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Autore: dalialio    21/03/2014    2 recensioni
Duemilaquattordici.
Se mi trovavo nel duemilaquattordici, non ricordavo assolutamente nulla di quello che era successo negli ultimi sei mesi circa. La botta in testa mi aveva fatto davvero perdere la memoria.
In ogni caso, sapevo cos'era lo scenario che si stagliava di fronte a me.
La fottuta Apocalisse.

[Lievi spoilers nona stagione]
Sospesa per necessitata rivisitazione
Genere: Erotico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Capitolo 1
Disclaimer: i personaggi presenti nella storia non mi appartengono, ma sono proprietà della CW. L'immagine non è di mia proprietà ma di chi l'ha creata (cliccateci sopra per la pagina della creatrice). Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Salve a tutti! Eccomi qui con l'ennesima storia su Supernatural *la folla si lamenta* sì, sì lo so cosa state pensando, ma vi giuro che questa volta non si tratta di una delle solite one-shot. Ebbene, mi sono buttata a capofitto in una multichapter oh povera me!
Dunque, premetto che la storia è in corso d'opera e devo ancora capire dove andrà a parare, quindi la scrittura e pubblicazione sarà abbastanza lenta. Ho voluto, per il momento, pubblicare il primo capitolo per vedere se la storia può interessare e anche per spronarmi ad andare avanti.
La storia è ambientata in un futuro indefinito (o che sarà definito più avanti) ed è principalmente nata dal mio folle amore per Radioactive degli Imagine Dragons. Ci potrebbe essere un cambio di rating e passare al rosso ma chissà: lo scopriremo solo vivendo!
Ma bando alle ciancie, vi lascio leggere! :) vi prego di lasciare una recensione anche piccina picciò per farmi sapere cosa ne pensate e se dovrei davvero andare avanti a scrivere!
Adios!
Chiara











W  E  L  C  O  M  E     T  O     T  H  E     N  E  W     A  G  E





I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.

I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.





