Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Gatto Magro    18/03/2014    1 recensioni
Una felpa nera avrebbe avvertito la morte che in ogni caso lui era disponibile, anche fuori orario.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Come avevo detto che avrei fatto, riecco “We go where we know”.
So che avete gufato.
A.S. Rispetto alla versione che forse già conoscete, è più lunga e modificata in alcune parti.
 
Gatto Magro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ma qui non c’è nessuno.”
 
Entra Prologo senza scarpe, inciampando su due assi di legno posate male.
Si posiziona al centro del palco. Fissa il vuoto negli oblò dei vostri stomaci, vi sorride cortesemente dondolando sui talloni. Una manica della giacca è strappata all’altezza del gomito, ma i bottoni luccicano, ancora bagnati di saliva. Fruga nelle tasche, impensierito. Un avanzo di carta balena fra le sue dita; giallastro, consunto, macchiato di umidità sui bordi irregolari.
Prologo si riavvia alla meglio i capelli, sbircia ancora la platea per controllare se il suo Amore è lì che lo guarda.
Legge.
 
Somewhere è uno dei vostri vicini di posto; a destra o a sinistra, sta a voi decidere quale.
Ottobre ha gli occhi dei primi quattro colori che vi sono venuti in mente.
Anna Crystal-blue è il volto di luna e vi guarda perché è costretta, altrimenti se ne andrebbe ad ammirare un’altra galassia. Una e trina noi la adoriamo, che protegga i vostri lunghi giorni di dolore e i barattoli di lucciole che tenete nascosti sotto il letto.
 
Prologo esce e percorre il corridoio grigio, entrando nel bagno dietro una delle sottili porte di compensato. Tenendo lo sguardo fisso nello specchio, si sgozza con la punta di uno dei gemelli che portava ai polsi, perché il suo Amore tra il pubblico non c’era.
E mentre la musica si alza come una nebbia dal palcoscenico, Amore pesta il mozzicone di una sigaretta e con una boccata di fumo brinda in silenzio all’insegna del teatro.
La pioggia le riempie le scarpe.

To my dead fantasy, beloved memory.
I’ll always love you.
Bye.
 
I pomeriggi tersi andavano a finire, chissà come, in felpe indossate sotto le coperte di notte.
In due sotto il piumone colorato, da bambini, a quadri larghi che sembrava un gioco dell’oca finché non si consumava la lampadina segna-passi.
Avevano smesso di dormire insieme una volta compiuti i sedici anni.
In California non fa caldo come sembra dalle fotografie, saturate di colore e luce trasparente. Lui non smise mai di avere freddo per tutti gli anni che seguirono.
 
Non sapeva bene cosa farsene, dei primi giorni di settembre. Non aveva amici con cui uscire, e i soldi per comprare libri erano terminati da un pezzo, sostituiti da piccoli blocchetti di scontrini che si era deciso a bruciare qualche sera prima, sulla fiamma dell’antizanzare.
Un brutto odore. L’aveva un po’ sballato: le sue narici avevano preso a pizzicare e lui a ridere come un dannato.
Sua madre era rimasta a guardarlo dietro le tende, le labbra strette che spremevano schegge di rossetto porpora e i capelli, sempre più sottili, sparsi sulle guance.
Perché non vai in spiaggia, gli aveva domandato in un filo di voce. Erano le tre e un quarto del mattino. Perché alle quattro scende la morte e si porta via il primo che trova a dormire con un lieve sorriso addormentato sotto le occhiaie, mamma, rispose. Questo lo sapevano tutti.
Ma il mattino successivo il cielo era troppo azzurro, l’aria troppo tiepida e carezzevole per non azzardarsi a sgusciare fuori di casa, ad annusare un po’ di calore e acqua salata. Una felpa nera avrebbe avvertito la morte che in ogni caso lui era disponibile, anche fuori orario.
Il guinzaglio di Empedocle gli segava le dita da quanto lo teneva stretto, però era felice. Già gli scottavano le guance: nel giro di un quarto d’ora poteva sperare di prendere fuoco, lì sul muretto del lungomare.
Empedocle starnutiva forte, fiutando la puzza di pelle carbonizzata che colava dalle sue fantasie.
- Perdonami per i pensieri orribili. – disse il ragazzo con la voce rotta, lo sguardo affranto fisso nel vuoto. – Io ci provo, ad essere normale. Ma se guardo troppo a lungo le onde vedo i mostri marini e i loro singhiozzi ventricolari, che con le pance molli e trasparenti si riversano sulla riva per far seccare qualche litro di male inutile.
Empedocle mosse la coda a destra e a sinistra, posando i suoi grandi occhi scuri sulla schiena curva di Somewhere, dove il vento filava ragnatele con le pieghe del tessuto.
 
