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Autore: Daisy Ross    27/03/2014    2 recensioni
"«Noi siamo soli, Gale» disse, tracciando dei piccoli segni sul terreno con le dita sottili. «Anzi, per la verità, credo che tutti in questo posto lo siano. E’ come…qualcosa che c’è nell’aria. Come una sorta di infelicità. La respiriamo, come se fosse ossigeno, ma invece che darci la vita ci distrugge ogni singolo giorno che passa.»"
One Shot; 4.000 parole; Gale/Madge♥
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Madge Undersee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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I personaggi di questa storia non sono di mia proprietà, in quanto appartenenti a Suzanne Collins.
Il racconto è scritto senza alcuno scopo di lucro.
 


Alone
 
 
Nonostante fosse ancora la pausa pranzo, la sala mensa era quasi vuota. Le trasmissioni erano ricominciate e, da qualche parte, in qualche classe, Madge era sicura che avrebbe trovato ancora qualche studente che, come lei, cercava una scusa per evitare di dover stare a guardare ventiquattro innocenti massacrarsi sul maxischermo della piazza, rigorosamente in diretta.
Ho dimenticato la penna.
Mi sento male, devo andare a casa.
Non ho finito il pranzo.
Ah, quella era la sua scusa preferita. Non ho finito il pranzo. Andate pure senza di me. Vi raggiungerò dopo.
Non che avesse davvero qualcuno che la aspettava. Era sempre sola, Madge. A volte si sentiva così vuota che pensava di essere stata abbandonata perfino da se stessa.
In teoria i Giochi si dovevano guardare obbligatoriamente, in pratica i Pacificatori chiudevano un occhio la maggior parte delle volte: così, senza la minima intenzione di recarsi davvero in piazza, Madge abbandonò la forchetta sul suo piatto e fissò quell’ultimo pezzo di carne che le rimaneva da inghiottire. Non era completamente cotto, forse, per cui poteva scorgere qualche bagliore rossastro di sangue raffermo. Le si rivoltò lo stomaco pensando a un’immagine simile ma, al contempo, completamente diversa: la ragazza che, nei Giochi, il primo giorno era stata praticamente fatta a pezzi da un grosso e spietato ragazzo del Distretto Due. Le venne da vomitare e sentì l’irrefrenabile bisogno di sbarazzarsi di quel pezzo di carne il più in fretta possibile. Si avvicinò a uno dei cassonetti e vi buttò il contenuto del piatto con una smorfia di disgusto e orrore; quando si allontanò, si permise di tornare a respirare, e inspirò a pieni polmoni una boccata d’aria per un lungo momento.
Poi afferrò velocemente le sue cose, si guardò attorno e rimase piuttosto sorpresa di scorgere una sagoma scura poco lontano, visto che era stata piuttosto convinta di essere sola. Un ragazzo alto e robusto era appoggiato al muro qualche metro più in là, e dal modo in cui la fissava –ed era inevitabile che stesse guardando proprio lei, visto che loro due erano le sole anime vive lì dentro- pareva che fosse in procinto di darle una bastonata in testa. Aveva i lineamenti contorti e deformati dalla rabbia, e forse per questo o forse perché in quel momento era semplicemente troppo confusa per poter ragionare lucidamente, lo riconobbe con un secondo di ritardo.
«Che stai facendo?» la aggredì Gale Hawthorne, e quando la sua voce le giunse dura e forte all’orecchio, Madge capì che era molto più vicino di quanto non avesse creduto prima. Ora, mettendo a fuoco, mentre la sua mente riacquistava un po’ di prontezza, lo poté é vedere chiaramente, dritto e muscoloso davanti a lei, che le sbarrava la strada con la sua corporatura massiccia.
