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Autore: Kim NaNa    19/03/2014    5 recensioni
Poi, una volta la guardai addormentarsi sul sedile dell’autobus, ammirai i suoi occhi cerulei chiudersi dolcemente, come un sipario che cala in silenzio, sotto la frangia bionda, e desiderai essere sempre al fianco di lei, come a proteggerla, difenderla, preservarla.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Naru/Nina, Usagi/Bunny
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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NdA: questa shot è una piccola "What if" che si inserisce nel contesto iniziale della seconda serie dell'anime italiano, quando a Sailor Moon e le altre sono stati "offuscati" i ricordi da guerriere Sailor e tutto quello vissuto insieme. Nasce dal mio aver pensato che le emozioni e i sentimenti veri e forti non si dimenticano mai, anche se la mente vorrebbe rimuoverli, il cuore sarebbe sempre pronto a lottare per riprendersi quel pezzo di anima, quelle fette di vita che ci hanno reso felice...
Buona lettura,

Kim Nanà

 
Questa one shot l'ho scritta pensando a te, che sei la mia migliore amica: la mia Luna.
 


Anche la Luna torna a splendere
 
 
La prima volta che la vidi, era entusiasta e sorridente, con le guance rosse e un’espressione serena in volto: mi sembrò una dea bambina che osservava gli altri passeggeri sull’autobus con un’aria di placida compiacenza, curiosa appena.
La osservai ridere con le amiche, soffermandomi sulle sue labbra rosse che si alzavano timidamente quando una persona anziana entrava nell’autobus, e lei le lasciava il posto; imparai a conoscere la sequenza infinita delle sue mollette rosse e turchesi tra i perfetti odango, e il ciondolo a forma di mezza luna che spiccava sul collo pallido, descrivendone la dolcezza.
Poi, una volta la guardai addormentarsi sul sedile dell’autobus, ammirai i suoi occhi cerulei chiudersi dolcemente, come un sipario che cala in silenzio, sotto la frangia bionda, e desiderai essere sempre al fianco di lei, come a proteggerla, difenderla, preservarla.
Era ancora settembre e lei era ancora felice, gioiosa come la bella stagione: i suoi sentimenti erano coraggiosi e limpidi, e mi contagiarono nel profondo. La conobbi tra i banchi di scuola e fu lei a divenatare mia amica perché i mortali non possono raggiungere gli dei.
 
Ma il bel tempo non durò a lungo.
Passando nei viali alberati, dalle finestre dell’autobus ci aggredì la melodia delle foglie cadute che frusciavano a terra, e le nuvole in cielo si incupirono come i suoi occhi, impedendo al sole di accarezzarci ancora.
Aveva preso l’abitudine di avvolgersi una sciarpa scura intorno a collo, coprendo il mento morbido e le sue labbra sorridenti: il ciondolo era scomparso al di là di quel nascondiglio, insieme al suo sorriso solare.
Sembrava stesse scomparendo, e le sue mani erano diventate febbrili, mentre accarezzava la sua micia nera o stringeva un libro di scuola e guardava fuori dal finestrino; ciononostante era ancora bellissima, lontana anni luce dalla tristezza dei mortali, racchiusa in un mondo suo che profumava di fiori freschi e Luna.
Quando arrivò l’inverno, e scesero le prime nevi, vidi gli occhi cerulei vestirsi di una luce oscura, malinconica e nefasta. Non capivo cosa le stesse accadendo, sembrava divenuta una persina nuova, infelice, come se le fosse stato strappato qualcosa di importante e la sua mente si sforzasse ogni giorno di scavare nei ricordi. Non vidi più le quattro ragazze che l’aspettavano sempre fuori dalla scuola e non la vidi mai entrare in quella sala giochi, da lei adorata, per incontrare quel ragazzo antipatico che cominciava a piacerle: avrei voluto parlarle, farle coraggio, ma ogni volta la osservavo salire e scendere in silenzio, senza avere il coraggio di provare a salvarla dall’abisso che pareva la stesse inghiottendo.
Una volta entrò nell’autobus completamente fradicia, per colpa di un improvviso acquazzone.
La pioggia, sul suo viso, adesso era un pianto solenne.
Mi passò vicino per timbrare il biglietto e ci scontrammo; mi guardò con fare triste, mi salutò con quel suo dolce “Naruchan” che mi sciolse il cuore e la invitai a sedersi al mio fianco.
«Usachan, non hai dormito questa notte? Sembri così stanca!» Mentii.
La invitai ad appoggiarsi a me e mi guardò con dolcezza. Nei suoi occhi rividi per un istante il pallido chiarore della luna argentea e in quel frangente seppi che ce l’avrebbe fatta: qualunque cosa avesse perduto, Usagi Tsukino l’avrebbe ritrovata.
Trascorsero le vacanze di Natale, e trascorse il freddo, gelandomi nell’angoscia della sua battaglia, che avveniva a chissà quale distanza da me, in mezzo al pallore della neve. Le ero così vicina, eppure in cuor mio sapevo che quella ragazza dai lunghi capelli biondi avesse più di un segreto da custodire. Un pomeriggio in cui avrei dovuto preoccuparmi di finire i compiti per le vacanze, mi persi a creare fiori di carta gialla. Fiori perché sono il letto degli dei, gialli perché mi ricordavano i suoi capelli, di carta perché non volevo che nulla le morisse tra le mani. Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai all’ingresso di casa Tsukino.
Suonai il campanello, e mi accolse, con un caldo sorriso, la signora Ikuko che mi invitò a salire nella stanza della figlia.
Bussai, ma non ebbi risposta. Allora aprii la porta piano e mossi qualche passo: tutto sembrò rallentare infinitamente, come se l’inverno fosse finalmente riuscito a fermare il ciclo della vita, lasciandoci per sempre prigionieri del suo gelo.
I suoi occhi si aprirono sul mio volto smarrito, dandomi il privilegio di spalancarsi per qualche istante prima di tornare a socchiudersi stancamente.
Avrei voluto toccarla, perchè mi sembrava perduta in un altro mondo, un mondo nel quale la sua amica Naru non era ammessa. Usagi aveva perduto i ricordi e il suo cuore la implorava di ritrovarli: l’inverno la ghermiva nei suoi artigli affilati, e sapevo che se in quel momento avessimo pianto, le nostre lacrime avrebbero raggiunto il suolo in forma di ghiaccio, spezzandosi come il mio cuore.
Per un lungo attimo ricambiò il mio sguardo, e alla fine le lacrime scesero a celarle gli occhi, lasciandomi sola.
«Sto bene, Naruchan… Non so nemmeno io cosa mi stia accadendo…» parlò piano, lei che aveva la dinamicità di un uragano.
Posai i fiore di carta sul suo petto, e me ne andai con un nuovo fardello sulla schiena: poiché il suo nome, per me, era sempre stato Luna, e lei la stava abbandonando insieme alla sua essenza luminosa, affidandola a me come una confessione intima e segreta.
Chiudendo gli occhi, mi aveva sussurrato di voler lottare in solitudine, perché sentiva di dover essere meno fragile e più coraggiosa.
Ogni mattina vedevo arrivare a scuola molto prima del suono della campanella, lei che aveva abituato tutti con i suoi continui ritardi.
In quei giorni pallidi, detestai le nuvole plumbee che mi sovrastavano; la sera nessun raggio di Luna avrebbe illuminato quella dea silenziosa muta che lottava con i ricordi perduti.
 