Passarono scarpe, stracci, incredibili risate, e passarono mesi, o magari no, però gambe, attacchi di panico, nevrosi nascoste nelle tasche insieme ai pacchetti di sigarette, lettori di musica di merda, e il pubblico di libri meravigliosi: quelli sì, passarono.
Anche una ragazza.
Passò una ragazza, incespicando su un paio di gambe grosse, arcuate, strizzate in dei jeans fuori stagione e fuori moda, fuori da tutto, con le cuciture al rovescio e le tasche strappate lungo i bordi. Aveva i capelli lunghi, forse morbidi e profumati, e un volto orrendo.
Passò questa ragazza dalle scarpe color vomito, ché doveva essersi sentita male pensando alle stelle spente e ai buchi sul proprio viso.
- So perché sei qui. – disse la ragazza, tentando un sorriso che le rovinò le labbra rotte.
Somewhere avrebbe voluto alzare il viso, ma sentiva già la bile bruciare in fondo alla gola. Riusciva soltanto a guardare un ragazzo che si era fermato accanto a loro e strusciava le ginocchia contro il muretto, respirando a pieni polmoni un profumo che esisteva solo nel suo mondo. Un gatto gonfio di invidia si acquattò sulle spalle di Somewhere; per lui, il mare, la sabbia, il sesso, erano sostanze rattrappite che galleggiavano in liquidi impuri, esalando una tossina inebriante che lo faceva scoppiare in lacrime.
- Vai via, non riesco a guardarti.
La ragazza tossì un poco, ridacchiando. Lo schiocco delle sue costole si sperse nelle onde, raccolto dalle lingue delle conchiglie.
- Sentilo, Ottobre. Non riesce a guardarmi. – esclamò, rivolta al ragazzo che annusava mondi a due passi da loro. – Eppure mi sogna tutte le notti.
Ottobre aveva i capelli verde acido e un sorriso difficile da dimenticare. Un principe dal naso all’insù e i lineamenti aggraziati, quasi femminei, dalle dita lunghe, gli occhi spiritati e tutti i colori invertiti, come il negativo di una fotografia. Ottobre era troppo bello per esistere davvero, eppure era proprio lì, a sporcarsi di un’esistenza cretina e dolorosa come un ago che incide sulle ossa battute senza senso e canzoni scritte dai morti. Fra i suoi capelli si seccavano le foglie e si gonfiavano idee nella buccia violastra di frutti invernali.
Non si fermò ad aspettare che lei finisse la frase, corse via trascinato da una risata meravigliosa.
Somewhere balzò in piedi e lo seguì, senza fiato, mentre Scarpe di Vomito si ficcava le dita nei buchi del viso e mimava un’espressione felice.
 
“Dance me through the panic ‘til I’m gathered safely in.”
Leonard Cohen e la nebbia.
 
Quindici lettere orbitavano in moti disastrosi davanti ai suoi occhi, scontrandosi in scintille a forma di case indicibili e spruzzi di sangue e prati ben curati e abbracci casuali, capelli scuri e smorfie al cioccolato fondente, lapidi di bronzo e iscrizioni in parole di ortiche e respiri velenosi dentro baveri di giacche eleganti e sdrucite, cappelli a cilindro e strade buie lastricate di intenzioni davvero pessime, costeggiate da siepi intuitive color cobalto e acquari intessuti di crepe.
Echeggiava distante la risata infantile di Ottobre, mentre, a mezza via fra il suo cuore e il suo cervello, scoppiava una guerra nucleare.
L’aveva inseguito per i viali di palme e i corridoi strutturali che gli spezzavano le sinapsi, scansando biciclette, bambini, auto decappottabili e insufficienze cardiache fino ad un cancello di ferro liscio, e poi dentro, affondando nei sassi, su per i gradini di marmo finto che si infilavano sotto una porta di vetro.
C’era un pezzo di carta, appiccicato con lo scotch che portava i segni dei denti che l’avevano strappato; una colonna di nomi californiani e soleggiati, tranciata da quindici lettere che gli fecero morire davanti agli occhi un paio di universi.
A.N.N.A.C.R.Y.S.T.A.L.B.L.U.E.
 
