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Autore: MistakenWind    18/03/2014    1 recensioni
Tutti che parlano di crisi. Crisi spirituale, crisi etica, crisi politica, crisi economica, crisi di identità. C’è chi parla addirittura di apocalisse. C’è chi sogna un attacco terroristico che faccia invadere la popolazione mondiale di zombie, oppure chi spera nel risveglio del grande Führer per sterminare popoli “antipatici”.Come ho già detto, odio i clichè, quindi neanche stavolta ci sarà un’apocalisse zombie o il risveglio di Adolf Hitler con un mitra in mano. Niente arrivo alieno o mostri sotto al letto che divoreranno i bambini. Ma l'apocalisse c'è già e noi la stiamo vivendo... ed io la sto scrivendo.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giorno 1.                              L'inizio








E’ ripresa la corsa. E la corsa adesso si svolge in una prigione. La chiamano scuola. La vera punizione non sono sicuramente le numerose pagine da studiare di libri che pesano più del marmo. Non sono neanche le facce spente e color grigio topo di alcuni professori ormai con i denti gialli per il fumo che si accaniscono e abbaiano contro di me perché guardavo fuori dalla finestra. La vera punizione sono le persone con cui devo condividere quelle poche ore. E io, in quella dannatissima prigione, devo vivere cinque preziosissime ore della mia giornata rinchiusa in una stanza piccola con ventisette fantocci (alcuni non sono proprio fantocci; del resto si deve sempre essere positivi) che appesantiscono solo l’aria con il loro respiro da morti viventi mentre i loro culi flaccidi logorano il legno delle sedie.
Più li guardo e più mi convinco che il loro sguardo perso nel vuoto abbia qualcosa di molto simile a quello di un pesce cieco. Sembrano disorientati, persi, vuoti. Ogni tanto qualcuno lancia una battutina, alcuni fanno fare esercizio ai muscoli delle labbra e iniziano a ridere per svariati minuti fino a che i polmoni non escono dai loro nasi. Altri nemmeno provano a fare questo sforzo e lasciano andare le loro membra sfatte dalla serata alcool della sera prima sui banchi emettendo ogni tanto rantolii, grugniti e balbettii che facciano capire che ancora il loro corpo respira.
Ovviamente non mancano le aspiranti estetiste che ogni tanto cercano il loro riflesso in uno specchio talmente piccolo che neanche un dannatissimo moscerino riuscirebbe a specchiarsi.
Guardarle mi mette allegria. Il modo in cui affannosamente cercano di risistemare quel gruppo di capelli che insistentemente torna a penzolare sulle loro ciglia mi fa sorridere. Ci mettono di tutto sopra. Forcine, mollette, piastra, ferro, lacca a quintali, sputo, acqua, colla, gel. Per non parlare delle tinte.
Fisso compiaciuta quelle ciocche perfette mentre si passano il mascara sulle sopracciglia con la precisione di un chirurgo. I loro volti si allungano nella mia mente. Diventano appuntiti e le loro guance rosee e morbide diventano ruvide e grigie. Sorrido.
Il mio sguardo mette a fuoco meglio. Sono miope, da lontano non ci vedo troppo bene.
Mi concentro meglio sulle due ragazze sedute dalla parte opposta a me e continuo a fissare i loro volti perfetti trasformarsi. I musi si allungano ancora e sulle loro guance ruvide nascono tanti peletti ruvidi e scuri. Continuano a passarsi il mascara mentre fanno vibrare le piccole narici da ratto nell’aria e i denti nella loro bocca diventano sottili e taglienti.
Forse mi scappò una risata, o forse un sussulto dei morti viventi crollati sui banchi le distrasse. Una di loro due si girò dritta verso di me e incatenò il suo sguardo al mio.
Gli occhietti neri saettavano nell’aria fulminandomi mentre il naso si arricciava in alto mostrando i due incisivi enormi.
Un botto. Dritto davanti a me. Salto sulla sedia spaventata e il mio sguardo va a posarsi sulla manona gialla e squamosa della professoressa che aveva fatto tremare il banco. Atterrita osservo la donna davanti a me.
Iniziò a gridarmi contro.
Saliva. Saliva usciva dalle labbra enormi che cercavano di articolare parole il più velocemente possibile. La pelle rugosa sul suo volto sembrava danzare sul suo cranio prendendosi gioco dei suoi lineamenti, mentre gli occhiali traballavano in bilico sulla punta del naso. Le mie orecchie captarono parole sconnesse e delle risatine.
- Wendy, per Dio, quando deciderai di stare attenta durante una mia lezione? Mi hai preso per caso per…
Altre parole confuse. Non ci facevo ormai più caso. La mia attenzione, o meglio, il mio sistema nervoso venne urtato pesantemente dalle risate di un gruppo di creaturine dietro al mio posto. Concentrai la mia attenzione sul faccione della professoressa che sembrava fosse sul punto di esplodere tanto era rosso. E nuovamente, nella mia testa il volto della professoressa prese a mutare. Da giallo ittero, iniziò a mutare. La pelle sembrò diventare più flaccida del normale e sorprendente umidiccia, tanto che la saliva non sembrava uscire più solo dalla sua bocca. Le labbra divennero enorme e la faccia si allargò e divenne verde.
Un bellissimo rospo. Un rospo con una bocca sorprendentemente larga che continuava a gridare parole contro di me, che ormai avevo perso il controllo della mia mente.
Dopo una manciata infinita di minuti vidi il suo faccione allontanarsi dal mio e zompare tra un banco all’altro tornando alla cattedra lasciando uno strato scivoloso di bava e acqua sul pavimento.