In confronto a lei sembrava una montagna. Madge abbassò lo sguardo e non disse nulla.
«Che stai facendo?» ripeté lui, probabilmente pensando che non lo avesse sentito. «Ti hanno mangiato la lingua?»
«Niente» ribatté Madge. Era un sussurro appena udibile. Avrebbe voluto che la sua voce suonasse forte e decisa come quella di lui.
«Davvero?» il ragazzo incrociò le braccia e la fissò con aria accusatoria. Madge stavolta corrugò la fronte. Lei non parlava mai con Gale Hawtorne – o, per meglio dire, non parlava mai con nessuno. Ma le poche volte che le era capitato di scontrarsi con lui, aveva ricevuto solo sguardi carichi di palese disprezzo.
Ma loro non si conoscevano nemmeno. Gli aveva fatto qualcosa di male? No, non ricordava di avergli fatto nulla. Certo, a parte il fatto che lei era mediamente ricca e lui arrancava per non far morire di fame la sua famiglia. O magari la questione delle nomine. O forse semplicemente per il fatto che, al posto di Katniss, sarebbe potuta esserci lei, in quel momento, a combattere per la sua vita.
Madge credeva in cuor suo che quelli fossero tutto sommato dei motivi piuttosto validi per avercela con lei. Le cose non sarebbero dovute andare così. Ma lei, lei che colpe ne aveva? Che cosa avrebbe mai potuto farci?
«Ti ho vista» ribadì Gale, e la guardò come se fosse un particolare tipo disgustoso di animale.
«Scusa?» fece lei, leggermente interdetta.
«Lo sai benissimo di che parlo» sibilò lui, e le si avvicinò con un’espressione tutt’altro che benevola. Madge arretrò istintivamente, ma invano: dietro di lei c’era solo il muro.
«Che diavolo ti viene in mente, eh? C’è chi muore di fame, là fuori, e tu…tu…»
Lasciò cadere il discorso, lanciandole un’altra occhiata carica d’odio. Madge poteva quasi sentire il cuore di Gale battere furiosamente, il sangue pulsare nelle sue orecchie; avvertì il rancore bruciante che doveva in quel momento scorrere nelle vene del ragazzo come una droga, ne sentì l’effetto, quasi come se lo stesse provando lei stessa.
Sentì qualcosa dolere all’altezza del petto e capì che era senso di colpa: lui aveva ragione.  Che stupida era stata. Certe volte, proprio come in quel preciso istante, si sentiva così piccola. Abbastanza ingenua da non capire subito quali conseguenze avrebbero seguito le sue azioni, su cosa –o meglio, su chi tutto ciò che faceva si sarebbe andato a riscontrare.
Lui aveva ragione, eppure il modo in cui la stava guardando, come se non meritasse nulla di più che una manciata di disprezzo, la faceva innervosire e intristire al tempo stesso. Per cui, dopo un attimo, rispose lentamente: «Non sono affari tuoi.»
«La gente che muore è affare di tutti» replicò lui, secco.
Madge riuscì finalmente a guardarlo in faccia: era nero di rabbia. Gli rivolse un’occhiata risentita, resistendo all’impulso di accasciarsi a terra, poi si voltò e fece per aggirarlo, per andarsene, ma lui le bloccò il polso con una stretta ferrea e la trascinò nuovamente davanti a sé. Madge lottò, ma lui era inesorabilmente dieci volte più forte.
«Lasciami» sibilò, e si sorprese di quanto la propria voce suonasse spaventata. Era spaventata. Lui la fissò interdetto, la mano ancora stretta attorno al suo polso; poi la liberò di scatto, allontanandosi come se avesse preso la scossa. Madge restò immobile, la bocca asciutta, lo sguardo atterrito.
E, prima che lui potesse dirle o farle qualcos’altro, era già corsa via, imboccando un corridoio laterale e sparendo dietro l’angolo.
 
