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Autore: autumnleaf    23/03/2014    2 recensioni
"Quello che provava per Sherlock andava al di là dell’attrazione sessuale e dell’amore stesso, era – così gli piaceva definirlo – il più puro dei sentimenti, che non ha un nome perché forse ancora nessuno al mondo l’ha mai provato.
La consapevolezza che niente e nessuno potrà mai trasmettergli quel brivido che lo attraversava al solo sentire il suo odore era forse ciò che gli faceva più male.
Come si fa ad andare avanti nella mediocrità dopo essere arrivati a sfiorare con le dita la più alta forma di emozione?"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono e la storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Il titolo è ispirato alla canzone dei Cardigans "Erase/Rewind".



Ottocentosettantacinque giorni, sedici ore, venticinque minuti, quarantasei secondi.
 
Dicono che il tempo guarisca ogni ferita.
 
E allora perché continuava a svegliarsi di soprassalto ogni notte, con il cuore che pulsava tanto forte da potergli schizzare fuori dal petto, con il respiro affannoso e le lacrime che cominciavano a scorrere dai suoi occhi come se avessero vita propria, tra le lenzuola madide del suo stesso sudore freddo? Perché quel corpo inerme era ancora lì nella sua testa, davanti ai suoi occhi, ogni fottuta notte, come ogni fottuto giorno, ogni fottuto momento? Ottocentosettantacinque giorni, sedici ore, ventisei minuti, tredici secondi, ed era ancora lì, nitido, sfacciato. Precipitava da quel palazzo e si schiantava sulla fredda ghiaia grigia di continuo. Era come se i suoi occhi gli avessero girato un video che continuavano a riprodurre ancora e ancora e ancora, come se volessero sbattere la realtà in faccia al suo cuore che non voleva saperne di accettarla. Ecco, lo vedi? – parevano gridargli contro ogni volta che glielo propinavano senza pietà -Vedi la sua pelle livida, gli occhi sbarrati e spenti, il viso e i capelli fradici di sangue? E’ morto, John. MORTO. Fattene una ragione, cazzo. Vai avanti, cazzo. Piantala di piangere, cazzo.
 
Ma come, se tutto attorno a sé gli parlava di lui?
 
Il suo violino era sotto la finestra, lì dov’era solito suonarlo a qualsiasi ora gliene venisse la voglia, il computer portatile aperto sulla scrivania, la scatola di cerotti alla nicotina sul pavimento accanto al divano, la vestaglia blu abbandonata sulla spalliera della sua poltrona preferita, la tazza del tè che aveva bevuto poggiata sul tavolino accanto ad essa. Tutto era esattamente dove lui l’aveva lasciato ottocentosettantacinque giorni prima. In disordine, nel suo reiterato disordine che regnava costantemente anche nella sua testa, il disordine che John diceva di detestare tanto, ma di cui ora sentiva una mancanza tale da squarciargli l’anima.
 
In molti – se stesso incluso - gli avevano consigliato di trasferirsi, di ricominciare una vita diversa lontano da lì.
Lo farò, sì. Il tempo di organizzarmi e…
 
Ottocentosettantacinque giorni, sedici ore, ventotto minuti, cinque secondi e John Watson era ancora lì, a fissare quella carta da parati che recava i segni di quando, in preda alla rabbia, aveva riempito il muro di cazzotti, spaccandosi le nocche di entrambe le mani. Non si ricordava nemmeno di aver provato dolore. Nessun dolore poteva essere lontanamente paragonabile a quello che si portava dentro.
 
Andare a letto con tre o quattro donne diverse nel giro di una settimana… Con quale risultato? Quello di ritrovarsi ogni volta a piangere rabbiosamente con la testa tra le mani, senza poter dare loro nessuna spiegazione.
Anche quando era dentro di loro, flash della sua vita vissuta con lui gli sfrecciavano davanti come macchine nel traffico londinese. La sua rara, ma contagiosa risata, quell’estenuante stream of consciousness, il suo irritante, ma allo stesso tempo irresistibile cinismo, perfino l’improponibile viziaccio di conservare parti del corpo umano in ogni angolo della casa (“è per un esperimento!”…) facevano a botte per invadere prepotentemente i suoi pensieri. E non provava alcuna soddisfazione, alcun tipo di piacere, solo tanta frustrazione e tanta, troppa sofferenza.
Quando Sarah o Amanda o Lucy o Cathy andava via perplessa o triste o delusa o incazzata, a lui non fregava un bel niente, tanto era consapevole di averla soltanto usata per tentare di soffocare quel dolore che lo stava annientando. Continuava a provarci con la vana speranza che un giorno avrebbe incontrato quella persona speciale in grado di salvarlo… ma sarebbe potuto anche andare a letto con tutto il mondo, nessuno, nessuno sarebbe stato capace di colmare la sua realtà come lo era stato Sherlock Holmes.
 
