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Autore: vero_91    17/03/2014    5 recensioni
“Che idiota. Dove vuole che vada?” mormoro al vuoto. Per qualche motivo però, quest'unica parola mi ronza in testa, tenendomi cosciente. L'oscurità, che quando ero nella cella mi sembrava così invitante, una via di fuga per fuggire dalla realtà, ora non mi attrae più, non quanto due occhi grigi.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Johanna Mason
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Fuoco e Cenere '
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Now I'll be bold
As well as strong
Use my head alongside my heart
So take my flesh
And fix my eyes
That tethered mind free from the lies

...And I will wait, I will wait for you
And I will wait, I will wait for you.

[Mumford & Sons – “I will wait”]


 

La prima volta che apro gli occhi, dopo quelli che sembrano giorni, è in seguito a un'esplosione. Rannicchiata in un angolo della cella, nuda e sporca, sento la parete dietro di me vibrare, seguita dal rumore di passi e urla. Incapace di fare qualsiasi movimento rimango nella mia posizione fetale e richiudo gli occhi, e ormai incurante di quello che mi succede intorno perdo di nuovo i sensi.

La seconda volta che apro gli occhi è quando qualcuno mi scuote, ben poco gentilmente, le spalle, urlando qualcosa al mio orecchio. Devo concentrarmi parecchio per riuscire a dare un senso alla sue parole: “Ehi, mi senti? Riesci ad alzarti?” Due mani mi sollevano di peso, mettendomi seduta, la schiena appoggiata alla parete.
Nell'oscurità riesco a vedere solo due occhi grigi che mi fissano, decisamente simili a quelli della Everdeen, anche se la voce è maschile: “Sei la Mason, vero?”.
“E se anche fosse?” rantolo, la gola in fiamme.
Il ragazzo socchiude gli occhi, accigliato, quando un'altra bomba esplode, stavolta a pochi metri di distanza. “Dobbiamo andare.” dice, sollevandomi e prendendomi in braccio. “Stai giù.” sussurra poi, uscendo furtivo dalla cella.
“E' la Mason quella?” La voce arriva alle nostre spalle, mentre il soldato aumenta l'andatura.
“Così pare. Peeta?” chiede, la voce tesa.
“L'abbiamo trovato, è vivo. Lo stanno portando sull'Overcraft. Enobaria invece...” Ad un tratto una bomba esplode alla nostra sinistra, cogliendoci di sorpresa e scaraventandoci dalla parte opposta. Per un lungo momento è solo un susseguirsi di polvere, urla e cenere, anche se il tutto mi giunge ovattato, e l'impatto è meno forte del previsto. Sento il corpo del ragazzo chiudersi a scudo intorno al mio, poi qualcosa di caldo e viscido inizia a colarmi lungo la guancia.
Dopo pochi secondi il soldato si muove e urla qualcosa al suo compagno, che gli risponde poco distante. La suo voce mi giunge lontana e dopo poco cado di nuovo nell'oblio.

