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Autore: Puerto Rican Jane    17/03/2014    4 recensioni
Fu durante una dolce estate maledetta che io e Bobby diventammo amici. Eravamo in qualche modo destinati ad esserlo. Entrambi cercavamo allora di respirare il fuoco in cui eravamo nati. Entrambi amavamo la stessa musica, amavamo le stesse band, amavamo persino gli stessi vestiti. Quella fu l’estate più corta e più bella della mia vita.
Genere: Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BOBBY JEAN
 
Avevo sempre sognato di scrivere una canzone. Non di diventare cantante, ma solo di scrivere una canzone. Volevo scrivere qualcosa che mi collegasse a tutti gli altri. Mi è sempre sembrato sorprendente che un semplice insieme di note potesse unire così tante persone che, provenendo da parti diverse del mondo e avendo storie tutte diverse, si riconoscono tuttavia in una sola melodia. Ho sempre sognato che la gente, ascoltando una mia canzone, pensasse: «Ehi, ma allora non sono solo, anche qualcun altro mi capisce!».
Ora, non so se sono riuscito a far balenare questo pensiero a qualcuno, ma è certo che, con questa canzone, almeno ad una persona farò tornare alla mente momenti, ricordi, sogni, anni.
 
Questa storia inizia dalla fine. Inizia da un pomeriggio di fine giugno, quando già il quarto anno di scuola era finito. Si preannunciava un’estate fantastica: avevamo davanti a noi tre mesi di divertimento allo stato puro. Mica male.
Era un pomeriggio afoso, uscire di casa era una tortura, solo pochi coraggiosi non si stavano rinfrescando all’interno delle casupole di quella polverosa città di uomini morti in cui ho vissuto durante la mia adolescenza, in un punto non definito del New Jersey. Io ero uno di quei pochi coraggiosi che, testardamente, continuavano a rimanere sotto il sole cocente. Stavo correndo verso Bond Street. Come ogni giorno, d’altronde. Lì abitava il mio più grande amico, Bobby. Quando si pronunciava il nome di Bobby, si pronunciava anche il mio. Eravamo i perfetti compagni di avventura, quegli amici di cui si scrive nei libri e nei film, quelli che tutto il paese conosce, quelli che gli anziani guardano scotendo il capo, quelli che le ragazze fissano ridacchiando. Quelli che passano le giornate al parcheggio, quelli che provano a camminare come degli eroi, quelli che si trovano la sera ad Asbury Park per suonare. Quelli eravamo noi.
Stavo correndo da Bobby per fare le prove dell’ultima ora a casa sua. Tutti e due sognavamo di sfondare nel mondo della musica e stavamo facendo una dura gavetta nel luogo dove nascono le star, Asbury Park. Quel luogo per noi era tutto: i  nostri sogni erano racchiusi in un solo locale, lo Stone Pony, e ogni speranza era rimessa nelle mani del pubblico. Lui il basso, io la chitarra. Eravamo come McCartney e Lennon. Ma rispondevamo semplicemente: «Scrivere canzoni», quando ci chiedevano cosa volevamo fare dopo.
Ero appena arrivato di fronte alla casa di Bobby. Non era proprio in ottimo stato, la vernice era scrostata qua e là, e mancava qualche tegola, ma era grande, molte grande, e aveva un bellissimo giardino. La adoravo, era una casa che sapeva… di casa. La porta principale aveva una finestra di vetro, e riuscivo a vedere che dentro c’era un certo movimento. Sua madre mi aprì. Era una donna sui quarant’anni piuttosto corpulenta con la quale madre natura non era stata molto clemente. I suoi occhi azzurro chiaro, che colpivano per il contrasto con i capelli neri striati di bianco, erano confusi, dispersi, a disagio. Non dissi nulla, solo la guardai. Avevo capito che c’era qualcosa che non andava.
