Storie originali > Nonsense
Ricorda la storia  |      
Autore: RuboLaVitaDentroDiMe    31/03/2014    0 recensioni
Il Big Bang ha creato un universo, ma le esplosioni distruggono sempre qualcosa. Sempre. Ci pensate mai?
America aveva un universo dentro di sé. E un gran bisogno di esplodere.
Ofelia non aveva niente se non America.
Asia solo tante domande.
E le esplosioni distruggono e creano.
1492-tendente-all'infinito: la continua scoperta di una nuova America.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

A Gatto Magro.
Tu sai perché, credo.
Grazie. Davvero.
E poi boh.


1492
(How to make a universe)

 

17 Anticicloni e un paio di Lacrime,
anno 1492-tendente-all'infinito,
un Dove che non dovrebbe esistere.
Chiudete gli occhi per non sentire.
Tappatevi la bocca per non vedere.

 

C'era un intero universo da scoprire, dentro di lei.
Stelle che nascevano, bruciavano e si spegnevano come candeline su una torta; buchi neri che risucchiavano tutta la felicità in un pop! sordo come lo schiocco di una gomma masticata troppo a lungo; Vie Lattee di soia, perché probabilmente si erano scoperte intolleranti a quello vaccino; meteoriti in rotta di collisione con sogni usurati, protagonisti per una notte, pronti ad essere demoliti l'anno luce seguente; Sistemi Operativi-Solari di pianetucoli che ruotavano attorno ad un obiettivo comune con le loro orbite romboidali – e si sa, quando si arriva agli angoli sono cazzi – e che attendevano solo un comandante disposto ad urlare il suo comizio, per poter ridefinire il tempo di rivoluzione.

E tante persone. Persone ovunque. Vite in ogni spazio, che succhiavano un po' della sua.
C'erano politici che urlavano le loro promesse vuote ad una folla di piccioni indifferenti, uno spazzacamino con lo sguardo fuligginoso puntato sull'aurora australe, nel cielo devastato di un emisfero che non poteva vedere, una folla di bambini con le dita di lecca-lecca e le bocche di marzapane, qualche povero Cristo inchiodato ad una croce con il corpo appassito e i pensieri disidratati, un paio di adulti disinformati sul domani e altrettanti anziani dimentichi di ieri.
Le piaceva pensare che sua madre avesse intravisto quella immensità che si nascondeva tra le iridi scure, bucando le palpebre strette a buccia di prugna, quando l'aveva presa in braccio in quella stanza d'ospedale grigia come il cielo di Febbraio, per la prima, ultima e unica volta.
Sapeva che doveva essere stato troppo per lei, che tutto quel suo mondo interiore, intento a muovere i primi passi già allora, doveva averle messo paura e, in fondo, quando si è tanto giovani, un mondo a cui dover pensare è già abbastanza, anche senza la prospettiva di doversene accollare un altro.
Ecco, le piaceva pensare a sua madre proprio così: una sedicenne squattrinata che aveva deciso con un respiro profondo e un rimpianto grattato via con la spugnetta abrasiva di dare in adozione la figlia, ma di volerle dare anche un nome, per lasciarla uscire dall'ospedale con una identità appena abbozzata e una famiglia che riuscisse a non perdersi dentro di lei.
Forse aveva pensato al grande vuoto che c'era da riempire in quel corpo così piccolo, forse aveva cercato fra le mille e sette parole che ballonzolavano nella sua mente una che si avvicinasse di qualche miglio alle infinite praterie di quell'anima bambina, al grande sogno di un futuro. Un nome che potesse darle una bussola, anche smagnetizzata, con l'ago impazzito che puntava il Sud.
Non ci era andata nemmeno lontanamente vicina.
Ma America apprezzava il tentativo.

 

Un giorno chiese quale fosse la cosa più utile del mondo.
Ci misero un po', per trovare qualcosa da dire.
Le risposte, le dissero alla fine, tutti esitanti.
Lei scosse la testa e sputò a terra. Non capite un cazzo, disse. A cosa vi servono delle stupide risposte se non vi fate nessuna domanda? Davvero siete così ansiosi di sapere, ma non di chiedere?
Beh, dissero loro, dopotutto che cosa te ne faresti, altrimenti di tutte le tue domande se nessuno di desse una risposta?
Davvero, non capite? Facciamo così, allora: voi tenetevi le vostre risposte. Io continuo a farvi domande. Se vi va di prendere la parte peggiore del mondo, io non farò nulla per fermarvi.
Ma di sicuro la notte piangerò per voi e vi lascerò qualche punto interrogativo sul comodino.