La terza volta che apro gli occhi è a bordo dell'Overcraft. Sento il rumore dei motori sotto il mio orecchio, la guancia posata su un freddo sedile e nel braccio un ago collegato a quella che sembra una flebo. Devo raccogliere tutta la mia forza di volontà per mettermi seduta, e quando ci riesco la vista mi si annebbia e un conato di conato di vomito mi assale. Mi concentro su un punto fisso davanti a me, cercando di dare un senso a quello che mi circonda. Per alcuni minuti vedo solo macchie scure che si muovono e urlano ordini, pian piano però le macchie si trasformano in persone e le urla in frasi precise e rassicurazioni.
“Va tutto bene, stai tranquilla. Siete salvi ora.” Un'infermiera a pochi metri da me cerca di calmare Annie Cresta, che si dondola sul posto sussurrando quelle che in un primo momento sembrano parole senza senso. Solo con un po' di attenzione riesco a cogliere la parola “Finnick” in quel mare insensato.
“Vuole Finnick.” dico all'infermiera, che cerca ancora invano di rassicurarla.
La donna mi guarda, confusa, poi dopo qualche secondo sembra capire. “Oh ma sì certo, lo vedrai tra poco. Sta bene, ti sta aspettando.” Annie a quel punto inizia a piangere rannicchiandosi al suo posto, ma almeno ha smesso di dondolarsi istericamente.
Allora è vivo, penso tirando un sospiro di sollievo. Per tutto questo tempo ho vissuto col terrore che fosse morto nell'Arena. Tempo, quanto tempo ho passato in quella merdosa cella? Guardo il mio corpo, cercando qualche indizio, ma l'unica cosa che vedo è lo schifo che mi ricopre.
Eppure dovrei essere pulita, con tutto il tempo che ho passato in acqua, penso ironica. E ad un tratto la vedo: la vasca, l'acqua, le scosse elettriche, i cavi, gli interrogatori, gli insulti, tutto mi ripiomba addosso facendomi perdere l'equilibrio. Il respiro accelera, e la stanza inizia a girare vorticosamente intorno a me.
“Ehi, svegliati.” un colpo secco mi colpisce una guancia, lo schiaffo non è forte ma è abbastanza per farmi tornare alla realtà, dileguando la nebbia che si era creata intorno a me. I lineamenti del ragazzo mi sono estranei, ma non i suoi occhi grigi, quelli sono ancora impressi nella mia mente squilibrata, così come la sua voce.
“Ci sei? Stavi cadendo dal sedile.” le sue mani sulle spalle mi sorreggono, mentre cerca di risistemarmi sul posto.“Chiamo l'infermiera.” aggiunge, guardandosi intorno, una mano stretta ancora sulla mia spalla. La sua presa è ferma, solida.
“Non ce n'è bisogno. Sto bene.” il ragazzo socchiude gli occhi, studiandomi. “Sto bene, ho detto. Cos'è sei sordo per caso?” Non ho bisogno di medicine, ne tanto meno di compassione o pietà. Non ho bisogno di nulla.
Quando alla fine un'infermiera passa a pochi metri da noi, il ragazzo la ignora, posizionandosi di fronte a me. Con lentezza toglie la sua mano dalla spalla, prestando attenzione ai miei movimenti; i suoi muscoli sono in tensione, pronti a scattare nel caso cadessi ancora. La sua preoccupazione mi mette a disagio. Non sono abituata a essere osservata, non in questo modo almeno. Non ricordo quand'è stata l'ultima volta che qualcuno si è preso cura di me senza volere nulla in cambio. Perché è chiaro, dalla sua postura e dal suo atteggiamento freddo e distaccato, che il soldato non vuole nulla da me.
Osservandolo mi accorgo che non solo gli occhi sono simili a quelli della Everdeen: ha la stessa carnagione olivastra e i folti capelli scuri, anche l'espressione un po' truce gli assomiglia; mi chiedo se sia un suo parente. I lineamenti però sono più marcati, adulti, in netto contrasto con la sua bocca, carnosa e morbida. Continuerei a studiare il suo bel viso se la mia attenzione non fosse catturata da una macchia rossa sulla sua maglia, vicino alla scapola; automaticamente mi porto una mano al volto, dove sulla guancia sento il suo sangue ormai secco.
“Guarda che ti stai dissanguando.” Con la testa accenno la sua spalla sinistra.
“E' solo un taglio.” la sua espressione rimane intensa, perforante. “E poi direi che voi siete messi peggio.” aggiunge fissandomi.
Sto già per mandarlo al diavolo, perché la sua pietà è l'ultima cosa che voglio, ma nei suoi occhi vedo solo rabbia. Rabbia e odio. Occhi come i miei. O almeno, come quelli di un tempo. Perchè so che quegli occhi ormai non mi appartengono più. Cos'è rimasto di me ora? Guardo il mio corpo, nudo e sporco, e non mi riconosco. Questa non sono io. Non posso essere io. Questo corpo scheletrico, queste unghie spezzate, questa testa rasata, cos'è rimasto della vecchia Johanna?
Nulla, solo un involucro vuoto, ridotto in pessime condizioni.
