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Autore: Raven85    20/03/2014    2 recensioni
Io ero Eva Kant. E lo sarei stata sempre.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Io ero Eva Kant. E lo sarei stata sempre.
Questo pensavo mentre guidavo allontanandomi dalla villa di Anthony Kant, mio marito. Verso la mia nuova vita.
Non è facile spiegare tutti i percorsi che mi portarono fin lì. Ma in fin dei conti, io non avevo agito come ho agito per semplice avidità. Non mi importava niente dei soldi o della fama. Io rivolevo solo il nome che mi spettava di diritto.
Quello di mio padre.
Nacqui illegittima, figlia di un nobile e di una donna di modeste origini. Mia madre, Caterina, era perdutamente innamorata di mio padre, Rodolfo Kant, membro di una delle famiglie all’epoca più potenti. E penso che anche lui a suo modo l’amasse - ci amasse - ma fosse semplicemente troppo debole per poter andare contro la sua stessa famiglia, scegliendo di sposare mia madre.
Forse anche lei, accecata dal troppo amore, fu debole. Ma io non sospettavo nulla di tutto questo in quelli che si rivelarono essere gli ultimi giorni della mia adolescenza.
Io e mia madre vivevamo insieme in un casino di caccia appartenente alla famiglia Kant, messo a disposizione da mio padre. Per me lui era lo zio Rodolfo, e ogni tanto veniva a trovarci, ma finivano sempre col litigare. L’ultima volta prima di quel giorno era andata proprio così.
Quel pomeriggio stavo divertendomi a una delle mie lezioni di equitazione, seguita dal mio maestro. Tornando a casa vidi la macchina dello “zio”, e senza farmi vedere entrai in casa e mi nascosi dietro la porta del salotto, dove lui e mia madre stavano parlando.
Quella fu la prima volta che vidi il leggendario Diamante Rosa, quello che poi mi fece incontrare il mio compagno, il mio vero amore. Lo vidi montato su un anello di fidanzamento, col quale mio padre, Rodolfo Kant, chiedeva la mano di mia madre.
Fu sentendoli parlare quella sera che seppi che lui era mio padre, ma per me non fu realmente una sorpresa. Avevo colto molte sfumature in lui, molti comportamenti nei miei confronti che stonavano decisamente coi suoi panni da “zio”. Avevo sempre avuto quell’intuito.
Quando se ne fu andato parlai con mia madre, e infine lei mi raccontò ogni cosa sul loro amore e sulla mia nascita. Era felice, perché lui le aveva promesso che le cose sarebbero cambiate, che avrebbe avuto il coraggio di amarla. Di amarci.
Non sapeva quanto si stava sbagliando.
Quella notte fui svegliata da rumori e dalle grida di mia madre. Mi precipitai nella sua stanza, e vidi quattro uomini.
Uno di loro era Anthony Kant.
Aveva strappato il Diamante Rosa dal dito di mia madre, e lei era sul letto, inerme e spaventata. Si rendeva conto della trappola che le era stata tesa, e della facilità con cui lei ci era caduta.
Appena mi vide mi disse di fuggire, ma io non ci riuscii. Venni afferrata e trascinata a forza dentro un’auto, chiamando a gran voce mia madre, mentre in lontananza la sua voce urlava il mio nome.
Per quella notte venni sistemata in un istituto, ma fuggii dopo poco più di un’ora. Dovevo tornare da mia madre e sapere se stava bene.
Adesso mi rendo conto quanto fosse ingenuo il mio comportamento, ma non lo rimpiansi mai e non lo rimpiango nemmeno oggi. Perché, nonostante quello per me si rivelò essere solo l’inizio, sono certa che non mi sarei mai perdonata se non avessi visto almeno una volta mia madre prima che morisse.
Tornare a casa non fu difficile, e in silenzio mi introdussi su per le scale, fino alla sua stanza. Quando la vidi esanime sul letto temetti fosse morta, invece respirava ancora, ma mi disse di aver ingoiato un flacone di sonniferi. Era stato un puro caso che fosse ancora viva.