 

America cresceva.
Ed è semplicemente orribile condensare una vita in due parole, ne convengo, ma al giorno d'oggi essere coincisi paga e, dopotutto, pure lei ha il diritto di avere i propri momenti di privacy, almeno al gabinetto. Senza parlare del fatto che, se descrivessimo la segnaletica di tutte le strade percorse, la composizione delle proteine di ogni piatto assaggiato e tutte le alte cose importanti che effettivamente dovremmo raccontare, a quest'ora qualche nuovo universo sarebbe nato in sordina senza che noi potessimo goderci lo spettacolo.
America cresceva e il mondo esterno diventava sempre più stretto, mentre quello interno continuava a spingere per potersi espandere oltre l'infinito.
Un giorno, tutto d'un tratto, gli uomini che si nascondevano tra le pieghe del suo intestino avevano scoperto il fuoco e America si era dovuta abituare alla sensazione di calore che la assaliva ogni tre per due all'altezza del basso ventre. Con l'arrivo della scrittura le si era annerita la pipì di tutto l'inchiostro che scorreva a fiumi nelle sue vene e non c'era voluto poi molto, prima che cominciasse a borbottare improperi anche contro le navicelle spaziali, quando quelle si schiantavano contro le pareti della cassa toracica e la mandavano culo all'aria; la bomba atomica l'aveva costretta a letto addirittura per una settimana, ché non riusciva ad alzare nemmeno un dito senza piangere di dolore.
Il diciassette maggio di un anno qualunque c'era stato un grande sciopero mondiale e per il mese seguente tutti avevano continuato ad affiggerle volantini tra le costole; America si era ritrovata a tossire e a sputare fra le dita manciate di puntine accartocciate e brandelli di pamphlet troppo polemici.
Quello che ci interessa sapere è che America viveva fuori almeno tanto quanto viveva dentro, che non si faceva mai una domanda di troppo, che guardava, ma che a volte non vedeva veramente, che aveva un debole per il succo d'arancia e le saponette alla lavanda e che nessuno la conosceva veramente, prima fra tutti lei stessa.
E per la vostra gioia ricominceremo a parlare sommariamente di lei in un punto imprecisato fra i suoi sedici e i suoi ventisette anni, perché era difficile stabilire veramente la sua età: a volte invecchiava di secoli nel giro di qualche battito di ciglia e poi per una decade non cambiava più, aspettando il momento buono per rimettersi in moto.
Semplicemente, seguiva il flusso di maree a tutti sconosciute.

 

Un giorno chiese quanto pesante potesse mai essere una piuma.
Quasi niente, le risposero. In ogni caso, troppo per le tue mani quasi di fumo.
Lei si girò e vomitò. I quasi le facevano sempre questo effetto.
E i sospiri? Quanto pesano, quelli? Quanto cazzo pesano? sussurrò allora, con i capelli di bronzo incastrati fra le labbra di rame, le mani di fumo sulle ginocchia di tabacco e l'anima spalmata in una pozza di cemento.
Tutto, le risposero ridendo. I sospiri pesano tutto. Come fai a non saperlo?
Le si inginocchiò a terra e pianse. I tutto le distruggevano sempre il cuore.

 