 ***
 
Il profumo di selvaggina fresca era come nettare divino in quella casa. I suoi fratelli, entrambi piuttosto bassi e gracili, fissavano l’animale squarciato che giaceva sul tavolo da cucina con aria sognante. Gale immaginò di vedere anche un rivolo di bava uscirgli dalla bocca.
Continuare ad andare nei boschi era l’unica cosa che gli piaceva davvero fare. Cacciare era la parte migliore, perché non dovevi pensare: c’erano solo lui, gli alberi, i cinghiali e nient’altro. Niente rumori.
Niente emozioni.
Gale staccò a malincuore una buona parte di carne dalla carcassa del coniglio e, sotto lo sguardo mortificato dei due fratelli, la sistemò nella sua sacca, pronta per essere venduta prima che si fosse fatta cattiva, quindi impossibile da mangiare. Be’, magari per quelli dei quartieri alti che potevano permettersi di comprarla: al Giacimento, nessuno avrebbe arricciato il naso di fronte ad una carcassa non completamente fresca.
Uscì sbattendosi la porta alle spalle, e si incamminò verso la casa del sindaco Undersee a passo di marcia. Immaginò che Katniss fosse lì, e sentì immediatamente un grande vuoto all’altezza dello stomaco.
Lascia stare. Scacciò via ogni pensiero scuotendo la testa con irruenza.
Il retro della casa del sindaco era più grigio e spoglio di quanto ricordasse. Suonò il campanello due volte, la mente già rivolta a cosa ne avrebbe fatto dei soldi una volta venduto l’animale: lacci per le scarpe, pane raffermo e magari anche un po’ di zuppa, se Sae la Zozza era in vena di gentilezze.
Quando la porta si aprì, Gale arricciò il naso in una smorfia di disprezzo; Madge Undersee, con i lunghi capelli biondi intrecciati in un’acconciatura complicata, lo squadrò con evidente sorpresa per qualche secondo, poi notò la sacca che lui teneva saldamente tra le mani, e rilassò le spalle.
«Mio padre non c’è» disse, e il suo viso divenne improvvisamente indecifrabile. Forse, come lui, stava ricordando l’episodio di qualche giorno prima.
Gale iniziò a spazientirsi: non aveva molto tempo prima che la carne imputridisse, ma fortunatamente c’era il freddo di quel periodo a dargli man forte. Come se gli avesse letto nel pensiero, Madge parlò di nuovo, stavolta in tono cauto e misurato: «Faccio io» disse, «quanto viene quello?» indicò la sacca.
Gale emise un suono strano, all’incrocio tra una risata sarcastica e un gemito d’impazienza. «Tu non sai contrattare. Lascia perdere, torno quando c’è-»
«No» insistette Madge, aggrottando la fronte. «Tu sei qui per vendere, io per comprare. Non vedo quale sia il problema. Ma se preferisci andartene senza niente, allora fa’ pure…»
Gale rimase zitto per un istante. «Va bene» acconsentì alla fine, quasi ringhiando, ma i suoi occhi tradivano ora un certo divertimento mal celato. «Fanno venti monete, per questo. L’ho cacciato questo pomeriggio. E’ freschissimo» aggiunse, aprendo la sacca e piazzandogliela praticamente sotto il naso.
Madge si lasciò sfuggire una smorfia. «Sì» disse, facendo un passo indietro. «Ci credo». Sparì un secondo all’interno della casa e, da quel poco che si scorgeva attraverso il vano della porta socchiusa, Gale intravide pareti pitturate di un giallo opaco e un tavolino di legno intagliato. C’era un caminetto, sul fondo –ne distingueva il bagliore intenso delle fiamme- dal quale proveniva del calore invitante.
Madge ricomparve e gli piazzò in mano i soldi. Anche le mani di lei erano calde, e piccole, molto più piccole delle sue.
Gale, suo malgrado, sorrise. Dal sindaco avrebbe ottenuto molto meno di venti falci per un coniglio selvatico, nonostante ultimamente si mostrasse un po’ più generoso del solito con lui e gli altri del Giacimento. Accadeva sempre, durante gli Hunger Games.
La ragazza indugiò ancora per un momento sulla soglia della porta, e lui ne approfittò per tirare fuori dalla sacca dell’altro: le ultime fragole della stagione, raccolte poco prima, che si era messo da parte con minuziosità per lui e i suoi fratelli, almeno per una volta. Rifletté però che sarebbe stato meglio garantirgli pane in più e della legna per il fuoco, piuttosto che uno spuntino gradevole al palato che non li avrebbe di certo sfamati davvero.
«Di’ a tuo padre che le ho raccolte apposta per te» ironizzò porgendogliele.
Madge arricciò la bocca, come se stesse facendo del suo meglio per trattenere una risata. Afferrò un’altra manciata di monete da un sacchetto che adesso teneva appeso al collo e gliele porse, tendendo l’altra mano nella quale Gale mise la sacchetta delle fragole.
Il ragazzo la osservò, ora, con una certa curiosità: lei continuava ad indugiare sulla porta senza un apparente motivo, il volto di nuovo privo di qualsiasi espressione e il vestito leggero appena smosso dal vento. Prima che potesse chiedersi cosa diavolo aspettasse a rientrare in casa, la risposta gli giunse alla mente come un lampo di genio: era così ovvio. Tipico di una come lei.
Si aspettava delle scuse da parte sua per ciò che era accaduto nella mensa. Magari credeva che le avrebbe anche portato un mazzo di fiori e si sarebbe prostrato ai suoi piedi per ottenere perdono.
La rabbia gli attraversò improvvisamente il corpo come una scossa elettrica, digrignò i denti e le lanciò un’occhiata rabbiosa. Se davvero si aspettava che….se pensava sul serio che fosse lui quello nel torto…
Madge lo fissò per un attimo, poi aprì la bocca per dire qualcosa; a quel punto Gale girò i tacchi e se ne andò velocemente, prima che potesse dire o fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Maltrattare la figlia del sindaco proprio davanti casa sua non era proprio una delle idee migliori del secolo, e se la sua impulsività gli era enormemente d’aiuto con la caccia, non l’avrebbe esattamente aiutato in una situazione come quella.
E Gale era troppo, davvero troppo impulsivo, alle volte quasi fuori controllo.
Katniss glielo diceva spesso, soprattutto negli ultimi tempi: e mentre ci pensava, e tentava di non ribollire nella sua stessa rabbia, non si accorse della porta ancora aperta nella casa del sindaco, né dell’espressione sconcertata della ragazza sulla soglia e né, tantomeno, di quel flebile: «ci vediamo, allora», che questa aveva sussurrato al vento.
 