Capitolo 1




Ripresi conoscenza con un sobbalzo, tanto improvviso da farmi rimbombare il cuore nelle orecchie. Mi misi a sedere di scatto, spalancando gli occhi e inspirando in un ansimo. Sentii l'aria grattarmi la gola secca e i polmoni gonfiarsi dolorosamente contro la gabbia toracica. Fu come se quello fosse il primo respiro di tutta la mia vita.
Quello scatto improvviso non fu una brillante idea: la testa iniziò a girare e la nausea mi salì dallo stomaco. Le mie braccia cedettero e, quasi senza rendermene conto, ricaddi indietro. Battei la testa contro l'asfalto e solo allora mi resi conto del dolore lancinante che sembrava trapassarmi il cranio da parte a parte. Doveva essere lì già da prima che cadessi a terra. Un conato mi fece tremare lo stomaco, ma non riuscii a rigettare.
Mi voltai su un fianco, mentre lo sforzo di vomito mi faceva tossire come un disperato, strizzando gli occhi a causa dei vortici di polvere che il mio fiato faceva sollevare da terra. Appena riuscii a respirare normalmente, sollevai la testa di qualche centimetro e sputai per terra un miscuglio di saliva e sangue. La mia mascella doleva.
Qualcuno mi aveva proprio conciato per le feste.
Inspirai ed espirai lentamente per cercare di far scendere la nausea. Man mano che i secondi passavano, il dolore si espandeva in tutto il mio corpo: oltre alla testa, ora pulsava anche la mia gamba destra. Mi sollevai sui gomiti con uno sforzo e controllai la situazione: i jeans erano squarciati sul ginocchio, così come la mia carne, e il sangue faceva attaccare il tessuto alla mia pelle come una colla. Il taglio era lungo una decina di centimetri e profondo. Non mancava molto che si vedesse l'osso.
Che cazzo mi era successo?
Mi guardai attorno. Mi trovavo disteso in mezzo alla strada e non si scorgeva anima viva. Il cielo era nuvoloso e formava una cappa di caldo umido sopra la mia testa. Il panorama era desolato.
Mi voltai sul fianco sinistro e iniziai a strisciare, stando attento a tenere la gamba ferita dritta e distante dai detriti della strada. Trascinai il peso di tutto il mio corpo con i gomiti, mentre avanzavo stringendo gli occhi, che lacrimavano a causa della polvere che si sollevava dall'asfalto. Tutta la strada era coperta da uno strato grigio di cenere.
Arrivai al marciapiede e mi sedetti sul bordo, usando tutta la mia forza per sollevarmi e girarmi. Il respiro era affannoso. La gola era secca e bruciava. La gamba faceva un male boia, ma mi preoccupava di più la testa. Sfiorai con le dita la ferita tra i capelli, mordendomi il labbro quando si mise a pulsare. Mi guardai la mano. Era impiastricciata di una sostanza appiccicosa e color ruggine.
Sangue rappreso.
Sospirai, cercando di pensare positivo: almeno per il momento la botta in testa non aveva provocato danni gravi.
Oppure sì?
Mi chiamavo Dean Winchester, mio fratello era Sam e i miei genitori erano stati Mary e John. Non sapevo che giorno fosse e quello mi spaventò. L'ultima cosa che ricordavo era Sam su un letto di ospedale... e prima? Un cielo nero era esploso in migliaia di palle di fuoco, che si dirigevano inesorabilmente verso la Terra. Ricordavo chiaramente di aver fissato una di quelle comete e di averci visto un angelo, cui si erano staccate le ali durante la caduta.
Il mio cuore perse un battito. Dov'era Castiel? E Sam?
Mi guardai attorno, analizzando ogni dettaglio per cercare di orientarmi. La strada era popolata da carcasse di automobili arrugginite, molte delle quali smembrate e girate sottosopra. I muri degli edifici erano grigi e sporchi e quasi tutte le porte e le finestre erano state sprangate con delle assi di legno.
L'atmosfera era surreale. Sembrava che la città fosse stata investita da un'onda radioattiva.  Più mi guardavo intorno, più mi rendevo conto di conoscere quello scenario. L'avevo già visto prima.
La scritta spiccava sul muro dell'edificio dall'altra parte della strada. Mi si accapponò la pelle nel prendere in considerazione l'idea che quella che era stata usata non fosse vernice rossa.
Croatoan.
Figlio di puttana...
La bile mi si fermò in bocca e fui costretto a sputarla. Sentii il naso colarmi e lo pulii con la manica, che si sporcò di sangue.
Quel panorama grigio e desolato mi era abbastanza familiare: ci avevo vissuto tre giorni, quella volta che quel figlio di puttana di Zaccaria mi aveva sparato nel futuro per farmi vedere quale sarebbe stata la conseguenza se non avessi detto il "grande sì" a Michele. Ricordavo chiaramente, in quell'occasione, di aver visto un cartello di divieto di entrata attaccato ad una rete che recava una data.
Duemilaquattordici.
Se mi trovavo nel duemilaquattordici, non ricordavo assolutamente nulla di quello che era successo negli ultimi sei mesi circa. La botta in testa mi aveva fatto davvero perdere la memoria.
In ogni caso, sapevo cos'era lo scenario che si stagliava di fronte a me.
La fottuta Apocalisse.
Un pensiero grattava un angolo della mia mente, mentre si faceva breccia nella mia testa l'idea che ci fosse qualcosa di più che familiare in quella scena. Non era la consapevolezza di essermi già trovato in quell'esatto luogo molti anni prima. Era qualcosa di più recente, ma indefinito, impalpabile. Come quando ci si sveglia e si sente ancora il gusto del sogno sulla lingua, mescolandosi con la realtà, tanto da confonderci per i primi secondi.
Era quello che mi stava accadendo. Avevo l'impressione di essermi appena svegliato e che i miei ricordi fossero solo un sogno. Che quella che avevo di fronte a me era la realtà in cui avevo vissuto tutta la mia vita.
Scossi la testa, cancellando quel pensiero, e mi concentrai su qualcosa di più importante. Dovevo trovare un modo per andarmene di lì, scoprire se esisteva ancora qualche forma di civiltà da quelle parti. Ma non sarei riuscito nemmeno ad alzarmi in piedi con la gamba in quello stato.