Con lui niente aveva senso, il mondo pareva girare al contrario, la notte diventava giorno e le normali ventiquattr’ore erano un elastico che si poteva estendere a suo piacimento. Era una forza della natura, un cataclisma, era imprevedibilità e caos, mare e tempesta. Ma per John ormai era quello l’ordine naturale delle cose, il suo equilibrio.
Sherlock si era abbattuto sulla sua vita come un ciclone, demolendo tutti quelli che per John erano stati i cardini di un’intera esistenza, e che ora vedeva soltanto come catene di cui era stato prigioniero per troppo tempo. Studio, lavoro, etica, morale, matrimonio, figli, eterosessualità…
Sì, Sherlock Holmes era stato in grado di far vacillare anche quella, nello stoico John Watson.
A John erano sempre piaciute le donne e continuavano a piacergli, su questo non c’era ombra di dubbio. Ma con Sherlock era… una cosa a parte, come in qualsiasi altra situazione, del resto.
Quello che provava per Sherlock andava al di là dell’attrazione sessuale e dell’amore stesso, era – così gli piaceva definirlo – il più puro dei sentimenti, che non ha un nome perché forse ancora nessuno al mondo l’ha mai provato.
La consapevolezza che niente e nessuno potrà mai trasmettergli quel brivido che lo attraversava al solo sentire il suo odore era forse ciò che gli faceva più male.
Come si fa ad andare avanti nella mediocrità dopo essere arrivati a sfiorare con le dita la più alta forma di emozione?
[E chi se l’aspettava, tra l’altro…]
 
Nei primi giorni di convivenza, vivere con Sherlock gli parve un incubo.
Quella personalità così esuberante faceva apparire la casa ancora più stretta di quello che era. La sua forza vitale era travolgente, perfino quando se ne stava steso sul divano per ore in meditazione: era come un cavo scoperto che sprizzava scintille. John non sapeva darsi una spiegazione, avvertiva quelle scintille e basta, e al principio ne era scioccato, quasi spaventato.
Presto imparò anche che con Sherlock non esisteva privacy: prendeva in prestito i suoi oggetti senza mai chiedergli il permesso, entrava in bagno o in camera da letto senza mai prima bussare [un sorriso amaro curvò le sue labbra al dolce ricordo], e l’aveva fatto sin dal primo giorno!
All’inizio tutto questo lo mandava in bestia, poi sopraggiunse una rassegnata abitudine, che – man mano che Sherlock lo coinvolgeva nelle sue stramberie - mutò in tenero affetto, fino a rendere la sua invadenza una costante della vita di John, alla quale egli sentiva che non avrebbe più potuto rinunciare… quell’uomo stava diventando egli stesso la sua vita, ma il povero John ancora non se ne rendeva conto.
 