 ***
 
 A Madge piaceva ascoltare e alle persone piaceva parlare con lei.
Se fosse stata un po’ più eloquente, forse, avrebbe anche avuto tanti amici: tutti avevano bisogno di qualcuno che stesse a sentire i loro problemi, in fondo, e lei era esattamente la persona più indicata per questo.
A Madge piacevano le persone, ecco tutto. Le piaceva osservare gli altri, anche se da lontano, e cogliere al volo i loro pensieri, le loro emozioni. Le piaceva sedersi in un angolino della classe fingendo di prendere appunti e studiare invece silenziosamente gli altri studenti, cercando di capirli e di intuire le sfaccettature dei loro caratteri, quelle che mostravano con orgoglio e quelle che, invece, nascondevano più scrupolosamente.
Le piaceva particolarmente anche tentare di comprendere più a fondo, per quanto le fosse possibile, la sua compagna di banco. Ma la sua compagna di banco in genere era Katniss, e adesso non c’era più.
Nel posto che avrebbe dovuto occupare (o che, perlomeno, occupava molto di frequente), c’era solo una sedia vuota, un banco freddo e una qualche sorta di aurea mistica che portava tutti gli altri a gettare, di tanto in tanto, un’occhiata in quella direzione.
A Madge piacevano le persone, ma non parlava quasi mai con nessuno.
Le piacevano anche la primavera, il profumo della carta, l’inchiostro blu, i fiori rossi, le fragole e gli occhi scuri. Le piaceva sentirsi libera, ma la libertà era una sensazione che non provava ormai da molto tempo.
Le piaceva ascoltare la voce calda e confortante di suo padre, ma non aveva occasione di ascoltarla spesso, così come non le capitava di frequente di chiacchierare con sua madre, che se ne stava sempre chiusa nella sua stanza a lasciare che la sua emicrania la schiacciasse sotto il peso del dolore.
Le piaceva lasciarsi andare, non provare nulla, o provare tutto in un modo talmente intenso da non lasciarle il tempo di assorbirne l’impatto.
Le piaceva andare a sdraiarsi su quel piccolo, unico pezzetto di prato che sopravviveva ancora all’interno dei confini del Distretto 12, sulla collina, appena prima della rete metallica che li chiudeva tutti in quel recinto di fame e morte.
Le piaceva anche raccogliere quei pochi fiori che vi crescevano, alimentati da chissà quale forza vitale, proprio come stava facendo ora. Di solito, si portava dietro una cesta di vimini per contenerli, ma stavolta aveva pensato che fosse più divertente intricare i loro gambi nei suoi lunghi capelli chiari, un po’ qua e là, a mo’ di buffe decorazioni.
Ne prendeva uno e se lo sistemava sulla testa mentre guardava il sole assopire all’orizzonte e pensava a come fosse bizzarro che un paesaggio così bello come quel cielo ne sovrastasse uno così tremendo come quello del suo distretto.
Quando sentì un rumore provenire da poco lontano, il sole era già calato e il cielo cominciava ad imbrunire.
Gale Hawthorne non la stava guardando. Aveva appena varcato la recisione con una mossa agile, nonostante l’enorme sacco che portava sulle spalle, e ora si avviava con decisione nella sua direzione, da dove una stradina –la stessa che aveva preso lei- portava direttamente all’interno del distretto senza dover passare dalla piazza principale.
Quando le fu più vicino, il suo sguardo indugiò inevitabilmente su di lei per una manciata di secondi, e si fece subito più cupo; poi la superò senza dire nulla.
Madge si chiese se un po’ di ciò che quel sacco conteneva sarebbe finito sulla sua tavola quella sera o se Gale, di tanto in tanto, cacciasse solo per se stesso.
Seguì  il profilo del ragazzo con lo sguardo per un po’, poi, senza averlo nemmeno lontanamente premeditato, e abbastanza forte perché lui potesse ancora sentirla, disse: «Tu non mi conosci.»
L’aveva sentita, sì. Ne fu certa quando lui interruppe la sua camminata brusca, quasi a passo di marcia, e si voltò a guardarla con irruenza. Non era poi così distante, in realtà.
«Credi di conoscermi, ma non sai nulla di me.»
Gale non disse niente. Le rivolse uno sguardo concentrato per un secondo, la fronte aggrottata in mille righe sottili, e le sue labbra si contrassero in una smorfia contrariata.
Poi si voltò di nuovo e s’incamminò verso il Distretto con aria irrequieta.
 