Squarciai i jeans con il coltello a serramanico che trovai in tasca, fino a liberarmi il polpaccio, poi sollevai il tessuto per scoprire il ginocchio, stringendo i denti quando la ferita pizzicò. Un fiotto sgorgava lentamente tra il sangue rappreso e gocciolava sull'asfalto. Non sfiorai nemmeno il taglio: le mie mani erano nere e sporche e avrei rischiato un'infezione.
Mi sfilai la maglia, rimanendo a petto nudo, e la piegai a formare una benda. La posai sulla ferita e annodai le maniche dietro il ginocchio, stringendo in modo da non fermare troppo la circolazione. Come fasciatura non era un granché, ma almeno speravo che la ferita non si sporcasse ulteriormente.
Mi guardai attorno, cercando di orientarmi, ma non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi e di dove sarei potuto andare. Il mio sguardo si posò su un pullman a una ventina di metri da dove mi trovavo. La scritta sul fianco era sbiadita ma si riuscivano ancora a scorgere le parole "Carcere della Contea". Un bus per il trasporto dei carcerati. Era l'unico mezzo in vista che avesse tutte e quattro le ruote e che non fosse ribaltato.
Mi misi in piedi facendo leva sulle braccia e tenendo la gamba martoriata più dritta che potevo. Mi alzai cautamente, sperando di non essere preso di nuovo da un conato. Una volta in piedi, constatai che il mio stomaco stava tutto sommato bene e mi decisi a muovermi. Provai a spostare il peso sulla gamba ferita, ma un dolore lancinante mi fece tremare il ginocchio. Cattiva idea.
Sospirai. Non mi restava che saltellare fino all'autobus. Sarebbe stata davvero una lunga strada.
Dopo nemmeno sei metri ero già stanco. La gamba sinistra doleva e non sapevo quanto ancora sarebbe stata in grado di sostenere il mio peso. Presi in considerazione l'idea di sedermi a terra per qualche secondo, ma sapevo che se l'avessi fatto poi non sarei più riuscito a rimettermi in piedi. Strinsi i denti e proseguii, un po' saltellando, un po' chinandomi e posando le mani per terra per camminare a tre zampe.
Dopo cinque minuti avevo finalmente raggiunto il bus. Il portello era spalancato e mi lasciai cadere sullo scalino. Rimasi lì per un paio di minuti, lasciando riposare la gamba sinistra, che aveva sopportato tutti i miei ottantacinque chili. Sentii un formicolio salire dalle dita fino alla coscia, segno che il sangue stava tornando a circolare.
Quando mi sentii più in forze, salii zoppicando gli scalini e mi sedetti al posto di guida. Le chiavi non erano inserite, né si trovavano in nessun cassetto o scomparto - non ci avevo realmente sperato -, quindi mi chinai e tirai fuori due fili da sotto il cruscotto, cui feci fare contatto. Il motore accennò ad avviarsi un paio di volte, ma senza risultato. Dopo il quinto tentativo si accese e mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo.
Infilai la gamba ferita sotto il volante e mi sistemai in modo da poter premere l'acceleratore pur tenendola dritta. Quella posizione - seduto sul bordo esterno del sedile, tenendo la gamba in tensione - era scomodissima, ma speravo di raggiungere la civiltà in pochi minuti, quindi avrei potuto anche sopportare.
Dopo essere partito, mi accorsi quasi subito che i freni non funzionavano proprio a meraviglia, così continuai ad avanzare ad una velocità massima di venti chilometri orari, tenendo spalancata la portiera del conducente e rimanendo pronto a saltare fuori dall'autobus se ce ne fosse stato bisogno.
Non sapendo dove potessi andare, vagai alla cieca per un quasi un'ora, senza trovare anima viva. Durante il tragitto ebbi qualche difficoltà nelle curve, che affrontavo sempre a velocità troppo elevata. Un paio di volte l'autobus si inclinò pericolosamente da un lato ed ebbi il terrore che si ribaltasse, ma le sospensioni riuscirono a tenerlo dritto. In quelle occasioni sentii l'adrenalina invadere il mio corpo e il cuore battermi all'impazzata.
La gamba continuava a fare un male cane e la maglia usata come benda era ormai imbrattata di sangue. Anche se fossi riuscito a trovare qualcuno, non sapevo come sarebbero riusciti a medicarmi. Avrei sicuramente sviluppato un'infezione.
Avevo ormai perso le speranze, quando, lungo un rettilineo, notai la sagoma di una mezza dozzina di persone ad un centinaio di metri di distanza. Iniziai a rallentare subito, visto che i freni funzionavano molto malamente e mi ci sarebbe voluto più spazio del normale per fermare l'autobus.
Quando mancava ancora una cinquantina di metri, il gruppo di uomini si accorse di me - anzi, dell'autobus. Esplose un colpo, che procurò un buco perfettamente tondo sul parabrezza e sibilò accanto al mio orecchio. Un decimo di secondo dopo mi ero abbassato, mentre altri colpi esplodevano sopra di me, mandando in frantumi il vetro. Pigiai il piede sul pedale del freno più forte che potevo, mentre il ginocchio ferito pulsava così tanto che la mia vista cominciò ad offuscarsi, ma mi sforzai a rimanere piegato.
Gli uomini smisero di sparare, probabilmente pensando di essere riusciti a beccarmi. L'autobus avanzò degli ultimi metri, poi si fermò completamente. Le mie orecchie fischiavano e cercai di cambiare posizione: quando mi ero chinato ero stato costretto a piegare il ginocchio ferito e ora rischiavo di vomitare l'anima dal dolore. I frammenti di vetro sulla mia schiena caddero per terra mentre mi sollevavo cautamente di qualche centimetro.
Un rumore di passi arrivò attutito alle mie orecchie, mentre il mio cervello lo registrava con difficoltà. "Cazzo!", esclamò una voce che non conoscevo.
Mi sollevai ancora un po', voltandomi verso il portello del conducente aperto. Tra la testa che girava e il fischio nelle orecchie, la mia mente non riuscì a riconoscere il volto dell'uomo che mi fissava atterrito.
"È Winchester!", lo sentii gridare, prima che il fischio nelle orecchie si facesse più acuto e mi facesse svenire.




   
 
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