Il ragazzo continua a guardarmi e per la prima volta mi vergogno del mio corpo. Non voglio che mi vedano ridotta così, brutta, deteriorata, debole. Mi stringo le ginocchia al petto cercando di coprire quello che posso con il mio stesso corpo. Un groppo mi si forma in gola e gli occhi iniziano a pungere. Non devo piangere. Io sono Johanna Mason, e io non piango, mai.
“Hawthorne.” La voce giunge da un angolo dell'Overcraft e quando il ragazzo di fronte a me si volta, capisco che dev'essere questo il suo nome. Fa un cenno col capo in segno di assenso prima di girarsi di nuovo verso di me. “Aspettami.” dice, prima di seguire il soldato che lo conduce dietro a una porta.
“Che idiota. Dove vuole che vada?” mormoro al vuoto. Per qualche motivo però, quest'unica parola mi ronza in testa, tenendomi cosciente. L'oscurità, che quando ero nella cella mi sembrava così invitante, una via di fuga per fuggire dalla realtà, ora non mi attrae più, non quanto due occhi grigi. Così ogni volta che il panico torna a galla quell'unica parola mi riaffiora in mente, obbligando me stessa a restare vigile.
Ed è proprio quello che faccio, fino a quando uno strano calore mi piomba sulle spalle.
“Copriti.” Hawthorne si siede nel posto di fianco al mio, mentre si tampona distratto la scapola; evidentemente la sua spalla sanguinante cominciava a turbare i passeggeri.
La coperta che mi ha portato prude e puzza di stantio ma è abbastanza grande per coprirmi tutto il corpo. L'ha capito, quindi. Ha capito quanto mi desse fastidio mostrarmi nuda e vulnerabile davanti a tutti loro.
“Cos'è le donne nude ti imbarazzano?” chiedo, sistemandomela meglio sulle spalle.
“Come scusa?” il ragazzo mi guarda, accigliato.
“Perché sarebbe un vero spreco.” dico, squadrandolo spudoratamente. “Un bel ragazzo come te non dovrebbe di certo farsi di questi problemi. Quando sarò più in forma ti insegno qualche trucchetto, se vuoi.” aggiungo ammiccando. Il tono dovrebbe essere provocante, ma recuperare la vecchia Johanna sembra terribilmente difficile. Comunque le mie parole sembrano fare effetto, perché il ragazzo spalanca gli occhi, scioccato, scostandosi appena da me. “Non credo proprio.” borbotta, assumendo poi l'espressione più dura del suo repertorio.
La sua reazione così spontanea mi provoca un qualcosa che assomiglia a una risata, riscaldandomi il petto. Stuzzicarlo potrebbe diventare il mio nuovo passatempo: abituata agli uomini di Capitol City, subdoli e ambigui, questo ragazzo, così schietto e inflessibile, è come una boccata d'aria fresca.
“Qual'è il tuo nome, Hawthorne?” chiedo, curiosa.
Il ragazzo mi guarda, come se stesse valutando se sia il caso di darmi corda o andarsene. “Tranquillo, non ti salterò addosso. Non ancora, almeno.” dico, sogghignando.
Lui ci pensa un attimo, poi risponde: “Gale. Gale Hawthorne.”
“Johanna.” rispondo automaticamente, mentre il suo nome mi si imprime nella mente. Gale. Tempesta. Gli si addice.
“Lo so.” mormora, spostando lo sguardo su un punto fisso davanti a sé.“Ho visto gli Hunger Games.”
“Oh, la mia fama mi precede, allora.” dico guardando il suo profilo.
“Così come quella di tutti i vincitori.” risponde, girandosi di nuovo verso di me.
“Conosci la Everdeen?” chiedo, anche se vista la somiglianza so già il responso.
A questa domanda i suoi muscoli si contraggono visibilmente e la sua espressione cambia, incupendosi; devo aspettare quasi un minuto per la risposta: “Sì, Katniss è mia cugina.” aggiunge, abbassando lo sguardo. Il suo aspetto potrà anche avvalorare questa teoria, ma il suo tono di voce lo tradisce. C'era troppa passione nel modo in cui ha pronunciato il suo nome.
“Capisco. Quindi fra te e Peeta che legame ci sarebbe? Cugini acquisiti tipo?” chiedo, ironica.
“Nessuno!” sbotta, una rabbia trattenuta a stento. “Non c'è nessuna maledetta parentela.” Respira a fondo, cercando di calmarsi.
“Stiamo ancora parlando di Peeta vero?” chiedo confusa.
Hawthorne mi guarda per un attimo dritto negli occhi e il presentimento di prima si trasforma in un'idea, con contorni definiti. Non è Peeta il problema, ma la Everdeen. Gale è troppo bello per passare inosservato ed evidentemente è troppo legato a lei pur non essendo un suo parente; così quelli di Capitol City sono stati costretti a dargli un ruolo che non intaccasse la finzione degli Innamorati Sventurati. Quindi è lui il suo reale fidanzato? D'altronde non che alla recita ci abbia mai creduto; anche se ammetto che qualche dubbio durante gli ultimi Hunger Games mi sia venuto. Sarà successo anche lui?
Riacquistata la calma, Gale continua a fissare un punto indefinito davanti a sé, e non sembra desideroso di continuare questa discussione. Così mi limito a rimanere rannicchiata accanto a lui, inalando il suo odore e studiando i suoi movimenti fino a quando il suo respiro lento e regolare mi culla in un dolce dormiveglia.