Quell’ultima conversazione con lei la ricordo perfettamente, come se fosse avvenuta ieri. Non mi parlò come una madre che faccia raccomandazioni a una figlia, ma come una donna che mette in guardia un’altra donna. E mi pregò di non fidarmi mai degli uomini. Dicono di amarti, ti conquistano il cuore, mi disse, poi quando non gli servi più ti buttano via, ti lasciano morire. Non lasciarti ingannare da chi dice di amarti. Sappi che non è la verità.
Purtroppo ebbi modo di sperimentare molto presto quanta verità ci fosse in quelle parole, ma adesso so anche che non tutti gli uomini sono uguali. O forse lei ebbe la sfortuna di incontrare solo uomini sbagliati.
Era appena morta quando lord Anthony Kant entrò nella stanza. Ero stata decisamente prevedibile a tornare a casa.
Questa volta venni portata a Morben, un collegio con un regime durissimo dove imperava la signorina Luber, la direttrice. Era composto da due ali che separavano i ragazzi dalle ragazze, il rigore era impartito con severità e spesso anche con la violenza. Le regole erano ferree e infinite, come la proibizione di aiutare una compagna nell’ora di ginnastica. Ogni mancanza, anche lieve, era punita con percosse o nei casi più gravi si poteva venire rinchiuse nella “fossa”, una stanza simile a una cantina priva di ogni cosa, perfino di un letto. Il cibo lì veniva portato solo una volta ogni due giorni, ma data la scarsa qualità del vitto, non era poi un gran male.
Quel luogo infernale mi insegnò le principali regole di sopravvivenza, e sono certa che fece di me quello che sono oggi, in larga parte. Anche fra ragazze spesso c’erano odi e gelosie, il che poteva portare le più furbe a fare da spia alla direttrice in cambio di un trattamento più umano.
Ma a Morben incontrai anche quella che a oggi non esito a definire la mia unica vera amica. Si chiamava Dolores, e facemmo conoscenza una notte in cui io la seguii mentre lei andava in cucina a rubare dei biscotti. L’aiutai a non farsi scoprire da Vasco, il tuttofare, e da allora fummo inseparabili.
Fu lei a insegnarmi ad aprire le serrature. Ci spalleggiavamo sempre, in attesa del giorno in cui saremmo uscite da quel posto.
Un giorno, durante la lezione di ginnastica Dolores fu costretta a fermarsi nel mezzo della corsa. L’insegnante non ci stava guardando e io ne approfittai per aiutarla, ma non avevo visto la signorina Luber, che invece aveva notato tutto. Per questo venni punita e costretta alla lavanderia, ma non era poi così male. Si evitava il controllo continuo da parte dei docenti.
Proprio mentre ero lì sentii qualcuno bussare al muro, dalla parte che ospitava il collegio dei ragazzi. Tolsi un mattone, e incontrai due occhi.
Quelli di Manuel.
Iniziò tutto gradualmente. Dalla seconda volta feci in modo di essere assegnata più spesso che potevo alla lavanderia, e lui c’era sempre, puntualissimo. Parlavamo e parlavamo. Gli raccontai di mia madre, di me, del nome che volevo ad ogni costo. E insieme architettammo un piano per fuggire.
Ero così ingenua. Mi ero innamorata presto di Manuel, nonostante gli occhi e le mani fossero il nostro unico contatto. In lui avevo sentito uno spirito affine, forse quel qualcuno che tutti cerchiamo. Mi ascoltava senza giudicarmi, di qualunque cosa volessi parlargli. Ovvio quindi che fossi convinta che non avrei mai potuto essere felice senza di lui.
L’idea mi venne dall’eclissi di luna che si sarebbe svolta in quei giorni. Ero arrivata a capire che le due ali del collegio erano speculari, c’era quindi il recinto dei cani, e lo spazio che separava l’edificio dalla recinzione era identico. Avevo sentito a scuola che durante l’eclissi anche gli animali sarebbero stati come in letargo: così ero certa che i cani non avrebbero abbaiato. E mentre tutti i nostri compagni sarebbero stati occupati a vedere l’eclissi, coi nostri insegnanti, noi saremmo fuggiti.