«Se n’è andato». La sua voce era flebile e stanca. E fu come se un macigno mi fosse precipitato nello stomaco. Provai ad aprir bocca, ma non ne uscì nessun suono. Provai ad avvicinarmi a quella donna, per consolarla, ma non vi riuscii. Quelle poche parole mi avevano tolto tutto. Erano così terribili che quasi non riuscivo a crederci. Non capivo il perché.
«Non c’era niente che avresti potuto fare, non c’era niente che nessuno avrebbe potuto dire per fermarlo.»
Quella notizia mi faceva paura. Quelle parole dette con una voce così spettrale mi intimorivano. Scappai come un vigliacco. Me lo rimprovero ancora oggi. Ma non sempre si possono fare le scelte giuste. Però questa volta non capivo dove avessi sbagliato. Non capivo dove fosse il mio errore, cosa avessi fatto per non averlo indotta a parlarmene. Ad essere sinceri, avevamo spesso, sempre progettato di scappare in effetti. Volevamo scuoterci dalle scarpe la polvere di quell’inutile paese e andarcene, girare il mondo con un basso e una chitarra. Ma mai, a nessuno dei due, o almeno a me, era passata per la testa l’idea di partire da solo. Era una cosa assurda. Ma speravo almeno me l’avesse detto. Avrei capito. Speravo almeno di poterlo chiamare. Solo per dirgli: «Ciao, Bobby Jean».
Ci conoscevamo da quando avevamo sedici anni. In realtà quando lo vidi a scuola il primo giorno non lo notai, solo una faccia nuova tra molte.
Fu durante una dolce estate maledetta che io e Bobby diventammo amici. Eravamo in qualche modo destinati ad esserlo. Entrambi cercavamo allora di respirare il fuoco in cui eravamo nati. Entrambi amavamo la stessa musica, amavamo le stesse band, amavamo persino gli stessi vestiti. Quella fu l’estate più corta e più bella della mia vita. Diventammo amici quasi per caso, e lui fu l’unico che restò con me, quando ormai tutti gli altri se ne erano andati via storcendo il naso. Diventammo amici perché gli chiesi, all’inizio quasi con indifferenza, di poter ascoltare nella sua macchina (che in realtà aveva “preso in prestito” da suo fratello) una cassetta degli Animals che avevo appena comprato. Il mio mangiacassette si era rotto, ed era intollerabile per me aspettare mesi prima che fosse riparato: dovevo poter assaporare sul momento il mio nuovo acquisto. Diventammo amici perché io gli offrii una sigaretta. Una terribile Cammel. Diventammo amici perché eravamo gli unici in quella città ad essere vivi, ad avere dei sogni, ad avere la forza di combattere.
Passammo quella dolce estate maledetta a nasconderci nelle strade secondarie, a suonare nei parcheggi delle periferie, io con la mia Fender classica, lui con “Paulie”  (aveva chiamato così il suo basso, in onore, naturalmente, del grande Beatle), passammo quell’estate con i nasi appiccicati alle vetrine del negozio di dischi a contemplare il nuovo LP dei Pink Floyd oppure, quando faceva troppo caldo persino per pensare, dormivamo distrutti sulla spiaggia a Stockton’s Wing. Durante quell’estate maledetta avevo creduto di non aver bisogno di nient’altro. Giurammo di rimanere amici per sempre, di vivere nelle strade secondarie fino alla fine. Quella fu l’estate più sfrenata, noi eravamo i più sfrenati, la cosa più folle che avessimo mai visto. Con Bobby potevo essere me stesso. Non avevo bisogno di fingere per la prima volta, come succedeva invece con tutti. Non avevo bisogno di mascherare le mie menzogne e le mie debolezze. Ricordo quando, in una sera di pioggia, quando ti sembrava di poter sentire tutta quella dannata città piangere, gli raccontai quello che non avevo mai detto a nessuno. Che mio fratello Chris era partito per il Vietnam, settimo cavalleggeri, che da un anno non avevamo più sue notizie, che da un anno i miei si comportavano come se fossi diventato il ragazzo invisibile. Non glielo dissi allora perché volevo la sua compassione, non volevo la compassione di nessuno, ma solo perché mi sentivo così debole che sapevo sarei scoppiato da un momento all’altro se qualcuno non mi avesse aiutato. Ero sparito.
