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Autore: Amarida    20/03/2014    2 recensioni
Perché…” aggiunse d’un fiato, sull’orlo delle lacrime, “quando mi rivolgi una delle tue occhiate taglienti e profonde che mi fanno sentire piccolo e nudo, anziché spaventarmi o irritarmi me ne sento quasi lusingato? Perché!? Credi che basti l’amicizia a spiegare tutto questo?” concluse sfinito prendendosi la testa tra le mani.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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John entrò trafelato in cucina senza nemmeno togliersi il cappotto e squadernò sul tavolo ingombro di reperti non meglio definibili una copia del Times fresco di stampa: “Maledizione, Sherlock, hai visto il giornale?”
L’altro, lungo disteso in pigiama sul divano del salotto, si limitò a voltare leggermente il viso e ad aprire uno solo dei suoi occhi incredibili per forma, colore e capacità di osservazione, lanciandogli uno sguardo interrogativo.
“Perché dovrei averlo già visto? Sapendo che me lo porti ogni mattina, sarebbe perfettamente inutile sprecare tempo ed energie per scendere a comprarlo.”
Ragionamento irritante ma ineccepibile, come al solito.
Per evitare di cominciare a insultarlo appena sveglio – cosa alquanto sconsigliabile – Watson prese tempo. Si levò, finalmente, il cappotto e la sciarpa, addentò un muffin gentilmente offerto dalla signora Hudston per la loro colazione e, quando fu certo di essere sufficientemente calmo e padrone di sé, tentò un approccio diverso: “Ehm, sì, hai ragione. Allora, vorresti essere così gentile da alzarti un momento dal divano e venire a vedere?”
“E perché dovrei farlo? Puoi leggermi tu stesso l’articolo che ti ha tanto colpito, anzi, puoi farmene direttamente il riassunto, visto che immagino tu lo abbia già riletto tante volte da saperlo a memoria”.
Altra osservazione corretta e irritante, ma stavolta John aveva di che ribattere: “Il problema non è tanto il testo, ma le foto che l’accompagnano, quindi, forse, è il caso che tu ti degni di guardarle”.
“Puoi descrivermi anche quelle: sei bravo a farlo…”
Eccolo di nuovo: incastrato da uno dei suoi rari e inaspettati complimenti.
John, rassegnato, si abbatté su una sedia e, chiudendo gli occhi, si decise a parlare.
“Ricordi il caso della donna scomparsa nella casa abbandonata?”
“Domanda retorica e inutile. È ovvio che me lo ricordi: è stato meno di un mese fa.”
Il dottore ignorò il commento e proseguì: “Bene, allora di sicuro ricorderai che Lestrade, quando è stato sicuro che avremmo trovato la donna, s’è portato appresso una discreta schiera di giornalisti per assistere all’evento in diretta e risollevare un po’ la sua immagine…”
L’altro annuì, sempre a occhi chiusi.
“E ricorderai che quando siamo usciti dal passaggio segreto che avevamo – avevi – scovato nei sotterranei della villa e nel quale la donna era rimasta intrappolata alla ricerca di un tesoro inesistente, eravamo ricoperti di polvere, fango e ragnatele dalla testa ai piedi”.
“Mmmh, sì: sono stato costretto a portare il mio cappotto in tintoria e a indossare per quasi una settimana un orribile impermeabile beige”.
“Che ti ho prestato io…” puntualizzò Waston piccato.
“Ah già…” si limitò a rispondere Holmes senza scomporsi.
“Lasciamo perdere. E ricordi che a te era entrata una scheggia di non so cosa in un occhio e io te l’ho tolta?”
“Mi ricordo sì: mi hai rivoltato una palpebra e fatto un male cane!” esclamò Sherlock alzandosi di scatto a sedere sul divano e decidendosi, finalmente, a guardare l’amico: aveva capito dove sarebbe andato a parare e si sforzò di non interromperlo e di non sorridere, invitandolo a continuare.
“Bene, un fotografo ha pensato bene di immortalare quel momento; peccato che ci abbia preso di spalle e da quella angolazione sembra proprio che noi due…” Watson esitò un istante, deglutendo imbarazzato e Sherlock si sentì autorizzato ad intervenire, completando la frase: “Ci stessimo baciando”.
Il dottore si limitò ad annuire, fissandosi la punta delle scarpe. E si maledisse, accorgendosi di essere arrossito.
Per tutta risposta Holmes si mise a ridere di gusto. Watson sollevò il viso fissandolo con uno sguardo carico di disapprovazione.
“Come se fosse la prima volta che ci scambiano per una coppia! Non dirmi che non ci hai ancora fatto l’abitudine e che ancora ti imbarazza? Andiamo, John, lascia che la gente pensi quello che vuole e si diverta a crogiolarsi nei suoi insulsi pettegolezzi. Io e te sappiamo la verità e questo è più che sufficiente”.
“E qual è la verità?” chiese mesto il dottore.
Fu la volta di Holmes di incrociare lo sguardo con quello di John, osservandolo con espressione curiosa, ma anche un po’ stupita: “Beh, noi due siamo… amici, no?” disse l’investigatore con tutto lo sforzo che gli costava ogni volta abbandonare la sua razionale imperturbabilità per addentrarsi nel terreno a lui quasi ignoto dei sentimenti.
