi seduta ad un tavolino mentre io ero appoggiata ad una balaustra dove potevo vedere la piscina e poi il bosco, ma oltre il bosco potevo vedere anche il mare e le case oltre la zona dov’eravamo, oltre Long Island.
Tenevo la mia maschera e bevevo champagne senza sosta.
Ad un certo punto mi si avvicinò un uomo, anch’egli con una maschera completamente nera in volto.
“Le piace la festa signorina?”
“Se mi piace? E’ meravigliosa. Questa casa è meravigliosa. Un peccato non conoscere il proprietario.”
“Come, non sa chi è?”
“No, purtroppo so solamente che è uno scrittore...” dissi imbarazzata, continuando a mantenere sul volto la mia maschera.
L’uomo sorrise e poi se ne andò via scomparendo dietro di me.
“Zelda, con chi stavi parlando?” mi chiese Jane sorridendo.
“Non lo so...” risposi distratta. “Non mi ha nemmeno detto il suo nome.”

 

“Ho sentito che lo scrittore si chiama Fitzgerald di cognome.”
Fitzgerald, che cognome strano ma allo stesso tempo meraviglioso ed enigmatico.
“Dicono abbia le più belle ragazze di New York ai suoi piedi. Lo adorano.”
“Io però non ho ancora letto nulla di questo qui...”
Jane aspirò una boccata di fumo dalla sua sigaretta mentre io continuavo a bere champagne seduta a quel tavolino assieme a dei ragazzi e a delle ragazze.
Tutti con la maschera davanti agli occhi, nessuno osava toglierla.
Dopo alcuni minuti di silenzio decidemmo di ritornare a ballare il jazz in mezzo a tutta quella gente.
Il bello di quella festa era che dovunque volgevi lo sguardo, non vedevi mai la stessa gente, ma sempre persone diverse, volti con maschere diverse.
Temetti per un istante che il ragazzo della chiacchierata dalla balaustra fosse uno di quelli che non c’erano più in questo circo di persone.

 

“Mi concede questo jazz, signorina dalla maschera nera e argento?”
Mi voltai verso la voce che mi aveva parlato all’orecchio e trovai il ragazzo dalla maschera nera davanti ai miei occhi.
Sorrisi, inevitabilmente. Se non fosse riapparso, me ne sarei stata sicuramente al tavolino, continuando a bere e fumare.
Annuii con la testa e facendogli spazio lo feci entrare nel gruppo di amici con cui stavo ballando.
Eravamo uno davanti all’altro, muovevamo senza sosta i piedi e non sentivamo alcun male, continuavamo a bere e a ballare, bere e ballare.
Finito il jazz partì un lento. Mi guardò cercando di convincermi con lo sguardo a ballare su quelle note.
Come potevo rinunciare, dire di no a quelle iridi?
Poggiai una mano sul suo braccio. Era molto più alto di me, sebbene avessi ai piedi i tacchi neri.
“E’ una ragazza bellissima, se lo lasci dire.” mi disse di nuovo all’orecchio e io tentai di non arrossire, ma sicuramente senza successo.
Continuammo a ballare, finché non decisi di staccarmi e dirgli che ero stremata. Lui annuì apprensivo e mi portò vicino ad una balaustra che dava sul bosco, ma anche sul mare.
Mi sedetti dandomi una spinta su quel muretto, lui rimase in piedi davanti a me.
“E’ passata la mezzanotte da un po’, il carnevale in teoria è concluso...”
Questo voleva dire dover togliere le maschere, svelare la propria identità.
Spostai di poco la mia ma lui con un gesto gentile della mano bloccò il mio polso.
Si avvicinò al mio volto e lasciò che le nostre labbra si sfiorassero per una frazione di secondo.
“Tieni la maschera, ancora per un poco.”
“Posso sapere il tuo nome?” dissi ammaliata, tremendamente resa schiava del suo essere.
Non lo ascoltai e tolsi da davanti al volto la mia maschera, scoprendo così la mia identità.
“Io sono Zelda. Zelda Sayre.”
Mi guardò, incantato, poi anche lui tolse la maschera che portava.
Era uno dei ragazzi più belli che avessi mai visto.
“Zelda Fitzgerald, potrebbe andare?” disse lui.
Non capii subito, non ci arrivai a causa di tutto quello champagne.
“Francis. Io sono Francis Scott Fitzgerald.”

   
 
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