Sono le date che sanno di quotidianità, noia e alito cattivo, quelle che con il senno di poi sono inserite nell'album fotografico dei punti di svolta.
A dire il vero non so se la nostra si potesse veramente chiamare un punto di svolta, né se quello fosse un giorno che sapeva di quotidianità, noia e alito cattivo.
Era un giorno. Un giovedì.
Anzi, la verità era che America era piuttosto allegra, aveva fatto scorta di mentine e sentiva che quel pomeriggio sarebbe stato speciale, anche se non c'era una vera ragione per cui dovesse esserlo.
Non era un lunedì di quelli che hai mille cose da fare e corri da una parte all'altra sperando che il mondo si restringa in lavatrice per farti arrivare ovunque, più velocemente.
Non era nemmeno un venerdì di quelli che non hanno meta – perché da che mondo è mondo i venerdì non l'hanno mai avuta – e che ti fanno camminare per ore, per poi lasciarti abbandonato sulla panchina di un parco uggioso, a guardare i passanti e raccontare favole ai pesci rossi.
America aveva una destinazione, anche se non si ricordava bene quale fosse, che poteva raggiungere in tutta tranquillità e che l'avrebbe fatta tornare a casa con il sorriso sulle labbra, una borsa della spesa piena solo per metà e un succhiotto sul collo, impossibile da nascondere con i suoi capelli corti.
Tutto stava nell'attraversare una strada.
Niente metafore filosofiche, chiaro. Doveva solo percorrere le strisce pedonali da una parte all'altra, per rimanere in piedi alla fermata dell'autobus, aspettando un ritardatario arrivo.
Sapete qual è la cosa divertente?
Se America fosse arrivata un'ora prima avrebbe incontrato e conosciuto il signor Egidio Scarpa, infelicemente sposato e padre di tre figli, e si sarebbe data appuntamento con lui tutte le settimane nella stanza di un albergo a due stelle e mezza, tra la settima strada e le promesse di lui di lasciare la moglie, all'incrocio con la certezza di lei che non l'avrebbe mai fatto.
Il caro e vecchio Egidio continuò ad accostare l'auto sul ciglio di marciapiedi punteggiati di ragazze troppo giovani per essere così vecchie. Non divorziò mai. Forse avrebbe dovuto farlo.
Era più semplice così.
Se avesse avuto al braccio la grande borsa etnica con i manici logorati, che la costringeva a camminare più lentamente del solito per non doverla sentire sbattere continuamente contro il fianco, le si sarebbe affiancato un ragazzo con gli occhi di prezzemolo che avrebbe guardato il sole in cielo, le avrebbe sorriso e avrebbe annunciato allegramente che ho dimenticato l'ombrello, signorina. Le dispiace se sto sotto il suo? Non vorrei proprio bagnarmi.
America avrebbe riso, avrebbe imparato ad amare il prezzemolo, avrebbe salvato un nuovo numero nella rubrica del cellulare e, volendo proprio gettare l'occhio lontano, si sarebbe sposata con Gianfelice e avrebbe avuto una vita... beh, felice non si può dire, fa ripetizione col nome del marito, no?
Gianfelice conobbe una certa Mirella, due settimane dopo, ad una conferenza su un libro che aveva letto, ma che non gli era piaciuto veramente. Lei lo aveva adorato. Divenne anche il suo preferito. E un giorno si alzò con l'odore del latte negli occhi e scoprì, da una foto distesa sul comò, che era sposato, proprio con lei e quel libro preferito.
Se si fosse chinata ad allacciarsi le scarpe appena due metri prima dell'incrocio con la panetteria, poi si sarebbe scontrata con una ragazza che veniva di corsa da chissà quale direzione e la sconosciuta sarebbe caduta a terra e avrebbe battuto la testa e America sarebbe stata costretta ad accompagnarla in ospedale e sarebbero diventate amiche e Manuela l'avrebbe portata nel proprio giro e non sarebbe stato un bel giro e America sarebbe finita in riabilitazione in una clinica.
Manuela fu trovata morta in un vicolo l'anno seguente, con una siringa che le sporgeva dalle vene del braccio e lo sguardo puntato sul grande Nulla che l'aveva accolta.
Era stata due mesi in disintossicazione. Non era servito.
Se fosse stata in ritardo di circa venti minuti avrebbe attraversato la strada di corsa esattamente alle 18.57, guardando che non arrivassero auto da destra, ma dimenticandosi della sinistra, e si sarebbe trovata addosso la Micra di Pierpaolo Bassetti, che parlava al cellulare con la figlia riguardo l'eventuale acquisto di un certo nuovo cellulare e che si sarebbe accorto di America solo dopo averla imbarcata sul suo parabrezza.
Non saprei dirvi se sarebbe sopravvissuta o no. Questione di secondi. Uno in più sì, due in meno no.
Ma Pierpaolo Bassetti riuscì a superare quella benedetta fermata dell'autobus. Le cose non cambiarono poi molto: investì un'altra ragazza all'incrocio davanti casa. Lei non sopravvisse. Lui non si riprese. Sua figlia non ottenne il cellulare.
Se invece avesse attraversato in qualunque altro istante tranne quello in cui aveva effettivamente attraversato, America sarebbe arrivata dove doveva arrivare e avrebbe ottenuto il suo bel sorriso, la sua borsa della spesa e il suo succhiotto. Sarebbe stata felice per un po' di tempo, poi lui l'avrebbe fatta soffrire e a suon di anni America si sarebbe trovata maritata con una paura degli uomini decisamente in sovrappeso, aggrappata al suo diaframma troppo saldamente per poterla sputare fuori con un colpo di tosse.
E invece le cose andarono in modo diverso.
Non è che America passasse il suo tempo a struggersi sulla maestosità del caso, però. Forse noi potremmo farlo. Sarebbe comunque piuttosto inutile.
Quello che conta è che alla fine lei abbia attraversato alle 18.32.
È un bene, se lo guardiamo da destra: in questo modo la nostra storia va avanti. Se lo guardiamo dalle altre direzioni è un altro conto, certo. Ma non voglio confondervi.
America attraversò alle 18.32.
E conobbe Ofelia.