***
 
Passò una settimana prima che Madge tornasse al prato, e una settimana prima che Gale la incontrasse di nuovo.
Stavolta, lei non gli disse nulla, così fu lui a fermarsi di sua spontanea volontà di ritorno dalla caccia. Nemmeno lui fu di grandi parole. La osservò, con lo stesso cipiglio concentrato che le aveva rivolto la volta prima, e parve per un attimo indeciso su qualcosa. Poi scosse la testa, la superò una seconda volta e di nuovo se ne andò senza dire nulla.
Trascorsero tre giorni ancora e la rivide, stesa sul prato con i fiori tra i capelli e i piedi nudi. Quando si accorse di lui, Madge inclinò la testa e con fare pensieroso gli disse: «Ciao.»
Ma Gale fece un cenno del capo e sparì anche quella volta.
Dopo altri quattro giorni, infine, Gale si fermò davanti a lei e si decise a prendere posto nell’erba lì vicino, posando la pesante sacca accanto a lui.
Madge parve soddisfatta quando lo vide sedersi, ma rimase in silenzio, osservando i suoi movimenti con cauto interesse.
Per qualche minuto regnò il silenzio, ma alla fine fu Gale a spezzarlo, bruscamente, come in preda ad un impulso trattenuto per troppo tempo.
«Che ci fai qui?»
Madge parve sorridere per un attimo a quelle parole, ma poi la sua espressione si fece indecifrabile come sempre: «Penso.»
Gale aggrottò la fronte. «E senti la necessità di venire fin qua per pensare
«Qui è tranquillo» replicò lei placidamente, «mi aiuta a riordinare la mente.»
Gale tacque e Madge pensò che parlare con lui poteva risultare facile, in fondo, quasi liberatorio, finché non si chiudeva nel suo ostinato mutismo, e allora azzardare una parola diventava quanto mai difficile e terribilmente imbarazzante.
«E’ anche mia amica» disse allora, forse un po’ troppo velocemente, «Katniss, voglio dire. E’ anche mia amica, e non pretendo di capire come ti senti, ma so come mi sento io e non è per niente piacevole. Io…possiamo parlare, qualche volta. Se ti va.»
Le parole le erano uscite di bocca prima che potesse fermarle e ora erano là, che galleggiavano nell’aria tra di loro, e Madge ebbe tutta l’impressione che lui le stesse valutando e, soprattutto, che stesse valutando lei.
«Non credo avremmo molto da dire» osservò Gale infine, circondando le ginocchia con le braccia e portando lo sguardo dritto di fronte a sé.
Madge si tirò un poco su per poggiare tutto il suo peso sui gomiti e poterlo guardare meglio. «Allora non diremo niente» replicò, «staremo solo assieme.»
Gale emise un suono a metà tra una risata e uno sbuffo, così lei sospirò e si mise definitivamente a sedere con aria pensierosa.
«Noi siamo soli, Gale» disse, tracciando dei piccoli segni sul terreno con le dita sottili. «Anzi, per la verità, credo che tutti in questo posto lo siano. E’ come…qualcosa che c’è nell’aria. Come una sorta di infelicità. La respiriamo, come se fosse ossigeno, ma invece che darci la vita ci distrugge ogni singolo giorno che passa.»
Lui la guardò per un po’ senza dire nulla. Aveva dei tratti delicati, Madge, e un paio di occhi blu grandi ed espressivi.
«Siamo giocattoli rotti» continuò lei, inclinando la testa per osservare con un sorriso il disegno del piccolo fiore, che aveva solcato nella terra umida accanto ai suoi piedi, «siamo stati usati e poi gettati e aspettiamo che qualcuno venga ad aggiustarci. Ma nessuno potrebbe mai riuscirci completamente, perché essere soli ormai è nella nostra natura» concluse, con la semplicità spiazzante di una bambina.
Gale la guardò e si chiese se per caso non parlare con qualcuno per tanto tempo l’avesse portata ad impazzire. Eppure, se così facendo lei era diventata pazza, allora doveva esserlo anche lui. Quant’era che non portava a termine uno straccio di conversazione con qualcuno?
Be’, in effetti, c’era una data precisa stampata nella sua mente, e risaliva ad preciso giorno, in un preciso momento.
«Tu dici che io non ti conosco» protestò, alterandosi improvvisamente, «ma  parli come se sapessi tutto di me. Nemmeno tu mi conosci.»
«Non è così» replicò Madge, «non credo di sapere qualcosa di te. Credo che siamo simili. E’ diverso.»
Gale emise una risata sprezzante molto simile a un latrato. «Simili? Sul serio?»
«Non nel senso che intendi tu, comunque» ribatté lei con calma, «io non parlavo di averi, o famiglie, o possibilità o quant’altro», il suo sguardo s’incupì per un istante per poi tornare a frasi chiaro e riflessivo come prima.
«E allora di cosa parlavi?» chiese bruscamente Gale.
Lei si stese di nuovo, districando uno dei fiori dai capelli e rigirandoselo tra le dita per un po’. «So di non piacerti tanto, Gale Hawthorne» disse, «ma essere soli in due è un po’ meglio che essere soli da soli
Si alzò, ripulendo in fretta il vestito dall’erba e dalla terra, gli rivolse un’occhiata pensierosa e poi tornò sui propri passi, incamminandosi verso casa. Gale la seguì con lo sguardo finché non sparì oltre le mura delle case.
 