Poi, impercettibilmente, la neve iniziò a sciogliersi.
Dai rami secchi degli alberi caddero le gocce di un ghiaccio appena sciolto, e a terra il fango sembrò voler inghiottire il cemento, restituendo alla strada un disordine antico.
L’inverno si era stancato di noi, e ci avrebbe risparmiato soltanto per noia.
La Luna era tornata sopra il mondo, pregna di un nitore livido che ancora non riusciva a vincere sul freddo: e ancora una volta fu merito della terra sotto ai nostri piedi se i primi germogli iniziarono a spuntare, saccheggiando il fango quasi fosse stato un dono di vitale importanza.
E finalmente un giorno le rondini volarono sui tetti, tornando dal loro lungo viaggio.
Le loro code scure sibilarono nell’aria insieme al richiamo festoso del vento tra i capelli: e la luna tornò, questa volta più luminosa che mai, asciugando il pianto della terra e del cielo come una madre premurosa, ridando vita agli uomini come alle chiome degli alberi, finalmente in fiore.
Attesi il ritorno della dea della luna e una notte pregai il cielo di restituirmi quella divinità che chiamavo amica.
Una sera, attraversavo un viale di ciliegi opulenti, guardandomi intorno: durante la mattina aveva piovuto, ma quelle gocce erano calde e sarebbero servite a dare vita all’erba che ancora si attardava a nascere, spaccando il cemento con i suoi sorrisi teneri e sottili.
Poi la vidi: stava camminando insieme alla sua gatta, e brillava: di pioggia, di luna, di lei.
Ignorava i richiami allegri delle quattro ragazze che passeggiavano dietro di lei, e continuava a correre, volteggiando nel rosa pallido dei fiori di ciliegio.
Mi fermai a guardarla, ipnotizzata: poiché per me la vera Luna, ormai, era soltanto lei, e la primavera non sarebbe mai più giunta se non avessi visto nuovamente il suo sorriso, e i suoi occhi ridenti.
Mi vide immobile in mezzo al viale, e rallentò con un pallido rossore sulle guance, finalmente calde di vita, ma ancora un po’ smunte.
Aveva una piccola borsa a tracolla, e con le mani, senza smettere di guardarmi, da essa estrasse qualcosa di giallo e sgualcito: il fiore di carta.
Ormai era di fronte a me, e mi guardava ancora sorridendo, con gli occhi luccicanti, colmi di una limpida speranza che era tornata ad abitare il suolo come l’erba, come l’abbraccio placido di una notte primaverile.
Poi premette il fiore di carta sul mio petto finché non la fermai con una mano: e con l’altra io le strinsi una mano, iniziando a sorridere a mia volta.
«Sei tornata?» le chiesi, in un sussurro.
Lei mi ammirò trasognata, guardandomi brillare a mia volta grazie al riflesso della sua luce.
Poi guardò in alto, nel cielo limpido, e rispose:
«La Luna è tornata a splendere.»

 
FINE
   
 
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