 

A voler essere sinceri America non la conobbe proprio quel giorno. Semplicemente, si accorse di lei per la prima volta. E a dirla tutta l'aveva già vista in un paio di altre occasioni, ma non l'aveva mai nemmeno notata.
Sta di fatto, però, che Ofelia quel giorno era andata a trovare sua madre, che abitava al primo piano del condominio color mattone costruito esattamente dietro alla fermata dell'autobus, e si era dimenticata sul tavolo la borsetta con le tre porzioni di lasagne che erano avanzate a pranzo e che probabilmente sarebbero state il suo pasto per i tre giorni seguenti, invece dei soliti bastoncini di pesce scongelati nel microonde. Così una testa bigodinata si affacciò alla finestra e richiamò sonoramente la figlia, che si piazzò sotto il balcone e accolse con le braccia spalancate la sporta di plastica gettata giù dalla ringhiera.
America fu spettatrice della scena e salì sull'autobus, diretta verso il suo succhiotto, con un precoce sorriso sulle labbra.
E forse è questo, il nostro punto di svolta. America arrivò a casa con tutto quello che doveva avere, ma qualcosa in più: il pensiero di qualcuno che non sapeva essere Ofelia.

 

Un giorno si svegliò, tutta sudata, tra un paio di lenzuola che sapeva di vomito e incubi e acqua di rose e sapone di Marsiglia malato di influenza.
Aveva tra i denti la sensazione – tremenda e allo stesso tempo così rassicurante – che quel sonno le avesse strappato qualcosa dal viso, dai polmoni, dallo stomaco e l'avesse lasciata sfregiata.
Allora si guardò allo specchio, solo per essere sicura che le avessero veramente fatto il favore di portarsi via qualcosa.
Non era così.
Tutta quella carne inutile era ancora al suo posto.
Perché esisti? chiese a quella figura emaciata che la fissava con un irritante sorriso storto. Dopotutto non hai nulla, non sei nulla, ti restano solo le tue stupide domande; perché non puoi non esistere? Sarebbe meglio, per te. Non credi?
La figura si strinse nelle spalle e le riflesse indietro la domanda.
Non ci fu nulla da fare: quella risposta sapeva giocare bene a nascondino.

 

Ofelia aveva i capelli lunghi, aveva conosciuto veramente America proprio su un autobus, qualcosa come una settimana dopo, e aveva odiato da subito i suoi occhi sfuggenti.
Ofelia aveva questi capelli lunghi con la ricrescita nera di qualche centimetro di troppo e alla fine si era ritrovata a vedere America quasi tutti i giorni, o comunque a sentirla per telefono, o in qualsiasi altro modo in cui si possano sentire le persone.
Ofelia aveva questi capelli lunghi tinti di un colore assurdo, un biondo rossiccio che a dirla tutta le stava davvero da culo, e amava etichettare le cose, ma alla storia che aveva con America non avrebbe proprio saputo dare un nome: erano amiche? migliori amiche? profonde conoscenti? amanti? confidenti di fiducia? innamorate? estranee?
Ofelia aveva questi capelli lunghi che le cadevano sulle spalle flosci come spaghetti scotti e si appiccicavano al suo viso allungato e detestava ammettere di essere diventata dipendente da America, ma quando non la sentiva per più di due giorni cominciava a mancarle il fiato.
Ofelia aveva questi capelli lunghi e non è che ci sia molto altro da dire, su quelli; aveva anche sei anni di più di quelli che America avrebbe tecnicamente avuto all'anagrafe – che però non capiva veramente come funzionasse il tempo per quella ragazza e quindi non era affidabile – e le labbra quasi troppo grosse per essere naturali, anche se in realtà lo erano.
Costantemente meravigliata per natura, pensatrice per bisogno, confusa per scelta.
Mestruazioni ogni ventisette giorni, calo di voglia di vivere ogni trenta.
Domande a distanza fissa di cinque minuti. Risposte quasi mai.
Purtroppo per America, fedele realista. Fragile come carta di riso.

 