***

Madge Undersee: calma, gentile e coraggiosa. La ragazza che aveva dato a Katniss la spilla che le aveva poi dato un nome.
Carina, buffa, spietatamente sincera. Forse un po’ troppo silenziosa, ma pur sempre di buona compagnia.
Inaspettata. Completamente.
«Credo che potresti provare» disse, smettendo per un momento di suonare. Le sue dita erano state agili e sicure sul pianoforte, ma allo stesso tempo anche sorprendentemente delicate, eleganti nel volteggiare da una nota all’altra con mera maestria.
Gale storse il naso e si issò saldamente su una sedia, a debita distanza dallo strumento.
«Credo che dovresti continuare» ribatté, riponendo la selvaggina che aveva portato quella mattina in una sacca sul pavimento.
Madge scosse piano la testa, ma Gale avrebbe potuto giurare di averla vista sorridere. Riprese a suonare e lui s’incantò ad ascoltarla per un po’, finché non parve ricordarsi che quella era Madge, che era in casa sua e che aveva dell’altro cibo da vendere e delle bocche da sfamare.
 

Madge Undersee: insicura, quieta, paziente.
Gale la osservò con attenzione mentre insegnava a suo fratello come montare la piccola locomotiva giocattolo che gli aveva portato. Era rosso fuoco, proprio come le sue guance in quell’istante, consce forse dello sguardo di lui.
«Puoi tenerla, se vuoi» aveva detto Madge con un sorriso.
Il bambino aveva esitato; poi l’aveva guardata con gioia e infine le era praticamente saltato addosso tentando di abbracciarla. Lei aveva riso e si era lasciata abbracciare.
 