Sherlock Holmes era un uomo innegabilmente affascinante.
Aveva un corpo esile e slanciato, dal portamento elegante, e un viso che pareva scolpito nel marmo. Forse erano i ricci color cioccolato che gli incorniciavano il volto a dargli quella sorprendente delicatezza… forse erano quei gelidi occhi felini che attraversavano magicamente tutte le sfumature dell’azzurro, del turchese e del grigio a renderlo così interessante, John non lo sapeva. Sapeva, però, che nessuna donna al mondo l’aveva mai fatto sentire così nudo, esposto, vulnerabile con una sola occhiata. Mai aveva distolto lo sguardo da quello di una donna, vinto da un turbamento tale da fargli accelerare i battiti e sudare le mani.
Accettare questa realtà non fu facile.
Inizialmente le sue emozioni erano come grosse pillole. Le ingoiava riluttante e a fatica, ma andavano giù e per un po’ i “sintomi” sparivano e andava di nuovo tutto bene. Il problema è che un’emozione tende ad alimentarsi di desideri non soddisfatti e a crescere a dismisura, e ben presto divenne un boccone troppo grande e troppo amaro perché John potesse ingoiarlo e far finta di nulla.
Ogni volta che lo ascoltava e lo osservava sentiva qualcosa nel suo petto gonfiarsi e spingerlo a cercare un contatto con il suo corpo, pur non capendo bene a cosa potesse servirgli. I suoi muscoli rispondevano automaticamente a quell’impulso, e più volte John era arrivato così vicino a Sherlock da poter sentire il suono del suo respiro, ma poi si era fermato, accontentandosi semplicemente di ascoltare quel suono e di assaporare l’odore della sua pelle, perché era il massimo a cui poteva ambire, John lo sapeva. Magari fosse stato così semplice. Magari anche il più profondo e intimo contatto tra i loro corpi fosse bastato… John lo sapeva. Si diceva che se fosse andato avanti sarebbe crollato tutto, quindi se ne stava sull'orlo del precipizio e gli andava bene così...
[Finché poi non è crollato tutto lo stesso.]


Ottocentosettantacinque giorni, sedici ore, trenta minuti, quattro secondi: la porta di casa si aprì alle sue spalle.
 
John non sapeva perché, ma gli sembrò di sentire la vita attorno a lui congelarsi, il cuore perdere un battito. I peli sulla sua nuca si rizzarono e trattenne il fiato ascoltando attentamente i suoni che provenivano da dietro di sé.
La porta si richiuse piano cigolando. Uno, due, tre, quattro passi in avanti.
Avrebbe dovuto essere spaventato, forse, ma non lo era. Quei segnali che il suo corpo gli stava inviando non erano affatto di paura, ma di… qualcos’altro di non ancora ben identificato.
Strinse i pugni delle mani sudate, e i denti fino a contrarre la mascella scolpita. Aspirò tutta l’aria che si era perso in quei secondi di stand by e si voltò.
 
Una secchiata d’acqua gelida lungo la schiena in pieno inverno.
 
Lui era là.
 
E non si trattava della solita cura Ludovico* che la sua testa gli somministrava ogni giorno senza possibilità di scampo.
Era là, in piedi, col suo cappotto nero e la sua sciarpa blu.
Nei suoi occhi grigio-azzurri c’era di nuovo quella scintilla di genialità, non c’era sangue sul suo volto né sui suoi ricci color cioccolato, quella pelle era sì pallida, ma viva.
 
Doveva essere definitivamente uscito di senno, aver raggiunto un punto di non ritorno per arrivare addirittura ad avere allucinazioni così nitide.
Scosse la testa strizzando forte gli occhi nel tentativo di riprendersi.
 
“John.”
 
Quella voce - quell’inconfondibile voce baritonale, anche quella era un’allucinazione? - gli fece riaprire gli occhi di scatto.
Un sorrisetto baldanzoso curvava le labbra carnose di Sherlock.
 
Sherlock.
 
Sherlock, che ottocentosettantacinque giorni, sedici ore, trentuno minuti, cinquantadue secondi prima gli aveva telefonato dall’alto del cornicione del Saint Bartholomew’s per dirgli addio, prima di lanciarsi nel vuoto.
Sherlock, che gli aveva confessato di essere un bugiardo, un impostore, un disonesto, prima di lanciarsi nel vuoto.
Sherlock, che lui aveva visto morire.
 
John si avvicinò a lui, lento, incerto.
Allungò una mano tremante a sfiorargli il viso, come prova definitiva che fosse tutto vero.
Le punte dei suoi polpastrelli seguirono la curva di quello zigomo che pareva marmo cesellato, e gli occhi già arrossati e stanchi dai continui pianti si riempirono di lacrime nuove.
Era caldo, batteva le ciglia, respirava, il suo respiro profumava di menta fresca com’era sempre stato.
 
Era vivo.
 
Una lacrima sfuggì alla presa delle ciglia nere e scorse lungo la guancia di John, alla stessa velocità con cui il braccio destro scattò quasi incontrollato a sferrare un cazzotto sullo zigomo di Sherlock, quello stesso zigomo che poco prima stava accarezzando.
 