Ofelia e America si amavano, in un certo senso. E in un certo senso no.
È che Ofelia adorava America nei giorni dispari e la detestava con tutta se stessa in quelli pari. America voleva baciare le labbra gonfie di Ofelia nei giorni pari e le avrebbe volentieri tirato una sberla in quelli dispari.
Insomma, avevano un orologio sentimentale troppo diverso e non erano mai riuscite a coordinarlo.
Funzionava così un po' in tutto, eh? Una diceva blu, l'altra rosso. Una voleva piangere, l'altra rideva. Una aveva tempo, l'altra era di fretta.
Una decideva di esistere e l'altra... l'altra sfumava via.
Qualche volta America aveva scoperto Ofelia con lo sguardo un po' lontano e un po' nascosto, con le dita che si muovevano veloci sulla tastiera immaginaria di un computer troppo vecchio e rumoroso. Probabilmente quelli erano stati i momenti più dolorosi della sua esistenza. Si era scatenato un grande terremoto, dentro di lei, una volta. Un'altra uno tsunami. Una volta l'eruzione di un vulcano. È che lo sentiva veramente, il terrore di tutte le persone che abitavano il suo Io: saliva lungo l'esofago e prometteva di essere vomitato fuori da un momento all'altro.
Allora America doveva correre via, ovunque, mettere la testa fa le ginocchia, chiudere gli occhi e anestetizzarsi per un po'.
Solo per riuscire a trovare il coraggio di farsi quel tanto doloroso vaccino anti-paura.
Paura che Ofelia arrivasse in posti che lei non poteva raggiungere; paura che le svanisse dalle dita in un soffio di vento; paura che, al contrario, le rimanesse incastrata alle ciglia e non se ne andasse più...
Paura.
Ofelia aveva dei momenti un po' umidi, in cui lanciava un'occhiata di traverso ad America e sentiva il bisogno fisico di abbracciarla, di stringere le proprie braccia contro le sue costole e frantumarle, fino a inglobarla dentro di sé, distrutta e irriconoscibile.
A volte uccideva quello stupido impulso, soffocandolo con il cuscino di piume che aveva comprato perché le avevano detto che faceva bene alle cervicali.
A volte, invece, mandava tutto a farsi fottere e la attirava a sé, affondando il viso nei suoi capelli scompigliati.
Probabilmente non se ne accorgeva, ma dopo ognuno di questi abbracci un pezzo del suo essere si trovava impigliato nell'universo di America e ci rimaneva, anche, strappato a forza dalla sua dimora abituale. Non sarebbe stato un problema se quei pezzi poi le fossero stati restituiti in qualche modo, ma non era così. Diventavano proprietà assoluta di America, senza che nessuna delle due lo sapesse.
E così Ofelia era un grande edificio pericolante, zeppo di buchi e travi rosicchiate. Ed era un gran casino, perché l'ultima volta che era stata al supermercato si era dimenticata di comprare il nastro segnaletico che tenesse tutti alla larga dal crollo imminente. Quello e pure gli assorbenti.
Se inserissimo tutti questi dati in una calcolatrice e facessimo una bella media ponderata, scopriremmo che si facevano male a vicenda. Senza saperlo e godendone di nascosto. Lontane o vicine a seconda del tempo. Tristi o felici a seconda dell'ora del giorno.
Quando Ofelia aveva scoperto dell'universo interiore di America, poi... era stata la catastrofe del secolo.
Erano volati cuscini, lacrime, pentole, parole, cellulari, terrori, scodelle, insulti, odi profondi...
Una non capiva come potesse essere. L'altra non capiva come potesse non essere.
Nessuna delle due si era mai rassegnata. Non ne avevano più parlato.
Sapete com'è, quando accade qualcosa di importante è meglio ignorarlo.

 

Un giorno le fecero notare che era una persona sorprendentemente incolta e le chiesero se potevano piantare delle margherite sulle sue clavicole sporgenti. Giusto per abbellirla un po'.
Lei si spaventò: nessuno le chiedeva mai nulla; tutte le risposte che aveva sapevano di naftalina e tempo fuggito e data di scadenza troppo lontana e troppo vicina.
Rimase in silenzio, agitando le punte nude dei piedi, sperando che si stancassero di aspettare qualche sua parola e che se ne andassero da soli. Loro e pure i piedi. Che si staccassero dalle sue caviglie e visitassero mille posti sconosciuti che lei non poteva vedere.
Quando rialzò gli occhi, l'edera le era già cresciuta attorno al collo. Le margherite erano morte soffocate.

 