Anfetamine? Ganja? Funghi? Salvia?
No. Solo la mia mente che si diverte a giocarmi brutti scherzi. E il mio corpo sembrava consenziente, visto che poco dopo è stato davvero difficile trattenere una risata.
Il mio sguardo si posò di nuovo sui due “ratti” che nel frattempo erano tornati normali. Quella che prima mi aveva guardato si girò nuovamente verso di me. Arricciò le labbra e con eleganza infinita alzò il dito medio e mi mandò a fanculo. Sorrido di nuovo.
Non poteva immaginare quanta soddisfazione quel dito mi avesse dato.
Le risatine però, che prima avevano rischiato di far crollare la mia barriera diversamente invalicabile di autocontrollo ripresero più forte di prima mentre delle palline di carta iniziarono a colpirmi la schiena.
Grazie a non so chi lassù, qualcuno una volta mi disse che “la calma è la virtù dei forti”. O forse era la pazienza?
Bene. Questo motto, aneddoto, perla di saggezza che sia, non fa affatto per me.
Sarò una codarda, una non-forte, una perdente, ma la calma non entra assolutamente a far parte delle mie virtù. Così, quelle risatine andavano ad innescare un processo che avrebbe portato solo ad una inesorabile prepotente esplosione di rabbia.
La mia mente sapeva bene che il segreto per un’ottima convivenza era sopportazione, equilibrio e tranquillità.
Ma il mio segreto per un’ottima convivenza era molto più semplice. Sterminarli.
Altre palline urtarono la mia schiena. Il sangue iniziò a ribollire sempre più caldo sotto la pelle e le mie mani stringevano convulsamente il bordo del banco. Trasformazione quasi completa.
Grazie a Dio però, l’attenzione e il silenzio furono ripristinati dal rospo gigante che si era seduto sulla cattedra e sbatteva il libro sul bordo cercando di parlare. Le risatine e i cervelli fusi dei fantocci dietro di me si placarono e lasciarono riposare la loro materia grigia per riprendere fiato mentre l’anfibio camminava, o meglio, saltellava da una parte e l’altra della stanza spiegando Shakespeare.
La mia calma però è stata profondamente turbata quella mattina e sicuramente non sarebbe bastato un rospo ad impedirmi di concludere l’opera.
Avrei aspettato però. Non era né il momento, né il modo più adatto per agire. Prima devo conoscere meglio il mio bersaglio.
Così tutto riprese come prima, senza troppe interruzioni di vario tipo. La mia mente venne nuovamente attirata al di fuori della finestra mentre osservavo un gruppo di amabili tartarughe giocare su una moto nel giardino di sotto.