La sera prima era tutto deciso, e lui mi chiese una promessa: nessuno dei due sarebbe fuggito senza l’altro.
Non aveva la minima intenzione di mantenerla.
Non avevo detto niente a Dolores dei miei programmi, e mi spezzava il cuore l’idea di fuggire e lasciarla sola in quel posto. Ma lei comprese, e decise che mi avrebbe aiutato.
Mentre l’ombra della Terra oscurava la luna, Dolores finse di aver rotto per sbadataggine un vaso, dando così modo a me di allontanarmi indisturbata. Io scesi nel cortile, passai davanti ai cani che non mi degnarono di uno sguardo, e raggiunsi la recinzione esterna. Mentre mi arrampicavo sentii una voce che gridava che una delle ragazze stava scappando… solo dopo realizzai che era la voce di Manuel.
Non vedendolo non osai fuggire da sola senza aspettarlo, e quell’esitazione mi fu fatale, dando tempo agli insegnanti di raggiungermi. Mentre scendevo di mia spontanea volontà - certa che il tentativo di fuga mi sarebbe costato caro - venni afferrata per una gamba e sbattuta a terra, poi bloccata e condotta via, destinata alla fossa.
Non so cosa mi spinse a girarmi mentre venivo trascinata verso l’istituto, ma lo feci, e lo vidi.
Manuel stava scavalcando la recinzione, approfittando del momento in cui erano tutti occupati con me. Mi guardò: i suoi occhi erano gelidi, e fu allora che compresi quanto mia madre avesse avuto ragione.
Naturalmente la fuga fallita non mi aveva fatto desistere dal mio proposito. Non avevo certo intenzione di restare in collegio in eterno, ma l’occasione mi si presentò quasi da sola.
Come ho detto c’erano alcune fra le ragazze che riuscivano a guadagnarsi un trattamento migliore dal corpo insegnante facendo la spia su eventuali regole trasgredite dalle altre. Una di queste era Giuliana, sicuramente l’allieva prediletta della signorina Luber.
Quella notte Dolores e io eravamo come di consueto in cucina, mentre io le facevo da palo. Fu solo lei quindi a venire sorpresa dalla Luber, che aveva ricevuto una soffiata, ovviamente da Giuliana.
Era molto ingenuo da parte sua manifestare in tal modo il suo doppiogiochismo, perché già allora io ero capace di terribili vendette. Per fargliela pagare ricorsi all’aiuto delle altre ragazze, e un giorno prima del pranzo mi intrufolai in cucina e le tuffai il viso nell’acqua bollente.
Adesso mi rendo conto che avrei potuto ucciderla, cosa che forse all’epoca non avevo nemmeno pensato. Comunque non volevo questo: il mio scopo era unicamente quello di darle una lezione, e ci riuscii, nonostante il prevedibile confinamento nella fossa.
La signorina Luber aveva amicizie altolocate, e spesso mandava delle ragazze a servizio presso suoi amici benestanti. Giuliana sarebbe dovuta partire il giorno seguente, ed era proprio su questo che io avevo contato.
La stessa notte misi in atto il piano. Come al solito Dolores mi aiutò, simulando un malore in modo che il medico lasciasse sguarnita l’infermeria dove Giuliana dormiva, il viso coperto dalle bende. Nello stesso momento, in un’altra camerata le nostre amiche inscenavano una rissa, facendo accorrere tutti gli insegnanti.
Così io potei aprire la serratura della fossa - uno scherzo, con gli insegnamenti di Dolores - e sgattaiolare in infermeria, dove prelevai Giuliana, per poi chiuderla nella fossa al mio posto. Io invece mi bendai il viso e presi il suo. La nuova famiglia non l’aveva mai vista, e la foto nel documento poteva ingannare data la nostra somiglianza e i medesimi colori.