“Ho il male di vivere, ma mamma ha detto che passa,
quindi è okay, no?”

 
- Tesoro?
Tesoro, vai a scuola.
Siediti sulle schegge di legno in questo acquario disabitato, appendi alla fila dei giubbotti e scarpe da ginnastica la lista degli amori che non ti ricordano più, accartoccia le fantasie sulla luna di cotone e le rotaie dei pianeti e lanciale contro il cestino: se entrano, ti sale la febbre e puoi restare a casa con me, altrimenti resti rinchiuso qui per tutta la vita, tesoro, lo sai che lo facciamo per te.
Qui sei al sicuro, bambino mio.
Ho pregato gli dei stagionali, affinché ti stessero accanto quando il pulviscolo diventava troppo spesso da respirare e incarnava parole morbose. Primavera si è tirata indietro, nei boccioli delle rose, Estate stava rincorrendo nastri colorati e profumi caldi, Inverno è scoppiato a ridere, inondandoci di aghi di gelo. Autunno ha piegato la testa di lato – i tralicci sfiorarono le spalle nude, lasciando segni color del vino su quella pelle caramellata - e, dopo aver frugato tra le foglie sparse attorno ai suoi fianchi, ha tirato fuori Ottobre.
Tesoro, non pensarci troppo, al cadavere che ti porti dietro tutti i giorni. Ascolta Ottobre ridere e chiedere al professore di filosofia in quante parti si può dividere un incubo allucinogeno, se rispetta l’unità di spazio, luogo e tempo, e se c’è qualcuno con cui lamentarsi, quando non fa troppa paura.
Vai a scuola, tesoro, ché la vita è difficile e io voglio che tu ti rassegni presto.
 
Per sempre tua,
Madonna Pioggia Acida
 
- Guarda che cosa mi ha dato tua madre, è una lettera. Carina, vero? Ha paura che io possa spaventarti. Sono il cadavere che ti porti dietro… - la voce si frantumò sui suoi denti opachi, mentre scorreva velocemente la lettera, sbirciando da sopra la sua spalla. – Ma io ti voglio bene, Somewhere. Ti voglio così bene che ho preso il tuo nome e l’ho ingoiato insieme a cinquantasette pillole di RunRun.
Anna Crystal-blue era stata un sacco di prime volte, per lui.
La sua prima litigata per il giocattolo più bello dell’asilo, per il quale si scatenavano pianti da diluvio universale.
La prima manata di fango sulla faccia, fango e qualcos’altro, perché in seguito si presero entrambi una strana infezione che li cosparse di macchiette verdi e prurito a non finire.
Il primo pupazzo di neve, quando i genitori di Anna se li erano portati dietro a Vancouver per un Natale lontano, fatto di casette sommerse dal bianco fino ai balconi.
La prima festa di compleanno con gli amici, quando non venne nessuno tranne lei e Somewhere comprese, in un lampo di intuizione straziante, che in questa vita siamo tutti soli, soli da fare schifo.
Il primo periodo nero, con lei che lo trascinava sulla scogliera a sentire il vento pungente e a lasciarsi riempire di vita salmastra. Sporgersi sul vuoto cercandosi con le mani era il loro modo di smaltire la depressione adolescenziale.
La prima sigaretta, una Marlboro rossa fottuta a Jackie, un’amica scema di Anna che dalla prima media si chiudeva nei cubicoli dei bagni a fumare, con la gonna a quadri sollevata e due dita che accarezzavano il bordo delle mutandine.
Il primo concerto, quando la portò a Long Beach per farle una sorpresa, e lei non fece altro che sorridere e saltare per tutta la sera, come se stesse sfiorando le stelle.
La prima volta che si trovò a pensare merda, questa ragazza ha gli occhi più grandi che io abbia mai visto.
La sua prima sega, nell’auto di zia Melly. E soltanto quella, perché poi, a sedici anni, Anna Crystal-blue si ammalò di cancro e stava così male che ingerì cinquantasette pillole di analgesico.
Per sbaglio, scrisse con le dita sul vapore dello specchio in camera sua, dove la trovarono riversa sul pavimento.
Per sbaglio, aveva borbottato lui riallacciandosi i pantaloni, dopo esserle venuto sulla camicetta rossa. Anna Crystal-blue aveva sorriso per poi avvicinarsi piano e lasciargli un bacio all’angolo delle labbra.
 