Se Ofelia avesse saputo questa cosa, questo principio per il quale le cose essenziali vanno cancellate dalla memoria seduta stante, forse non avrebbe preso in mano il telefono.
Ma aveva deciso di bersi un bicchiere di latte con i cereali integrali, mentre guardava un pessimo film di guerra che ridavano alla tv per la seconda volta, quella settimana. Le era scivolato il polso e il contenuto del cartone era finito un po' ovunque, sul tavolino da caffé, sul tappeto infeltrito, sulla rivista di cucina che aveva rubato dalla cassetta della posta della vicina.
E in quel momento era crollata, come doveva fare da tempo.
Si era seduta sul divano pieno di peli di gatto, aveva cominciato a piangere, senza alcuna ragione apparente, e aveva capito di aver raggiunto la sua overdose di America.
Non sapeva con certezza perché l'avesse capito proprio con il latte e i cereali, ma era successo.
Così allungò una mano verso la cornetta e digitò il numero alla cieca, sbagliandolo tre volte, scusandosi per due di queste con la voce sconosciuta che rispose dall'altro capo del filo e sbuffando l'altra contro la signorina metallica che la informava dell'inesistenza del numero.
Al quarto tentativo la voce era quella giusta.
E la conversazione durò ore, in termini di pensieri sospesi nel vuoto, secondi, in termini di tempo reale.
“Pronto?”
Silenzio.
“Pronto? Pronto? Chi è?”
Silenzio. Urla di attori. Colpi di mitraglia.
“Ofelia?”
Silenzio. Singhiozzo. Slogan di una pubblicità di pannoloni.
“Va tutto bene?”
Singhiozzo. Singhiozzo.
Piccola pausa. “Cosa succede?” dice America, con tono ansioso.
“Noi... credo che non dobbiamo sentirci per un po'...”
Boom. Silenzio, di nuovo. Silenzio freddo. -273.15 °C. Freddo assoluto.
“... Che non dobbiamo sentirci più, anzi.”
Silenzio di calcestruzzo e intonaco grigio.
Singhiozzo. Ofelia aspetta che America le chieda perché.
Silenzio.
Ofelia prega che America le chieda perché e le faccia cambiare idea con la sua voce cantilenante.
Tono calmo. “Oh. Oh, ok. Come vuoi tu, Ofelia.”
Bip. Bip. Bip.
Un singhiozzo. Un altro ancora.
Bip. Bip. Bip.
Rumori del pessimo film di guerra in sottofondo, mentre qualcosa nella mente di Ofelia si spezza.
Silenzio, mentre, dall'altro capo della cornetta, America guarda le prime gocce di pioggia che cadono fuori dalla finestra.

 

Un giorno chiese che cosa sarebbe uscito dalle sue vene, se le avesse scassinate con una lametta.
Non le prestarono molta attenzione, dopotutto cosa gliene fotteva, a loro, delle sue vene chiuse col lucchetto?
Caffè, le risposero allora, senza guardarla. Quello e niente altro.
Ma un caffè come?
Che caffè vuoi che sia, quello di merda delle macchinette automatiche, no?
Ma macchiato con il latte?
Boh. Forse. Forse no.
E quanto zucchero?
Nemmeno un po'.

 

Pioveva senza smettere da quasi un giorno. Niente di apocalittico, a ben pensarci: era una pioggerella sottile, senza scrosci degni di tal nome, né strade allagate. E poi ad America la pioggia era sempre piaciuta. Ad Ofelia no, Ofelia odiava i capelli umidi e i vestiti appiccicati alla pelle, gli ombrelli, le gocce dentro il colletto della camicia...
No, Ofelia niente. Ofelia basta.
C'era tanto silenzio e ad America la cosa pareva incredibilmente strana: era così abituata a sentire l'incessante tran tran del suo universo in movimento che quell'improvvisa assenza di rumori era quasi spaventosa.
Si svegliò all'improvviso alle tre e trentaquattro del mattino, strappandosi da sola al sonno di carta velina in cui era atterrata in punta di piedi. E semplicemente sapeva come sarebbe andata a finire.
È la consapevolezza di un'azione definitiva, avete presente? Del grande botto finale che porterà le cose al loro posto, come dovevano essere fin dall'inizio e una volta per tutte.
Quella sicurezza marginale che ti lascia sereno, senza paura, senza alternative.
America prese in mano il telefono e ascoltò i messaggi lasciati nella segreteria telefonica.
Erano diciannove.
Non è che li ascoltò veramente, in realtà. Non tutti, almeno. Alcuni fecero breccia nel suo cervello. Altri scivolarono via.
Bip. America... Sono io. Per favore, richiamami. Almeno parliamone. So che è colpa mia, che ho detto quella cagata del non sentirci più, ma speravo che almeno ne avremmo discusso e che tu mi avresti url- Bip.
Bip. Ok, ascolta. Non dicevo sul serio. Non. Dicevo. Sul. Serio. Richiamami. Bip.
Bip. Richiamami. Ti costa così tanto? Bip.
Bip. Basta che tu mi chiami e mi dica basta. Ma chiamami, cazzo. Bip.
Bip. Vaffanculo, America. Fottiti. Bip.
Bip. … È il 7 novembre, America. Ti amo. Bip.
Bip. Bip. Bip. Troppi bip. E pure troppe parole.
America riappese la cornetta con un sorriso umido e prese dalla lavagnetta in ardesia per la lista della spesa uno dei tanti gessetti consumati fino all'osso, rigirandoselo fra le dita.
Cancellò la scritta pasta, passata di pomodoro, tonno dalla lastra nera e fissò lo spazio polveroso per un po'. Poi scrisse, con la sua solita calligrafia sghemba e illeggibile.
Sono quasi le quattro di mattina dell'8 Novembre. Oggi tocca a me, amarti.
Strinse il gessetto tra le mani e uscì di casa.