Così, la mattina dopo fui fuori dal collegio, ma nella notte a casa dei nobili ci fu un imprevisto e fui costretta a uccidere il padrone di casa. Poi fuggii, finalmente libera.
Il mio primo assassinio. Ero giovane allora, ma sapevo molte cose che alla mia età non sarebbero dovute esistere, e avevo una malvagità e una sfiducia nel mondo degna di chi è stato deluso troppe volte. In effetti ben poche persone mi avevano amato, sicure solo due: mia madre e Dolores.
Inizialmente la mia non fu una vita da fuorilegge. Ero la segretaria di un criminale, sì, ma ero solo a conoscenza dei suoi traffici, non ne ero coinvolta personalmente.
Poi ci fu la banda. Erano tutti uomini ed ero certa che non si fidassero di me, ma era più che ovvio, dal momento che nemmeno io mi fidavo di loro. Come copertura cantavo in un night, e devo dire che mi fruttava abbastanza successo, e parecchi soldi.
Gradualmente la banda si convinse che ero pronta per sostenere delle missioni da sola. Rubavo per loro documenti importanti, e un giorno ci recammo nella casa di un nobile per sottoporgli una certa formula chimica.
Il nobile era lord Anthony Kant.
Naturalmente lui non mi riconobbe, ma rimase fulminato da me, tanto che veniva sempre a prendermi dopo gli spettacoli e mi corteggiava con maniere degne di un gentiluomo - e io avrei potuto davvero pensare che lo fosse, se non avessi saputo chi era e cosa aveva fatto.
Lasciai la banda, che ormai non si fidava più di me, e Anthony mi chiese di sposarlo. Lo fece con il medesimo Diamante Rosa che mio padre aveva finto di regalare a mia madre. E io, che come ho detto miravo solo al nome che mi spettava, accettai.
Naturalmente non ero innamorata di Anthony. Avevo già commesso l’errore di consegnare il mio cuore a qualcuno che lo aveva pestato sotto i piedi, e in ogni caso odiavo Anthony Kant, lo disprezzavo con tutta me stessa e niente mi avrebbe indotto a cambiare idea. Ma glielo lasciai credere, puntando il mio obiettivo.
Gli rivelai la mia identità la prima notte di nozze, ovviamente senza permettergli di toccarmi. Lui mi guardò a bocca aperta e poi si accasciò a terra, colpito da un infarto.
Non mi aveva detto di soffrire di cuore, ma io non provai nessun rimorso. E comunque non morì, anche se rimase parecchio tempo in clinica e fu poi costretto alla sedia a rotelle.
Quando tornò a casa io venni trasferita nella dependance, così avevamo poche occasioni di incontrarci, se non ad eventi mondani ai quali dovevamo presenziare obbligatoriamente insieme, dipingendo il ritratto della coppia felice. Io lo odiavo più di prima, e lui adesso che sapeva chi ero mi detestava ancora più fortemente, ma penso non si fosse reso conto di quanto ero diversa da mia madre. Non gli avrei permesso di manovrarmi.
Anthony aveva l’hobby della caccia, cosa che io disprezzavo, e penso che questo lo inducesse a organizzarne sempre di nuove, sperando di ferirmi. Si faceva procurare animali selvatici che poi liberava nella sua riserva personale, ovviamente dopo averli incattiviti e fatti inselvatichire ancora di più. Naturalmente la sua parte di divertimento era dare loro la caccia e ucciderli.
Un giorno raggiunsi il luogo dove teneva gli animali. L’ultimo arrivo era una pantera nera, bellissima, ma che sapevo non avrebbe avuto un destino diverso da chi l’aveva preceduta. Disgustata gridai a mio marito tutto il mio disprezzo, poi me ne andai.
Nella mia mente si era formata da tempo l’idea di lasciare quel posto. Odiavo quella vita, e non avevo più nulla da fare là, adesso che avevo l’unica cosa che avevo sempre voluto. E in un certo senso andò così, anche se non come l’avevo immaginato.