Quando apro gli occhi per la quarta volta sono su una barella e sento il rumore dei motori dell'Overcraft in lontananza. Mi guardo intorno, ma le uniche persone che vedo sono due infermiere che parlano tra loro. Di Hawthorne non c'è nessuna traccia, tranne la lurida coperta che mi ha dato. E il suo profumo che sento ancora addosso. E i suoi occhi grigi impressi nella mia mente. E il suono roco della sua voce. Aspettami. Purtroppo credo di non avere altra scelta.

 

“Ti stavo aspettando.”
Gale sobbalza, sollevando lo sguardo dal foglio che ha in mano mentre attraversa il vialetto. Si guarda intorno finché non intravede la mia figura nell'oscurità, seduta sui gradini del portico.
“Cosa diavolo ci fai, tu, qui?”
“Anch'io sono felice di vederti, Hawthorne.”
Gale studia il mio viso per un attimo, avvicinandosi di qualche passo.
“Sono pulita, tranquillo.” dico, alzando le braccia in segno di resa. “Anche il mio strizzacervelli ha confermato che la disintossicazione ha funzionato. Purtroppo per la pazzia non c'è stato nulla da fare, invece.” aggiungo con un'alzata di spalle.
Hawthorne rimane in silenzio a fissarmi, l'espressione immutata. “Buon per te.” dice infine, salendo i tre gradini del portico e sorpassandomi.
“Non vuoi più sapere cosa ci faccio qui?” chiedo, alzandomi.
Gale si volta nella mia direzione, troppo buio per vedere il suo viso, riesco solo a vedere gli occhi grigi brillare nell'oscurità.
“Non mi interessa. La cosa non mi riguarda.” Abbassa lo sguardo, e con una mano estrae le chiavi dalla tasca dei pantaloni.
“Oh, io credo invece ti riguardi eccome, Hawthorne.” dico, avvicinandomi abbastanza da riuscire a vedere i lineamenti del suo viso. Le occhiaie scure e il viso smagrito, con un leggero accenno di barba, non passano inosservati.
“Scusa tanto Johanna, ma ora non sono proprio in vena per le tue provocazioni.” Hawthorne si gira, dandomi le spalle, e inserisce la chiave nella serratura, deciso a concludere così il discorso.
“Gale...” Appoggio una mano sul suo braccio, stringendolo. Sotto la maglia sento i suoi muscoli irrigidirsi, mentre lentamente volta il viso verso di me. Finalmente i suoi occhi grigi incontrano i miei, e il dolore che ci vedo riflesso dentro per un attimo mi paralizza. Non vi è traccia della rabbia e dell'ardore di un tempo, sembra che di quel fuoco ora siano rimaste solo le ceneri.
Vorrei dirgli che so della bomba. So che forse è stato lui a uccidere la sorella della Everdeen. So che lui pensa sia così. Vorrei anche dirgli che so cosa significhi essere un assassino. So cosa vuol dire avere del sangue innocente sulle mani. Ma so anche quanto sia odioso ricevere pietà per questo.
Così mi limito a stringere di più la presa sul suo braccio, non staccando gli occhi dai suoi.
Gale capisce, e abbassa lo sguardo, la ferita dev'essere ancora troppo fresca per poterla affrontare. Il senso di colpa troppo grande. Hawthorne si libera con uno strattone dalla mia presa e apre la porta, rivolgendomi un'ultima occhiata carica di disprezzo. “Vattene Johanna, qui non c'è niente per te.”
La porta mi viene sbattuta in faccia prima che io possa replicare. Ti sbagli Hawthorne, qui c'è l'unica cosa che conta per me.

Il mattino dopo, quando Gale entra in cucina, per poco non gli viene un infarto.
“Johanna perchè diavolo sei ancora qui? E come hai fatto a entrare in casa mia?” Hawthorne lancia un'occhiata alla porta d'entrata, come a controllare che ci sia ancora.

“È due anni che ti aspetto Hawthorne, non penserai mi arrenda così facilmente vero?”

 

 

--- angolo autrice ---

Questa è una di quelle storie che gira sul computer da un mese tipo, bloccata poi nel finale perchè non sapevo che direzione fargli prendere. Diciamo che alla fine ho optato per una via di mezzo, il mio animo Ganna ha prevalso e non sono proprio riuscita a farla concludere con una porta sbattuta in faccia...Diciamo che l'ultimissima parte può essere vista come un collegamento all'altra mia storia “Non sono come te, non sono...”, in cui Johanna va e viene dalla casa di Gale senza farsi troppi problemi.
Ci tenevo a scrivere il loro primissimo incontro, e dato che anche Gale ha partecipato alla missione di salvataggio a Capitol City, ho pensato avesse senso che si vedessero lì per la prima volta. Mi rendo conto che l'approfondimento di Johanna post-tortura può risultare un po' superficiale, ma non me la sentivo di approfondire troppo quella parte, è un argomento troppo “grosso” per poterlo trattare in una fic come questa.
Bene, credo di aver detto tutto, commenti – recensioni – insulti sono sempre ben accetti! :D

A presto spero

Vero

 

  
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