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Autore: Lechatvert    25/03/2014    1 recensioni
Nel 1500, dopo tre settimane di assedio alla città di Forlì, il Valentino si insedia a Palazzo Numai, ospite del consigliere di Caterina Sforza.
Nello stesso anno, Niccolò Sartori dipinge di verde i cieli della Romagna.
In quel momento, forse, si sentiva un po’ la falena dei racconti di suo padre. Piccolo e impotente dinanzi alle fiamme mentre le grida della guardia cittadina si avvicinavano, eppure così affascinato dalla sua opera da non poterla lasciare.
Continuava a fissare il fuoco a pensare: “
Non smettere, non ancora”. Serrava le palpebre quando gli occhi cominciavano a fare male e subito li riapriva, preoccupato come un bambino dinanzi alla prima nevicata di ottobre, per assicurarsi che nulla fosse cambiato.
Era la sua luce, la sua fiamma, la sua Vittoria che bruciava come la più brillante delle comete.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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polverenera

Polvere nera
Capitolo terzo: rinascita

https://www.youtube.com/watch?v=_l1bW0QyOD0





Perché non puoi avere le ali per volare
Come la rondine, così orgogliosa e libera?

Donovan – Donna Donna





Si svegliò all’improvviso con una fitta allo stomaco che lo fece letteralmente balzare a sedere sul materasso. Non capì subito dove si trovasse, ma dalla morbidezza delle lenzuola che lo avvolgevano dedusse di non aver ancora lasciato la dimora dei Numai.
Ansimante, si prese un momento per ricordare.
La cena, la spada, lo stemma …
Si portò le mani dinanzi al viso, controllando di avere le dita al posto giusto. C’erano anche le braccia, le gambe, le dita dei piedi … Per sicurezza si tastò la faccia, si toccò gli occhi, il naso, le orecchie.
Tutto al suo posto.
Dunque, nulla non gli era esploso addosso.
Confuso, provò a guardarsi attorno.
Si trovava in una stanza spoglia, su un letto pulito ma non particolarmente lavorato. C’era odore di chiuso. Piegato sullo scrittoio, un vecchio dall’aria impegnata annotava qualcosa sulla pagina di un vecchio libro.
Niccolò si fece presente con un colpo di tosse.
«Ah, siete sveglio!», commentò allegramente il vecchio, alzando il braccio e facendo volare sul pavimento un pezzo di carta stropicciata. «Il padrone chiede se avete intenzione di fermarvi a cena.»
«Perché no», rispose subito Niccolò.
Provò a mettersi in piedi, ma le caviglie lo tradirono prima di muovere un passo, costringendolo a sedersi di nuovo sul materasso in un gran scricchiolio d’assi.
«Non così in fretta», lo ribeccò il vecchio. «Il veleno è ancora in circolo.»
Niccolò assottigliò lo sguardo castano.
«Il cosa?», chiese dopo un’attenta riflessione.
Il vecchio roteò gli occhi, ma non si scompose in un commento scorse, anzi. Con calma si alzò dallo scrittoio si risedette accanto a Niccolò, passandogli una mano sulla fronte e sorridendogli con fare incoraggiante.
«Avete mangiato qualcosa di avariato e il vostro organismo si è ribellato», gli spiegò, pacato. «Vi ho fatto bere acqua e sale, perciò potreste vomitare ancora. Servirà a farvi riprendere più in fretta.»
Niccolò lo guardò, lasciando che le sue labbra si increspassero in un’espressione infelice. Per un istante si fece pensieroso, imbronciandosi appena mentre la sua bocca si apriva in un lampo di comprensione che parve destarlo da tutta la confusione in cui aveva sguazzato fino a quel momento.
Poi, scuotendo il capo, ribadì la sua confusione.
«Continuo a non capire», sospirò. «Che diavolo dovrei aver mangiato?»