La campanella è sicuramente il suono più amato dai nostri timpani. Una melodia soave che si espande dalle nostre orecchie fino al più lontano neurone. Le membra si alzano, si stiracchiano e le palpebre pesanti riprendono a muoversi velocemente. Anche i morti viventi all’ultimo banco sembravano riprendersi dal coma alzando un po’ il collo e allungandolo verso la porta per vedere la professoressa sparire insieme al suo viscido parlare.
Mi girai un po’ dal mio banco per osservare chi stava dietro di me. Un gruppetto simpatico di quattro ragazze. Ah, ironia.
Appena mi girai un po’ i loro sguardi furono tutti su di me. Le loro sopracciglia erano corrucciate e le bocche piegate verso il basso. Ricambiai il loro sguardo ed una di loro sgranò gli occhi interdetta da dietro gli occhiali spessi e rossi mentre l’amica accanto iniziò l’attacco.
- Che hai da guardare?
Alzai le spalle. Continuavano a guardarmi. Giocai di nuovo con la mia mente e subito divennero quattro meravigliose oche bianche con i becchi rossi che si aprivano e si chiudevano per gracchiare parole in continuazione. Tutte e quattro fecero gruppetto contro di me che innocentemente continuavo a guardarle curiosamente.
Poco dopo i miei occhi captarono lievemente un movimento alla mia destra. Una gallina, bassa e magra si unì al gruppo di oche e si mise a battermi il becco contro. Il piccolo animale venne etichettato col nome di Cleo.
Scossi la testa. Era un’amica speciale. Un tempo. Adesso molto passato.
Si era unita al gruppo di fantocci e come ogni gruppo che si rispetti era stata costretta a diventare come loro. Solo che lei era una gallina, e loro oche e purtroppo non sarebbe mai stata all’altezza della loro superbia. Anche se ci stava provando alla grande e faceva tremare la sua piccola laringe cercando di sorpassare il livello del volume delle parole delle oche. 
Il loro tono della voce si faceva decisamente troppo alto. Il professore non arrivava e un gruppetto di altri animali si stava avvicinando ad osservare la scena.
Un’oca si avvicino troppo e iniziò ad aggredirmi beccandomi con forza alle braccia e strappando lembi della camicia. In poco tempo tutte le oche, gallina compresa, mi furono addosso.
Il tempo di reazione fu breve per mia fortuna. Afferrai il collo di un’oca col becco sporco di sangue e lo spezzai con la mano, mentre menavo calci per allontanare le altre. Strappai un’ala alla prima oca che mi capitò tra le mani che andò a rifugiarsi dietro ad un gruppetto di tartarughe nascoste nei loro gusci.
In quel momento sentì un botto e un fracasso di vetri rotti che si sparpagliavano a terra. Mi abbassai in fretta e la finestra accanto a me si ruppe. Un gruppo di umane dopo aver guardato la scena scappò velocemente dalla porta. Le seguii con lo sguardo cercando di fare lo stesso ma un gruppo di ratti mi aveva bloccato il passaggio ringhiando silenziosamente.
Un cavallo nitrì e si avvicinò a noi con fare minaccioso. Il professore era entrato in classe e batteva gli zoccoli a terra con prepotenza sul punto di calciarmi. Osservai per un ultimo minuto l’insieme di penne e sangue sparso a terra e notai che nessuno si era preoccupato delle oche. Tutti gli sguardi si stavano avvicinando a me. Lucertole, volpi, tartarughe, calabroni, ratti, pecore, cani.
Non ci pensai due volte. Mi arrampicai sulla finestra e la scavalcai.

Troppo tardi mi resi conto dei metri che mi separavano dal suolo. Decisamente troppi.
Nella mia mente risuonava incessantemente una frase.
Non sono pazza.
Non sono pazza.
Non sono pazza.

Lo giuro.

  
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