Gli uomini di Anthony si introdussero nella mia camera quella notte, e mi stordirono. Appena rinvenuta mi trovai nella fossa dove era tenuta la pantera, al momento narcotizzata e separata da me da una gabbia. Dall’alto mio marito, nella sua sedia a rotelle mi osservava divertito.
Non so da quanto tempo avesse pianificato il mio omicidio, ma il suo piano era di somministrare alla pantera - naturalmente a digiuno da un po’ - un eccitante e poi lasciare che mi sbranasse. A quel punto avrebbe chiamato la Polizia e dichiarato che io, impietosita dal povero animale in gabbia gli avevo sottratto le chiavi ed ero corsa a liberarla, salvo poi essere sbranata dall’”ingrato animale”.
Forse sarebbe anche potuto funzionare. Ma io ero stata istruita nell’arte di forzare le serrature da Dolores, e fu uno scherzo per me aprire le manette che mi bloccavano i polsi. Tirai nella fossa con me il complice di Anthony, e la pantera ormai sveglia si avventò su di lui, sbranandolo.
Anche mio marito seguì la stessa sorte, poi l’animale si voltò verso di me. Ma io non avevo paura. Qualcosa mi diceva che quella pantera sapeva che io non volevo farle del male: di conseguenza lei non ne fece a me.
Una pantera. Che strana coincidenza. L’uomo che ancora oggi vive al mio fianco ha preso il suo nome proprio da quello di una pantera.
Rimasta vedova, usai con la Polizia la stessa versione dei fatti che avrebbe voluto usare Anthony. Non so dire quanto funzionò, ma del resto non c’erano prove che fossi stata io a uccidere mio marito - anche se so che in molti ancora lo pensano.
La mia vecchia banda si rifece viva. Adesso ero lady Kant, e non potevo permettere che si venisse a sapere il mio passato: così, ricattata, mi vidi costretta a vendere tutto per pagarli, compreso il Diamante Rosa.
Dopo questo decisi che me ne sarei andata. Non volevo nulla dalla famiglia Kant, o da quello che ne rimaneva. Solo il nome, e l’avevo. Così me ne andai.
Fu allora che incontrai LUI. All’epoca conoscevo solo il suo nome, Diabolik, e la sua fama di ladro e assassino. Nulla di strano quindi che avesse sentito parlare del Diamante Rosa, e che desiderasse rubarlo. Ma io possedevo solo la copia, e quando lui penetrò nella mia stanza da letto, quella notte, gli diedi quella spacciandola per vera.
Anche lui fu sorpreso del fatto che non mostrassi paura. In effetti era così. Non avevo paura di lui, al contrario, quando si fu tolto il passamontagna mi affascinò perché aveva un così bell’aspetto. Forse dentro di me già esisteva la perversione del male.
Anche lui era convinto, dalle informazioni che aveva raccolto, che avessi ucciso io mio marito. Non c’era motivo che dovesse interessargli, ma ci tenni a spiegargli la verità.
Come mi disse poi era rimasto colpito dal fatto che sembrassi così dura e imperturbabile, e il nostro primo bacio fu quasi istantaneo.
Credo di essermi innamorata subito di lui. Adesso so che era reciproco. Quando venne arrestato io andai sempre al processo, e fu in quelle occasioni che per la prima volta usammo il linguaggio morse per comunicare.
Allora riuscii a salvarlo dalla ghigliottina, e iniziò la nostra vita insieme.
Gli inizi non furono facili. Eravamo entrambi abituati a vivere e agire da soli, e penso che anche lui avesse avuto le sue brave disavventure con le donne, prima di incontrare me. In effetti fui io poi ad aiutarlo nella sua vendetta contro Elisabeth Gay, la sua precedente fidanzata che lo aveva denunciato.