Il vecchio arricciò il naso.
«Carne in salamoia, pesce marcio, tritoni.»
Niccolò alzò un sopracciglio.
«Tritoni.»
«Sì.»
Alzò anche l’altro.
«E dove li avrei trovati io, i tritoni?»
«Può esservi bastato un pezzo di carne di manzo troppo vecchio per esser cucinato; il corpo è debole, in questo periodo dell’anno. Ma non temete; entro sera vi sarete rimesso completamente.»
Niccolò strabuzzò gli occhi, portandosi una mano alla pancia per tastare la pelle tirata dai conati di vomito.
«Che diavolo ci faccio ancora qui?», domandò, riportando alla memoria solo in quel momento i fatti della sera precedente.
L’esibizione, Cesare Borgia, i fuochi nel cielo … Era tutto così confuso!
Nella sua testa, il colore dorato delle esplosioni si fondeva con i visi e le risate degli spettatori.
Provò a rimettersi in piedi, stavolta con più successo del primo tentativo.
Il vecchio lo raggiunse per posargli le mani raggrinzite sulle spalle.
«Il padrone ha insistito perché fossi io a occuparmi di voi», rispose, cordiale. «Pare tenere molto alla vostra amicizia.»
Voltandosi verso il giaciglio per recuperare borsello e cintura, Niccolò alzò le spalle.
«Da ragazzo veniva alla nostra bottega», spiegò, mentre si allacciava i bottoni della casacca sul petto glabro. Sua madre gli aveva parlato molto di Luffo Numai ma, nonostante come fossero andate le cose tra le loro due famiglie, non aveva mai usato parole cattive nei suoi confronti. «Mio padre gli insegnava a mischiare gli ingredienti per fare la polvere nera. Detto tra noi, non era un gran studente. Alla prima occasione ha fatto saltare in aria il laboratorio e ciò che di vivo c’era dentro.»
Il vecchio parve incupirsi un poco.
«Vostro padre?», chiese.
«E la sua prima moglie, sì.»
«Vedo che non serbate rancore.»
Niccolò sorrise appena, mostrando il palmo aperto della mano sinistra. Gli mancavano il mignolo e parte dell’anulare, vittime premature del suo primo esperimento nel laboratorio rimesso a nuovo dopo anni di sforzi.
«Sono cose che capitano, quando si fa il mio mestiere», disse, allora, alzando le spalle con fare noncurante.
E noncurante lo era davvero: in fondo, di suo padre non ricordava che la voce. Era troppo piccolo per serbarne altre memorie ma, in tutti quegli anni, aveva fatto in modo di farselo bastare.
«Nulla che non sia capitato anche a me.»
Il vecchio assottigliò lo sguardo scuro.
«Cosa intendete dire?»
Niccolò rimase un istante in silenzio, avviandosi verso la porta prima di afferrare la borsa che qualcuno aveva abbandonato a ridosso del muro.
«Lasciamo il passato ai nostri avi», rispose, sagace. «Andrò a ringraziare Messer Numai di persona. Grazie di ogni cura … come avete detto che vi chiamate?»
Il vecchio corrugò le sopracciglia.
«Cappelletti. Dottor Francesco Cappelletti.»
«Grazie di tutto.»
Soddisfatto, il ragazzo fece per andarsene, ma la voce del dottore lo bloccò sull’uscio, costringendosi a voltarsi verso lo scrittoio.
«Aspettate, Sartori!»
«Sì?»
«C’è una cosa che non vi ho detto.»
Niccolò tirò su col naso.
«Sarebbe?»
«Mentre dormivate, la scorsa notte un uomo è venuto più volte a chiedermi il vostro stato di salute.» Il vecchio fece una pausa, torturandosi con dei gesti nervosi i polpastrelli rinsecchiti. «Ha detto di chiamarsi de Corella e di essere un mandante di Cesare Borgia.»
Niccolò sospirò.
«Dunque il Valentino ora vuole la mia testa per essergli svenuto sui piedi?», commentò, affranto. Cappelletti si affrettò a scuotere il capo.
«Tutt’altro», precisò. «Si è detto alquanto interessato alle vostre polveri.»