“All beauty must die.”
 
Anna Crystal-blue non era un fantasma, e Somewhere non era pazzo.
Solo che a  scuola tutti facevano finta che lei fosse carina, che i suoi occhi grigi fossero ancora belli, al loro posto dietro le palpebre bianche, e che non si vedessero i gonfiori sotto i vestiti leggeri.
Solo lui vedeva.
Le si scioglieva la faccia in bile nera, sopra i quaderni di Somewhere.
La sua risata gli incatenava le viscere in torsioni dolorose, e non riusciva più a mangiare.
Di notte lasciava che i vestiti cadessero sul pavimento, pesanti dei liquidi che il suo corpo marcescente stillava, e si stendeva sopra il suo stomaco a raccontargli dei tunnel che non finivano mai, perché l’impianto elettrico era andato a farsi fottere e figurati se Dio in persona scendeva a tirarti fuori da lì. Anna Crystal-blue diceva che quello che non faceva Dio, facevano i topi.
Recitava i pensieri che riusciva a rubargli attraverso le pareti del cranio. A proposito di fottere, miagolava, ti ricordi quando sognavi di scoparmi proprio qui, nel tuo letto? Perché non provi, tesoro, perché non provi adesso?
Ma la cosa che la divertiva di più era infilare le dita nei buchi del suo viso, e giocare con i muscoli slegati che lo tenevano insieme a malapena.
 
Eppure aveva notato una cosa strana.
Quando si trovavano vicini ad Ottobre, il corpo di Anna Crystal-blue pareva rianimarsi e vibrare debolmente, ritrovando la propria forma in piccoli dettagli. Il naso penzolante si riallacciava alle guance, le tumefazioni del ventre si ammorbidivano. I capelli restavano bellissimi; Somewhere non aveva permesso a nessuno di toccare quel ricordo.
Una mattina, a lezione di biologia, Ottobre urtò accidentalmente il gomito di Anna Crystal-blue e lei tornò bellissima, viva, viva e bellissima, con le lentiggini al proprio posto sulla pelle tesa e perfetta, le mani sottili, il volto corrucciato.
Era durato un secondo, perché Ottobre era sbadato e si era allontanato subito, ma Somewhere l’aveva vista, e si era sentito galleggiare dalla gioia.
Cercò di diventare amico di Ottobre, perché doveva tenerlo vicino.
Si mise vestiti puliti, si pettinò i capelli sconvolti, passò ore davanti allo specchio per imparare a sorridere di nuovo.
Ottobre era un’essenza pigra e distratta, e sembrava vagamente contento di quelle nuove attenzioni. Parlava molto, con quella sua voce roca dalla cadenza strana, da giorni piovosi, ma Somewhere non si curava di niente oltre al suono e all’effetto che produceva su Anna Crystal-blue. Anche perché erano davvero discorsi assurdi, i suoi, che arrangiava fra i fischi che gli scappavano dagli incisivi, i libri dalle copertine blu che comprava in città distanti e il suo modo liquido di gesticolare. Argomenti lasciati ad asciugare al vento, appesi con le mollette di legno ai fili pallidi diramati dalle sue ciglia: racconti di sangue e di alberi, cosmogonie al rovescio, storielle sconce che rubacchiava in giro.
Una volta, in classe, Somewhere gli aveva chiesto sottovoce che cosa fosse davvero, lui.
- Dove? – aveva bisbigliato l’altro, la guancia sul libro di storia.
- Dentro. – Somewhere, impaziente.
- Se guardi dentro la mia gola, vedi un universo.
- Oh. Se guardi nella mia, vedi qualche organo gonfio.
- È poca cosa. – Ottobre l’aveva guardato con sufficienza, attraverso i capelli che gli cadevano sulla fronte, ma Somewhere non vi aveva dato peso.
Quando Ottobre rideva, Anna Crystal-blue riprendeva perfino a respirare.
 