Madge Undersee: bizzarra, sincera, decisamente poco loquace.
«Devi mettere più forza nelle braccia» spiegò Gale con una certa impazienza.
Madge alzò di nuovo l’arco, anche se con un po’ di fatica: la fragilità delle sue ossa piccole iniziava a farsi sentire, e lei non era poi così abituata a fare sforzi di alcun genere. Tese la corda e respirò profondamente, cercando di mantenere quell’equilibrio perfetto per il più tempo possibile. Poi scoccò.
La freccia si conficcò tre alberi dopo quello designato come bersaglio.
Gale sbuffò e si fece precipitosamente più vicino. Madge afferrò immediatamente una nuova freccia e fece per tendere di nuovo, ma lui le fu dietro con un movimento agile e le circondò le braccia con le proprie, posizionandola in modo migliore.
Madge non ebbe nemmeno il tempo di irrigidirsi: fu un solo attimo, e poi Gale si scostò con la stessa irruenza con cui era arrivato. «Così va meglio» le disse, il volto privo d’espressione.
Lei non lo guardò, per rimanere concentrata sul bersaglio. Scoccò ancora una volta, e mancò il bersaglio di un paio di metri.
Quando si voltò verso Gale, il suo viso era luminoso di gioia.
 

Madge Undersee: dolce, leggera, veloce.
Sola, seduta al tavolo della mensa in compagnia del suo vassoio e di un libro dalla copertina sgualcita. Gale la vide e le si avvicinò prima che il suo cervello potesse realmente prendere una decisione su cosa fare. Si abbandonò con la sedia accanto alla sua, senza una parola, e iniziò a divorare il suo pranzo velocemente.
Madge, d’altro canto, non fece una piega. Si limitò a osservarlo con curiosità per un po’, per poi dichiarare: «Sei un ragazzo strano, Gale Hawthorne», sorridergli e continuare il proprio pranzo come se nulla fosse.
 

Madge Undersee: piccola, fragile, ma anche sorprendentemente forte.
Posò le sue labbra su quelle di lui in un gesto avventato, inaspettato per entrambi. Nessuno dei due capì cosa stesse davvero succedendo finché Madge non carezzò con una mano il viso di Gale, così lui ricambiò la pressione sulla sua bocca e restarono così, per qualche tempo, in un groviglio di fiamme e polvere, cenere e ossa, nel vortice di qualche emozione sconosciuta.
 
 
Madge Undersee: confusa, pallida, bellissima.
Gale pensava che lo fosse davvero, mentre la guardava dormire. Aveva un buon profumo, sapeva di fragole, come le sue labbra e i suoi capelli. Aveva le guance rosse anche quand’era assopita, il seno nudo sotto la coperta e un braccio stretto attorno al suo, e una piccola e graziosa curva sul naso. Aveva gambe e braccia esili e dei fianchi piccoli e gracili. Aveva un grande sorriso, caldo e luminoso, e una voglia a forma di cuore proprio dietro l’orecchio destro, dove le sue labbra, giusto poco prima, avevano indugiato con insistenza.
Aveva qualcosa di tremendamente accecante che attirava Gale come una calamita.
Madge era blu come il cielo e rossa come i fiori che incastrava tra i capelliEra vitalità ed energia. Era conforto, in una vita in cui il conforto gli era sempre mancato. Era amore, amore da donare in quantità infinite, amore puro, innocente, amore senza limiti o pretese.
Madge era vera ed aveva ragione: lui e lei, forse, avrebbero potuto imparare ad essere soli insieme. E sarebbe stato mille volte meglio che essere soli davvero.









NOTE:
E vabbè, insomma, è la prima volta che scrivo nel fandom di HG e devo dire che sono abbastanza emozionata! ^-^
Ho deciso di scrivere questa One Shot perché avevo quest'idea in testa da un po', e perché amo (letteralmente!) questa coppia e sto tutt'ora sclerando perché Oh mio Dio la Collins ha deciso di uccidere Madge! Ma sorvoliamo. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate in una recensione :)
Ah, l'header non è mio (MAGAAAARI ;_;), ma l'ho preso su DeviantArt dalla pagina di stoffdealer, che potete trovare qui.

Detto questo, vi saluto e, data l'ora direi buonanotte :)
Un bacio
Martina
  
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