Il rumore delle spade che si stavano scontrando nella stanza affianco strappò l’ennesimo sospiro scontento dalle labbra di Vittoria mentre, dinanzi al caminetto con le sue dame di compagnia accanto, la ragazza si accingeva a concludere un lavoro di ricamo di cui andava piuttosto fiera.
«Che vita triste», commentò, affranta, posando ago e filo per rivolgersi a Giacomo.
Il ragazzo, sdraiato su un divano, intento a farsi imboccare scherzosamente da Francesca, si alzò sui gomiti, mancando miseramente un acino d’uva.
«Vittoria, mia bella, che succede?», rispose, mostrandosi addolorato per la sorella.
La ragazza sospirò.
«Cesare Borgia è qui da ieri sera e non mi ha ancora rivolto la parola», confessò. «Non un fiore, un sorriso, uno sguardo. Non capisco, Giacomo: sono davvero così brutta?»
Attorno a lei cominciarono a fioccare i commenti delle sue dame.
«Siete bellissima, Madonna Vittoria», la rassicurò Margherita, posando il libro che fino a poco prima stava leggendo. «Di gran lunga la più graziosa tra le fanciulle di Forlì!»
«Il Duca è comunque un uomo sposato», precisò Francesca. «Può darsi che voglia rimanere fedele al patto stipulato con le nozze.»
«Non andrei di certo a raccontarlo ai quattro venti», ribatté afflitta Vittoria, sprofondando nelle vesti turchesi.
«Sarebbe comunque peccato», commentò Giacomo. «Antico Testamento, Levitico diciotto-venti: “Non avrai relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo per contaminarti con lei”.»
Francesca commentò con un gridolino divertito la sua preparazione in fatto di Scritture e il ragazzo parve ben soddisfatto della sua esposizione.
Vittoria roteò gli occhi.
«Un minimo di interesse sarebbe comunque gradito», bofonchiò. «Persino Guglielmo, ha preso ad ignorarmi.»
Giacomo fece spallucce.
«Guglielmo che ci ignora? Non mi pare poi così strano.»
«Cesare e vostro fratello se ne stanno nell’altra stanza da ore», commentò cauta Simonetta. «Devono divertirsi un sacco, a farsi la guerra con le spade dell’armeria.»
«Sono due ottimi spadaccini», ribatté Giacomo.
«Due uomini di guerra», confermò Vittoria.
Il più giovane dei Numai parve illuminarsi.
«Due uomini», ripeté, annuendo piano mentre con lo sguardo passava da Francesca a Simonetta, le due dame di compagnia più anziane. «Amano due donne, non due ragazze. Se posso dare il mio umile consiglio di uomo di fede, sorella cara, il tuo è fondamentalmente un problema d’età: troppo giovane.»
Vittoria gonfiò il petto.
«Ti rammento che sono più vecchia di te di un anno!», esclamò, offesa.
«E io ti rammento che ho compiuto quindici anni a novembre. Tolto Guglielmo e i suoi modi da matusalemme, Cesare Borgia potrebbe fare da padre a tutti noi.»
Margherita ridacchiò.
«Precoce, ad avere venticinque anni e un figlio di quindici.»
«Margherita!», la rimproverarono subito Francesca e Simonetta.
La dama rise appena, roteando gli occhi quando le sue due compagne le lanciarono addosso un mare di gridolini scandalizzati.
Vittoria si limitò a scuotere il capo con aria divertita e a incrociare le braccia sul petto, mentre Giacomo si portava a sedere più compostamente sul cuscino morbido del divano.
Era incredibile quanto fosse divenuto arguto, a stare in seminario. E dire che, quando era partito, in lacrime e alto neanche la metà di Vittoria, era talmente timido da non riuscire praticamente a rivolgere la parola agli sconosciuti.
Timido e astemio, per la precisione, ma quelle sue peculiarità erano state completamente distrutte dopo i primi due anni a Pisa.
Ormai, del Giacomo che era partito da Forlì non era rimasto che il viso tondo e la mente brillante. Con grande gioia di Vittoria, per inciso, che nel fratello aveva scoperto una fonte di intrattenimento non indifferente.
«Che dovrei fare, in tua opinione?», gli chiese, quindi, certa di ricevere qualche tipo di scherzo di rimando.
Giacomo, invece, parve prendere la faccenda alquanto seriamente.
«Essere una signora», rispose, annuendo piano. «Le ragazzine non piacciono, agli uomini.»
Vittoria scattò in piedi.
Suo fratello aveva ragione, dopotutto.
Chinando appena il capo, si diede della stupida per non averci pensato prima. Chi mai si sarebbe aspettato di poter apparire affascinante con un cesto di ricamo tra le mani?
«So cosa fare», dichiarò, sottovoce, volgendo lo sguardo verso Giacomo. «Dì alla servitù di preparare una carrozza.»