Sherlock vacillò, e se anche avesse voluto reagire, non ne avrebbe avuto il tempo, perché John lo afferrò per il colletto del cappotto e lo scaraventò per terra, scagliandosi di nuovo contro di lui.
Lo inchiodò al parquet attanagliando le gambe attorno al suo bacino e lo colpì altre due, tre, quattro volte, in viso, sulle braccia, nello stomaco, con le ciglia che ormai non riuscivano più a impedire alle lacrime di inondargli il viso.
Si sentiva confuso, stupido, incazzato, imbarazzato, sbalordito. In quel momento lo detestava.
Lo detestava per avergli causato quel dolore atroce, per essersene rimasto in disparte chissà dove mentre lui soffriva, magari perfino osservandolo da lontano, ridendo della sua debolezza, consapevole di averlo gettato nel baratro e di essere allo stesso tempo l’unico a potercelo tirare fuori.
Egoista, egoista.
Perché non sei arrivato a salvarmi, come facevi sempre?! Ero in pericolo, TU stesso mi stavi ammazzando nella maniera più atroce, corrodendomi dentro come l’acido, era la stessa cosa di quando mi puntavano una pistola alla testa, la stessa fottuta cosa, forse addirittura peggio!
Avrebbe voluto sputargli tutto questo in faccia mentre lo picchiava, ma se ne vergognava terribilmente, le lacrime che gli stava versando addosso erano già abbastanza umilianti.
Quindi gridò e basta, gridò tutta la rabbia e l’odio e la delusione che aveva in corpo, poi si fermò.
Allentò la presa delle gambe e lasciò cadere le braccia stanche sul petto di Sherlock dischiudendo i pugni.
Lo guardò, in preda al fiatone.
Perdeva sangue dal labbro e dal naso, ma rideva. Rideva!
A John venne voglia di dargliene ancora per far sparire quell’espressione sfrontata, ma invece si sentì pervadere da un’improvvisa, assurda euforia che l’attraversò dalla testa ai piedi come una scarica elettrica, e – apparentemente senza logica alcuna – si avventò sulle sue labbra, facendo morire quel riso con un bacio di una violenza paragonabile a quella dei cazzotti che gli stava mollando poco prima.
In quei pochi secondi in cui le loro bocche rimasero insensatamente unite, tra un battito del cuore e l'altro, tutto svanì. Gli ottocentosettantacinque giorni senza di lui, il lancio nel vuoto, la telefonata. Il rancore.
Il sapore delle sue lacrime si mischiò a quello del sangue di Sherlock che gli parve ciò che di più dolce esista al mondo.

Quando riaprì gli occhi, incontrò l'espressione per la prima volta perplessa di quelli dell'altro. Probabilmente non gli era mai sembrato così perso e disorientato, ma dopo aver visto i morti tornare in vita è difficile che qualcosa riesca più a sorprenderti.
 
Sorrise, John Watson, stanco come chi si risveglia dal torpore di un coma profondo durato anni.

Erase.
Rewind.



"Metto su il tè."






*Cura Ludovico: citazione dal film Arancia Meccanica di Kubrick, vi posto la definizione da Wikipedia (così è certo che chi non ha visto il film capisca bene lol): Si tratta di una forma di Terapia dell'avversione, in cui al paziente è somministrato un farmaco che induce nausea estrema, mentre per due settimane è costretto a guardare film particolarmente violenti, o apologetici della violenza, come una pellicola nazista che contiene la gloriosa Nona di Ludwig Van Beethoven adorata dal protagonista. Egli supplica i ricercatori di far cessare la musica, ma non viene esaudito.






N.D.A.

Buon pomeriggio a tutti :) sono una "novellina" nel mondo di Efp, questa è la prima volta che trovo il coraggio di pubblicare una mia storia.
Scrivo da quando avevo 15 anni, ma non ho mai reso pubblico niente, perché sono estremamente timida, insicura e anche un po' gelosa delle mie cose... se devo essere sincera questa è anche la prima storia che riesco a concludere, perché, proprio a causa della mia insicurezza, tendo a smettere o addirittura cestinare i miei "lavori".
Ma, su consiglio di una mia carissima amica, ho deciso di provare a far leggere al mondo uno dei miei piccoli scritti.
Siate spietatamente sinceri, mi raccomando :D
   
 
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