Ma si rese conto presto, credo, che io non ero Elisabeth e il nostro rapporto sarebbe stato diverso da quello che aveva avuto con lei. In effetti con Elisabeth aveva sempre dovuto fingere, usando l’identità di Walter Dorian, le aveva sempre nascosto tutto sia del suo passato che delle sue attività criminali. E una totale assenza di confidenza non è certo un buon punto di partenza per una relazione, quale che sia.
Inizialmente lui faceva i colpi e mi conduceva raramente con sé. Nascondeva la refurtiva nei suoi caveau, presenti sotto ogni rifugio, ma io non avevo il permesso di accedervi senza di lui. Ed era crudele, spietato, spesso uccideva anche quando non sarebbe stato necessario. Come quella volta in cui tentò di strangolarmi.
Avevamo appena fatto un colpo su una nave da turismo. Avevamo narcotizzato il personale e ci eravamo fatti dire dov’era la refurtiva, poi lui aveva lasciato nella cabina una sigaretta che avrebbe sprigionato del veleno, uccidendoli.
Tutto per non lasciare testimoni. Io tentai di convincerlo che non era necessario ucciderli, ma non mi diede ascolto. Così decisi di fare a modo mio.
Lasciai volutamente il mio scialle nella cabina, e quando fummo pronti per andarcene tornai dentro con la scusa di recuperarlo. Presi la sigaretta e la gettai in mare.
Il giorno dopo naturalmente i giornali riportarono la notizia del furto, e anche degli uomini trovati in cabina. Stavano tutti bene, e fortunatamente per noi non ricordavano nulla di quanto successo.
Ma lui capì subito che ero stata io a salvare la loro vita. Si infuriò. Disse che era lui a comandare, e che io per prima dovevo obbedirgli. Poi avvolse le sue mani intorno al mio collo.
Ricordo quei momenti come se fosse adesso. Le sue mani che mi stringevano, i suoi occhi color acciaio che mi balenavano davanti. Ero certa che sarei morta. E sarebbe sicuramente andata così, se improvvisamente non si fosse fermato.
Pensai che sarebbe scoppiato in lacrime, nonostante non lo abbia mai visto piangere. Mi strinse a sé e chiese perdono. Giurò che non mi avrebbe mai più fatto del male.
Non fu semplice per me perdonarlo. Il giorno dopo però venne da me e mi chiese nuovamente perdono, promettendomi che le cose sarebbero cambiate. E così andò, infatti.
Sono certa che in molti pensino a lui solo come un mostro, incapace di qualsiasi sentimento umano. Ed è sicuramente così: siamo spietati, siamo assassini. Abbiamo ucciso persone che si erano macchiate di delitti anche peggiori dei nostri, ma abbiamo ucciso anche gente perbene, colpevole solo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ma non per questo siamo totalmente senza cuore. Ad esempio fra le nostre poche amicizie c’è anche una bimba - non più una bimba, adesso - Bettina, che stranamente non aveva paura di noi e anzi amava la nostra compagnia. C’è anche uno scrittore, Saverio Hardy, che spesso ci ha aiutati anche a costo di finire nei guai lui stesso con la giustizia.
Saverio merita un discorso a parte, perché è sempre stato impagabile con noi. E non lo avremmo mai detto, per come era iniziata: per noi era una delle migliaia di persone delle quali io o LUI avevamo preso il posto.
Ma non sapevamo una cosa fondamentale su di lui: Saverio era omosessuale.
Era il mio compagno naturalmente a prendere il suo posto, e sempre lui a tenerlo narcotizzato. Ma poi LUI si ferì per una caduta accidentale. E incredibilmente fu il suo prigioniero, colui che in quel momento avrebbe dovuto odiarlo più di tutti, a prendersene cura.
Dopo un altro episodio del genere rischiò di essere incriminato per favoreggiamento, ma con l’aiuto del suo avvocato riuscì a tirarsene fuori. E noi ci ripromettemmo che gli saremmo stati sempre amici.