Lui alzò un sopracciglio.
«Posso sapere dove siamo diretti?»
Vittoria strinse le spalle.
«Alla Rocca di Ravaldino.»
Vi fu un istante di silenzio in cui le dame di compagnia spalancarono la bocca e in cui, sbigottito, Giacomo si infilò un dito nell’orecchio, provando teatralmente a pulirlo.
«Temo di aver sentito male», commentò, poi. «Dov’è che stiamo andando?»
Vittoria roteò gli occhi.
«Da Caterina Sforza, alla rocca di Ravaldino!»
«Vorrai dire dal caro Generale d'Allègre che, per inciso, ci taglierà le gambe solo per aver pensato di conferire con Madonna Sforza.»
«Lasciami fare, Giacomo. Trovo che sia un’ottima idea. Ne parlerò immediatamente con Guglielmo!»
Il ragazzo restò impalato dov’era, arricciando appena il naso prima di dare una sonora sberla al bracciolo del divano.
«Al diavolo la carrozza!», esclamò, poi, balzando in piedi per seguire Vittoria verso la porta della stanza adiacente. «Tu, Guglielmo e il Valentino! È come la Messa di Pasqua con il prete ubriaco! Figurati se me la perdo!»
Congedate le dame di compagnia, i due fratelli bussarono alla porta della stanza vicina, attendendo con garbo di venire invitati ad entrare prima di fare il loro ingresso in quella che, solitamente, veniva utilizzata da Guglielmo e i suoi garzoni per tirare di scherma.
Vittoria, ben lontana da tutto ciò che fosse più affilato del suo ago per il ricamo, non aveva quasi mai messo piede in quella sala.
Si stupì di trovarla riscaldata dal caminetto acceso, pulita e ordinata, colma di luce che dalle finestre brillava sul marmo bianco del pavimento.
Da quando ci fosse del marmo lì, per Vittoria era un mistero.
Rimase a contemplare il lastricato per un istante, pensierosa, dopodiché piroettò sulle scarpine color del cielo e si voltò a braccia conserte verso suo fratello Guglielmo, in piedi accanto alla finestra con la spada poggiata alla spalla e la camicia sporca di sudore. Ansimava parecchio, passandosi una mano nei corti capelli neri per allontanare i ciuffi più lunghi dalla fronte corrugata.
Mai come in quella volta, Vittoria lesse negli occhi di suo fratello l’ombra dell’ira.
Si voltò allora verso Giacomo, che nel frattempo si era comodamente seduto sul tavolo con le gambe a penzoloni, e scambiò con lui una smorfia.
«Buon pomeriggio», esordì, poi, muovendo un passo poco convinto verso Guglielmo.
Lui scosse il capo tanto rapidamente che un paio di ciuffi ribelli si scostarono da dietro le orecchie e gli ricaddero sul naso.
«Sorella», mormorò, inchinandosi appena. «Giacomo.»
Dal tavolo, Giacomo emise un suono acuto in segno di saluto.
Vittoria sospirò, alzando la gonna quel tanto che bastava per voltarsi con grazia verso il Valentino, dritto dinanzi al caminetto con le braccia incrociate, e onorarlo con un piccolo inchino.
Lui si avvicinò per prenderle la mano, mai lei lo fermò con un lieve cenno del capo.
«Non vi disturbate», disse, con tono soffuso ma deciso. «Vorrei conferire con mio fratello maggiore e terrei particolarmente alla vostra presenza.»
Quando Cesare Borgia acconsentì alla sua richiesta con un mezzo sorriso, Vittoria respirò a fondo, lasciando che anche Guglielmo potesse avvicinarsi.
«Mia madre si sente sempre più debole», incalzò. «E la casa ha bisogno di una governante.»
Guglielmo annuì con fermezza.
«Ne sono consapevole. Madonna Ricci sarà di ritorno da Roma entro poche settimane.»
«Madonna Ricci ha servito con amore la nostra famiglia, ma non c’è più bisogno di scomodarla. Sua madre è anziana, sono certa che non sopporterebbe di veder partire la figlia. Mi occuperò io della casa.»
Guglielmo Numai non era mai stato particolarmente espressivo, anzi, molte volte Vittoria si era chiesta come potesse essere così bravo a mascherare ogni sua più lieve emozione, eppure, in quell’istante, nulla riuscì a celare lo sguardo di profondo odio che lui le buttò addosso.
Sembrava una minaccia di morte.
Vittoria si sentì avvampare, ma non si scompose.
«So già far di conto, dirigere la servitù non sarà un problema», insistette.
«Sei troppo giovane», decretò Guglielmo e, in altre occasioni, quella sua affermazione sarebbe stata la fine di ogni discussione.
Ma non quel giorno, perché Vittoria non aveva intenzione di demordere.