 

Un giorno chiese se baciare il sole fosse contro le regole.
Certo che no, le risposero, ma non lo fa mai nessuno. Baciare il sole vuol dire fare un patto con il fuoco e i patti con il fuoco si firmano con la cenere. Quella di se stessi.
Chiese, allora, se fosse possibile baciare la luna.
Certo che sì, le risposero, ma bisogna vendere l'anima alla notte.
E qual è il problema? si domandò. Ci pensò pure bene, eh, giusto per non fare una cazzata più grossa di quelle che faceva di solito. Non trovò alcuna risposta soddisfacente e allora sorrise, strinse le mani tese verso di lei e firmò il contratto.
Fu l'unica persona che riuscì ad imbrogliare quella troia della luna.
Dopotutto si era solo dimenticata di dire che un'anima, lei, mica l'aveva.
Forse si erano dimenticati di dargliela. Forse le era caduta dalle tasche e non se n'era accorta.

 

Camminava da un po', anche se non avrebbe saputo dire quanto.
Aveva addosso solo i pantaloni in pile, la maglia color cachi e i calzini di spugna bianchi con cui era andata a letto e il gessetto si stava sciogliendo fra le sue mani, sotto la pioggia che batteva leggermente contro i suoi capelli scuri.
Sapeva dove doveva andare, anche se non ricordava bene come doveva arrivarci.
La cappotta della fermata dell'autobus era sempre lì e non si era spostata di un millimetro, né in tutti quegli anni di America-Ofelia – quanti erano stati? Cinque? Sei? – né in quel millennio di pioggia che America aveva affrontato per arrivarci. Qualche graffito in più, ma la sua età la portava bene.
Era strano camminare per le strade a quell'ora della notte, vestita in quel modo. Ma non le importava. D'altra parte, in quel momento le cose importanti non esistevano più. Non esistevano quelle inutili. Non esisteva più niente a parte il silenzio.
America rimase qualche secondo a grattarsi la nuca e a considerare le proporzioni: si sarebbe dovuta stringere. Poco male.
Si accucciò e cominciò a disegnare con il gessetto, sul cemento malandato. Si ruppe le unghie, mentre la polvere bianca si consumava sempre di più, e dovette leccarsi il pollice un paio di volte, per cancellare quelle linee che erano sfuggite alle perfette dimensioni che si tratteggiavano nei suoi occhi.
Ci mise più di quanto aveva pronosticato, ma alla fine il lavoro era perfetto: la sagoma la guardava con quegli occhi che non aveva, in quella strana posizione contorta, spalmata a terra.
L'unica traccia di gesso rimasta ormai era incollata ai suoi polpastrelli, così America prese un paio di respiri profondi e si distese nella sagoma, attenta a non sgarrare nemmeno di un millimetro fuori dai contorni.
E, cazzo, se non era una posizione scomoda.
Rimase un paio di ore rigida come un manico di scopa, il braccio sinistro piegato in un angolo che non pensava di poter umanamente raggiungere, quello destro steso lungo il fianco, la gambe mollemente divaricate, la schiena inarcata per non non far staccare niente prima del tempo.
Guardò per un po' il cielo, deformato com'era da quel tetto di plastica, e ascoltò per qualche tempo le gocce che ci picchiavano sopra, testarde.
Poi, così come era arrivata, se ne andò restando, il corpo abbandonato sul marciapiede e lo sguardo fisso nel vuoto.

 