C’era la sponda di un fiume, coperta d’erba e segnata di malavoglia da una striscia di sassolini bastardi che bucavano le ruote delle biciclette, che diradava verso nord inoltrandosi in un boschetto di alberi bianchi. Nel centro esatto stava una casetta di legno messa insieme da chissà quale anima innamorata dell’odore delle foglie, dove Anna Crystal-blue e Somewhere si erano spesso infilati per giocare.
Erano ancora lì, ma come bambini morti e risorti esistenze nervose, che si mangiavano le unghie fino alla carne e pregavano i cantanti persi nelle droghe prima delle interrogazioni. Somewhere in punta di piedi, aggrappato al balcone, che spiava all’interno i corpi luminosi di due ragazzi che facevano l’amore sul pavimento. I capelli verdi di Ottobre viravano ormai al colore delle siepi; Anna Crystal-blue era bellissima. Bellissima da piangere, da urlare bestemmie ai temporali e sperare di imprigionare i fulmini in gabbie d’oro, da inventare uno strumento musicale che avesse la forma della sua bocca, da scriverle poesie lungo le braccia e ad ogni parola un bacio, ogni bacio una nuova parola liquida da tracciare in punta di penna sulla sua pelle di neve, bellissima da togliere il fiato per ritrovarsi a respirare sabbia o tossine o plastica o nuvole, da inginocchiarsi con gli occhi pieni di meraviglia e da ridere con le guance bagnate di sale.
Anna Crystal-blue sospirava, intrecciando le dita ai capelli di porpora di Ottobre.
A Somewhere faceva male la gola deglutire e vedere il viola impregnarsi di un nero denso come petrolio, e lasciare poi spazio ad un color di cenere che scivolò su tutto il viso di Ottobre, e sulla fronte sulle palpebre sulla curva delle labbra, lungo i nervi del collo fino alle pozze fra le clavicole, e giù, giù, sfioriva Ottobre fra le braccia di Anna Crystal-blue.
Rimorirono entrambi su quel pavimento.
 
 
 
 
Non è vero che era destino, amore. Lo ripeterò alla tua tomba fin quando la lingua sarà fra gli esseri umani, prima che la rubino i serpenti. Adagerò queste parole insieme ai fiori nel luogo in cui riposi, e pioverà in maniera così bella che dalle rose nasceranno farfalle dagli occhi di cerbiatto.
Io.
Tu.
Appoggerò la fronte sull’erba zuppa, e i miei capelli saranno radici.
Io mi sono innamorato del tuo ombelico.
Avevamo tredici anni e io ti spiavo dai buchi della serratura – tutti quelli che riuscivo a raggiungere, inventandomi alla meglio un nuovo equilibrio per cuore e polmoni, che si davano al fracasso delle mie costole.
Il tuo ombelico, le pieghe. La maglietta nera.
Le ombre di velluto sulla tua pancia e la voglia che mi aveva preso d’un tratto di impazzire e fotografare e dipingere e raccontare a tutti del tuo ombelico, e allo stesso tempo di tenerlo segreto, il mio mistero metafisico, il mio miracolo in un campo di sterpaglie.
E ti ho fatta rivivere, in quello strano Ottobre dei miei diciassette anni, perché un autunno così bello potessi vederlo anche tu. E perché ancora non ce la facevo a consegnare i miei ricordi al tempo che ti ha portata via.
Ho salutato i vostri corpi in partenza con il fiato che appannava il vetro della finestra e che pulivo con le mani, raccogliendo i respiri d’addio come nuove impronte digitali.
Ora paghiamo l’onorario di questa simbiosi dell’anima, con le monete ossidate che abbiamo rubato dalle bocche dei morti.
Siediti sulla sponda di fuoco, amore.
Io sto arrivando.
 
 
 
 
I rumori roventi di un’orchestra inondavano il corridoio, infiltrandosi nel bagno attraverso le pareti fatiscenti.
La fronte appoggiata al lavandino sbeccato, Prologo respirava piano, sempre più piano.
Sulle mattonelle, lisce come una tavoletta di cioccolato, un suono diverso, umido, ticchettante.
Le ultime tre gocce di sangue caddero dal collo di Prologo in un salto di piume.
Portate da loro, finirono sulle mattonelle la sua vita e una parola.
 
 
Epì
lo
go.
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Gatto Magro