Così, gonfiando il petto, la ragazza portò le mani ai fianchi, pronta a controbattere con la stessa grinta di suo fratello maggiore.
«Tua moglie aveva la mia età quando nostro padre le ha affidato Palazzo Albertini, eppure casa tua è ancora in piedi!», protestò.
«Hai già le tue dame di compagnia, a cui badare.»
«Il padre di Simonetta la vuole sposa entro l’estate, mentre Francesca è stata promessa in sposa a un pisano. Di certo, tra qualche mese non mi resterà poi molto da tenere sott’occhio.»
Guglielmo roteò gli occhi, guardandosi bene dal dare ulteriori commenti. Scambiò una breve occhiata con Cesare Borgia, dopodiché tornò a concentrarsi su sua sorella, severo come mai prima d’ora.
«E sia», concesse, storcendo il naso. «Ma che ti affianchi Cappelletti, visto che pare l’unico ad avere ancora un po’ di sale in zucca.»
Vittoria sorrise, trattenendosi con fatica dal prendere a saltellare assieme a Giacomo come era solita fare nelle normali occasioni. La voce di suo fratello, infatti, le risuonava ancora in testa: una signora, Vittoria. E le signore, che lei sapesse, non si scomponevano mai.
«C’è un’ulteriore richiesta, che vorrei fare come governante», disse allora, posizionandosi al fianco di Guglielmo per rivolgersi con educazione al Valentino. «Che Messer Cesare il Duca mi accompagni prima di sera fino alla Rocca di Ravaldino, se egli non è occupato.»
Guglielmo sgranò gli occhi. Pareva sull’orlo di dare di matto.
«La Rocca non è luogo consono a una donna, in questo momento», commentò, ma Cesare lo bloccò con alzando la mano e muovendola appena nella sua direzione.
«Cosa dovete andare a fare, alla Rocca di Ravaldino?», chiese, cortese, tanto che Vittoria non poté evitare di arrossire. «È sede dell’esercito francese, in questi giorni.»
«Ne sono conscia.» La ragazza si sforzò di sorridere, sebbene l’imbarazzo le permettesse di muovere persino un singolo dito. «Tuttavia, mi preoccupo per i figli di Madonna Sforza.»
«I figli di Caterina sono sotto la custodia del Generale d'Allègre», fece prontamente presente Guglielmo.
«E non dubito che le sue cure siano degne di quelle riservate a un re», incalzò svelta Vittoria. «Tuttavia, il più giovane degli Sforza, Giovanni, non ha che due inverni. Sono convinta che sia la presenza di una donna, ciò di cui ha bisogno, non quella di un soldato, per quanto esso possa saper far bene il suo dovere.»
«E intenderesti occupartene tu?»
«Io e la balia, certo.»
Guglielmo si portò entrambe le mani al viso.
«Non intendo ascoltare oltre i tuoi deliri, Vittoria», rispose, lapidale, mentre posava al muro la spada per avvicinarsi alla tinozza d’acqua sul tavolo. «Cesare, non prestatele attenzione; mia sorella deve ancora imparare dove sia posto il limite tra realtà e fantasia.»
Il Valentino sorrise, offrendo il braccio alla ragazza con un lieve inchino.
«Invece ammiro molto l’apprensione di Madonna Vittoria», rispose, guardandola in viso con un’espressione per la prima volta rassicurante. «E condivido appieno il suo punto di vista; un figlio ha bisogno di una madre. Perciò, contate pure sulla mia presenza, Vittoria. Vi accompagnerò da d’Allègre seduta stante.» Sorrise di nuovo, stavolta socchiudendo gli occhi per un istante. «A meno che Guglielmo non voglia continuare il nostro duello.»
Guglielmo si accigliò, scambiando con Giacomo un’occhiata seccata prima di sospirare e accennare un sorrisetto tirato.
«Mio fratello Giacomo vi sostituirà», rispose, con una punta di perfidia nella voce roca.
Giacomo strabuzzò gli occhi.
«Accidenti, no!», protestò, ma nessuno gli diede retta.
Vittoria sbuffò con leggerezza, stringendosi con grazia al braccio di Cesare Borgia prima che questi prendesse a camminare con passo bonario verso la porta.
«Avete uno straordinario talento nel far innervosire vostro fratello», le sussurrò lui, senza mascherare un certo divertimento.
«No», rispose Vittoria, accennando una smorfia rallegrata. «Mio fratello ha uno straordinario talento nell’innervosirsi da solo!»
Risero assieme, accostandosi per un istante alla porta prima di abbandonare la stanza con il pavimento di marmo bianco per tornare in quella dove poco prima le dame di compagnia si godevano un intero pomeriggio d’ozio.
L’ultima cosa che Vittoria udì prima che l’uscio le si serrasse alle spalle, fu lo scrosciare dell’applauso che Giacomo riservò a quell’uscita di scena.