Avemmo l’occasione di aiutarlo quando il suo compagno, Davide Mann, si suicidò gettandosi da una finestra della Rocca dove vivevano insieme. A quei tempi l’omosessualità di Saverio era ancora un segreto anche per noi, ma soprattutto per il resto del mondo, legato com’era ad un contratto capestro col suo editore. E in quel caso venne accusato dell’omicidio.
Tutte le prove erano contro di lui, e iniziò il processo. Io ero fermamente convinta della sua innocenza, così ci mobilitammo per tirarlo fuori dai guai. Presi il posto del suo avvocato e insieme riuscimmo a smontare la tesi dell’accusa, facendolo prosciogliere.
Dopo questo Saverio decise di rivelarsi per quello che era agli occhi del pubblico. Lo fece svelando in un’intervista la sua omosessualità, e il suo amore per Davide che - pareva - proprio per risparmiargli l’umiliazione aveva deciso di farla finita. Naturalmente il suo dolore non poteva essere lenito, ma ero certa che quella confessione contribuì a fare di lui un uomo libero, in tutti i sensi.
Ci aiutò ancora, sempre insieme al suo avvocato, quando LUI venne ferito e io arrestata. In prigione Saverio veniva sempre a trovarmi e mi portava musica, libri e altri regali. Fu lui a portarmi un dvd dove il mio compagno col codice morse mi chiedeva di tentare il suicidio.
Fu un piano molto complesso. Fortunatamente però riuscì a metterlo in atto con l’aiuto del nostro amico, che accettò di fare da tramite nonostante il rischio di venire di nuovo sospettato di favoreggiamento. Quando poi venne intervistato, con noi al sicuro nel nostro rifugio, dichiarò di non aver paura di dirsi nostro amico, e che ci augurava una lunga vita, insieme.
Essere nostri amici spesso si è rivelato letale. Fu il caso di un abile ladro, Valentino, o di un anziano contadino, Matteo, entrambi per breve tempo nostri complici. Una banda aveva deciso di farci uscire allo scoperto, me  e il mio compagno, e per farlo aveva cominciato a uccidere tutte le persone che ci erano amiche. A cominciare appunto da loro due, e devo dire che la loro perdita ci fa soffrire ancora adesso.
Fortunatamente riuscimmo a prevedere in qualche modo le loro mosse, così da poter salvare le vittime predestinate, Saverio e Bettina. Lei era ormai una ragazza, frequentava ancora il collegio ma aveva un ragazzo, che pensava l’amasse. Anche lei, come mia madre e come me scoprì in quell’occasione cosa si prova ad essere tradite dall’uomo che si ama.
La giovane Bettina è forse colei che ci sta a cuore più di tutti. Forse perché è la più giovane, forse perché secondo il mio compagno mi somiglia molto… fatto sta che per lei siamo diventati quasi una coppia di zii, e non ha mai temuto - come Saverio - di affermare che ci voleva e ci vuole bene. Come noi ne vogliamo a lei.
Adesso il binomio Diabolik - Eva Kant è diventato inscindibile. So di riscuotere odi e antipatie, ma so anche che qualche donna soprattutto mi ammira, anche solo perché sono libera. Perché è questo che sono: libera. Che è poi ciò che ho sempre desiderato essere.
Nel corso di uno dei tanti processi a mio carico il mio difensore affermò che ero stata costretta da quell’uomo a diventare come lui. Che se non avessi eseguito i suoi ordini mi avrebbe uccisa. Nient’altro che una tattica per evitare la ghigliottina, naturalmente, perché io non ho paura di dire che amo Diabolik e che senza di lui per me c’è solo la morte. Quale altra persona in questo mondo potrebbe esserci per me, potrebbe amarmi e rischiare la sua vita ogni giorno, come faccio io con lui e come lui fa con me? Nessuna.
Ho amato ben poche persone nella mia vita. Alcune sono in vita ma lontane da me, altre mi sono state strappate via, di altre ancora non so più nulla. Molte sono morte per causa mia. Ma le porto nel mio cuore, perché anche loro, nel bene e nel male hanno fatto di me ciò che sono.
Io sono Eva Kant, e lo sarò sempre.
  
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