Bobby allora prese il posto che Chris aveva lasciato. Mi fece da fratello, mi incoraggiava sempre, mi faceva le prediche quando pensavo di mollare. Lui si preoccupò così tanto per me, e io non mi sono accorto che non poteva più reggere, che non stava più in piedi, che non ce la faceva a passare un solo giorno i quel posto. Non mi sono accorto di come urlava silenziosamente aiuto. Pensavamo di dover diventare degli eroi, di poterci salvare, ma alla fine ci siamo accorti di essere tali e quali a tutti gli altri, prigionieri. Legati da una catena che ci bloccava in questa topaia. E forse fu proprio questo che volle dimostrare Bobby. Che lui era ancora libero, che il suo cervello e le sue gambe funzionavano ancora, che era pronto a correre, era nato per correre, come ci aveva insegnato quel Springsteen: da quel vinile abbiamo imparato di più che da anni e anni di scuola.
Forse, Bobby, alla fine sei riuscito a dimostrare di essere libero, ma da quel giorno di fine giugno, nessuna estate è stata più sfrenata. Nessuna strada secondaria è stata più un nascondiglio. Nessun parcheggio è stato di nuovo una sala prove. Niente di niente. Da quel giorno non c’è stata nessuna persona, nessun luogo, nessuno che mi abbia capito mai nel modo in cui facevi tu. Ecco, penso ancora una volta solo a me. Penso solo a come è stata vuota la mia vita da quando tu, Bobby, te ne sei andato. E so che è stata colpa mai. Non sono riuscito a fare ciò che mi avevi insegnato. Non sono riuscito a rialzarmi e ad andare avanti come hai fatto tu. Ho lasciato che tutto mi scorresse addosso, senza fermare niente. Ora sono adulto, ma c’è ancora solo una cosa che voglio fare. Forse tu ora sei là fuori da qualche parte, forse stai viaggiando da solo in qualche autobus o treno, forse sei in qualche stanza di un motel, e forse in quella stanza c’è una radio che suona. E forse mi ascolterai cantare questa canzone. Hai visto? In effetti, almeno in una cosa sono riuscito, ho composto una canzone. Se mi stai ascoltando, sappi che sto pensando a te e a tutte le miglia e gli ostacoli che ci dividono. E ti sto chiamando un’ultima volta, come non ho fatto anni fa. Non per farti cambiare idea, ma solo per dirti che mi manchi, amico.
Buona fortuna, addio, Bobby Jean.
 
 
*angolo autrice*
Eccomi con un’altra one shot! Spero di non aver fatto proprio schifo, ma l’ho scritta per la prima volta di getto, senza pensare. Come avete visto, ho attinto palesemente da due delle canzoni del nostro, “Bobby Jean” e “Backstreets”. La parte finale è presa spudoratamente parola per parola dal testo della canzone, ma in tutta sincerità non riuscivo a trovare parole migliori per concludere se non quelle che ha usato Bruce. Spero veramente che vi piaccia, anche perché è in buona parte autobiografica, ed è la prima volta che in un testo metto un po’ di me. Se avete consigli o impressioni, sono sempre ben accetti! Alla prossima, baci!
PRG
P. S. Se vi state chiedendo che fine ha fatto “The river”, tranquilli, l’ho appena iniziato e pubblicherò l’ultimo capitolo tra moooolto tempo, ma una ragione c’è: dato che è l’epilogo, voglio scrivere qualcosa di decente e complesso, che non lasci l’amaro in bocca. Abbiate pazienza, per scrivere sono lunga come l’anno della fame!
 
  
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