Note d'autore


Buonasera!

Volevo pubblicare il capitolo ieri ma poi mi sono persa nei meandri dell'oscuro fandom de Les Miserables e non sono riuscita a riemergere in tempo per finirlo! :(

Ho rimediato oggi.

Dunque, nelle note di oggi volevo spiegare un po' la faccenda della tetrodotossina, quello che forse ricorderete come il "veleno del tritone" e che ai giorni nostri è più famoso come "veleno del pesce palla". Si tratta di una potente neurotissina che pura risulta cento volte più potente del cianuro (è stata sintetizzata soltanto nel 1900 e, a dire il vero, il primo caso documentato della sua esistenza si ha soltanto nel corso del '700). Presente nel tritone, appunto, ma anche in moltissime specie di pesci e mammiferi, viene solitamente prodotta da alcuni bateri.

La massima concentrazione di tetrodotossina si ha nel fegato dell'animale che, se ingerito, risulta letale (non nel caso di animali piccoli come il nostro tritone, naturalmente). I sintomi di avvelenamento si manifestano in media dopo 2-3 ore e comprendono emicranie, giramenti di capo, vomito, paralisi.

La morte, che in genere arriva dopo 5-6 ore, avviene per soffocamento.

Ad oggi, non esistono antidoti efficaci al 100%, sebbene nei casi meno gravi venga praticata la lavanda gastrica (o, come nel caso di Niccolò, un bel po' di acqua e sale). 

Detto questo vi saluto, per oggi ho finito le lezioncine prese da Wikipedia °-°/


Tanti abbracci,

Lechatvert


   
 
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