“Dio, Sherlock! Io… sono quasi sicuro di non essere… insomma, a me piacciono le donne, e allora mi spieghi perché, anche se sei uno degli uomini più insopportabili del pianeta, io non riesco a starti lontano? Mi spieghi perché quando credevo che tu fossi morto mi sono sentito svuotato e inutile e solo come mai mi era capitato? E, credimi, quando ero un soldato ho visto morire più amici di quanti sia lecito immaginare e ad alcuni volevo molto bene. Perché riesci a farmi fare cose assurde, che se mi fossero state ordinate da un mio superiore nell’esercito mi sarei rifiutato di fare a costo di essere punito? Perché riesco ad accettare i tuoi insulti, le tue manie, i tuoi clamorosi difetti? Perché…” aggiunse d’un fiato, sull’orlo delle lacrime, “quando mi rivolgi una delle tue occhiate taglienti e profonde che mi fanno sentire piccolo e nudo, anziché spaventarmi o irritarmi me ne sento quasi lusingato? Perché!? Credi che basti l’amicizia a spiegare tutto questo?” concluse sfinito prendendosi la testa tra le mani.
Un momento dopo sentì le mani di Holmes stringergli le spalle: non si era nemmeno accorto che l’altro si era alzato e lo aveva raggiunto, silenzioso e imprevedibile come sempre.
“E perché no?”
La voce di Sherlock, bassa e suadente, gli calò dall’alto come una carezza: era in piedi, dietro la sua sedia e cominciò a parlare con il consueto autocontrollo: “Ho l’impressione che gli uomini comuni tendano a semplificare troppo i sentimenti e a tracciare tra loro confini precisi: ma i sentimenti, dopotutto, sfuggono alla logica – persino alla mia logica – per questo non ho mai amato occuparmene se non per fini scientifici…”
John sorrise: ecco il solito Holmes!
“Però ci ho pensato, ovviamente: ho cominciato a pensarci da quando mi sono accorto che questa cosa rappresentava un problema per te”.
“Questa cosa… cosa?” balbettò il dottore stranito.
“Non essere più stupido di quanto non sei, per favore!” sbottò il detective: “Il nostro strano rapporto, diamine! Lo so benissimo che, normalmente, gli amici non fanno certe cose…”
“Certe cose… cosa?” esalò John: la salivazione totalmente azzerata.
“John, insomma! Abbiamo mai fatto nulla di sconveniente noi due? A parte prenderci gioco di Scotland Yard e divertirci più del lecito a dar la caccia ai criminali…”
“N…no. Certo che no!” affermò il dottore riprendendo coraggio.
“Intendevo…” stavolta era lui a mostrare un minimo d’incertezza nella voce. John se ne accorse, alzò la testa per guardarlo e vide che teneva gli occhi chiusi “…quelle che hai appena elencato tu stesso. E aggiungerei: salvarsi la vita a vicenda un giorno sì e uno no; mandarsi messaggi incomprensibili al resto del mondo a orari impossibili e… e…”
Oddio! Sherlock che esitava? Questo era decisamente preoccupante! Pensò il dottore, chiedendosi se fosse il caso di troncare immediatamente quell’assurda conversazione. Il detective non gliene diede il tempo: “… sì, hai ragione: anche sentire la mancanza l’uno dell’altro in un modo assurdo e infantile” disse d’un fiato. Poi, serrandogli forte le mani sulle spalle con un gesto insieme possessivo e rassicurante, aggiunse: “E sono giunto a una conclusione…” John rabbrividì. Sherlock, ovviamente, se ne accorse e rinunciò a prolungare ulteriormente la prevista pausa ad effetto. Aprì gli occhi e si sporse un poco in avanti per incontrare quelli di John.
“Che ne diresti se, per una volta, rinunciassimo a una definizione?” sussurrò sorridendo.
John lo guardò allibito. Gli ci volle un minuto buono prima di riuscire a sorridergli a sua volta e a replicare, ironico: “Non ci credo: il grande Sherlock Holmes che lascia un caso in sospeso!”
“Perché no? Quando si ha un QI spaventosamente alto come il mio, sfortunatamente, si ha una percezione abbastanza chiara delle proprie potenzialità, ma anche dei propri limiti. E dunque sì, John caro, per quanto mi secchi ammetterlo, questo mistero è destinato a rimanere insoluto”.
Aggirò la poltrona e gli si parò di fronte, una luce pericolosa negli occhi, poi si chinò e gli sussurrò all’orecchio: “Ma guai a te se lo dirai a qualcuno!”
Si alzò di scatto, gli voltò le spalle e si diresse in due falcate in cucina, lasciandolo totalmente basito.
“Un tè?” chiese un attimo dopo, riaffacciandosi dalla porta col solito tono beffardo e una strizzata d’occhi che il dottore giurò non avrebbe mai più dimenticato.
“Certo!” rispose.


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Banale oltre ogni umano dire, lo so; ma scriverla è stato comunque divertente. Spero lo sia anche leggerla.
Saluti dall'intrusa ultratrentenne! 
  
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