Fu allora che accadde.
La cosa più naturale del mondo, intendo.
Un ragioniere in completo grigio spuntò fuori dalle sue narici e corse verso casa con la sua brava valigetta, un giornale sopra il capello per ripararsi dalla pioggia, sulle labbra le maledizioni verso il capo che l'aveva fatto lavorare tutta la notte.
Da sotto le unghie se ne uscì una banda di gatti randagi che vagabondarono per qualche minuto nei dintorni e poi imboccarono nuove strade verso i quartieri dabbene, perché è statisticamente provato che lì ci sta davvero la spazzatura migliore.
Un paio di uomini ubriachi e una donna con il rossetto sbavato e la gonna troppo corta fecero capolino dai pantaloni e si allontanarono barcollando, il trofeo di una bottiglia di vodka fra le mani.
Dalle orecchie gattonò fuori un senzatetto, che si accucciò lì vicino, poggiò il capo stanco su un muro scrostato e chiuse gli occhi. Gli chiesero, in seguito, se avesse visto qualcosa di strano, quella sera. Glielo chiesero centinaia di volte. La sua risposta rimase sempre un tiepido e invariato che ne so, io? Prima di ieri sera non esistevo nemmeno.
E non saprei dire quale buco avesse preso per poter uscire, ma cacciò fuori il naso anche quell'Universo tanto atteso e si guardò intorno, sperduto, prima di tranciare con le sue dita di tenaglia il lucchetto di una bicicletta e pedalare lontano, alla ricerca di un posto in cui quello vecchio non fosse arrivato e lui potesse acciambellarsi, mettere radici e crescere giusto un po', il necessario per entrare nella categoria dei Pesi Leggeri.
Si fermò alla fine della via, voltandosi per l'ultima volta a fare ciao ciao al corpo immobile di quella che una volta era stata America e poi non ci pensò più, continuando il suo viaggio verso la fine del Tutto e del Niente, perdendo di tanto in tanto qualche pezzetto, qualche pianeta, qualche persona, senza mai fermarsi a raccoglierli.
Nessuno vide più quell'Universo Bambino.
Chissà come sta ora, mi chiedo io. Magari avrebbe potuto aggiustarci tante cose, qui.
Ma immagino sia giusto così. Immagino abbia fatto carriera, ovunque sia.

 

Un giorno si perse nella foresta di sempreverdi e pensieri che le era cresciuta nella testa, mentre l'ago della sua bussola girava un valzer in tre quarti. Si trovò a ballare con lui, all'improvviso, ed era bello, finché durava. Davvero. Per un po', mentre danzava, si chiese anche dove dovesse andare, ma alla fine smise di domandarsi cose inutili e finì per chiedersi se ne valesse proprio la pena, se non fosse meglio sedersi e non uscire da quel posto mai più.
Chiuse gli occhi e incollò i piedi fra loro, qualche secondo, solo per riposare un po': ballare così tanto le aveva fatto indossare un vestito di stanchezza troppo elegante.
Quando trovò il coraggio di guardare di nuovo, la foresta era stata abbattuta e davanti a lei si alzavano infiniti grattacieli.
Non seppe se rammaricarsene, o, forse, esserne un poco felice.
Comunque fosse, si alzò e cominciò a seguire i cartelli stradali. Incontrò un uomo, lungo la via. Un uomo deliziosamente normale, come non ne vedeva da tempo.
Dove portano queste indicazioni? gli chiese, togliendosi il cappello in un buffo inchino.
Oh, da nessuna parte, cara. Queste indicazioni servono a far sì che tu ti perda.
La ringrazio molto. Davvero molto gentile.
Si fecero a vicenda un altro inchino e si allontanarono, verso opposti smarrimenti.

 

Ad Ofelia quella sera successe qualcosa di strano.
Credo che la sua anima dovesse essersi legata all'Universo di America tanto tempo fa, quando entrambe erano distratte e probabilmente non se n'erano accorte, ancora prima degli abbracci e della folla di pezzi di Essere emigrati in cerca di fortuna in quell'Universo senza regole. Probabilmente era successo anche fin dall'inizio. Propenderei per quella volta che si erano passate accanto senza notarsi a vicenda, due giorni dopo il loro primo silenzioso scambio di sguardi.
Forse questo spiega tante cose, di Ofelia. Più di quanto ci aspettassimo tutti, credo.
Spiega la forza gravitazionale che la attraeva ad America, quando quella che la legava al suolo era stata dimenticata nel fondo del cassetto, assieme alle pomate balsamiche per il raffreddore e le chiavi di casa di un ex ragazzo che non le aveva mai reclamate. Spiega perché avesse passato tutta la notte in bianco con il telefono in mano, aspettando una chiamata che non arrivava.
Spiega anche perché, nel momento in cui gli occhi di America si persero nel vuoto, lei, che tanto odiava la pioggia, ebbe bisogno di uscire per strada e mettersi a ballare a piedi nudi, bagnata e arruffata come un pulcino, in mezzo alla tempesta che si stava scatenando. Pianse e rise, rise e pianse e inciampò, cadde e si rialzò, ma non smise mai di ballare.
Capitela, vi prego. Non poteva fare altrimenti: era nata veramente solo in quel momento, assieme a tutti gli altri.

 

Il mondo si dimenticò lentamente di America.
Le lettere che scrivevano il suo nome, in calce ai vari documenti che aveva seminato in giro nel corso di centinaia di anni, sbiadirono. L'immagine del suo volto perse i contorni e i colori. Il suo nome cominciò a suonare strano sulla bocca di chi lo pronunciava tanto spesso. Le foto bruciarono per combustione spontanea, i video fecero in autonomia i tagli di regia necessari.
Un giorno la madre di Ofelia, mentre scolava la pasta, in una delle tante domeniche di famiglia, si dimenticò di aver dimenticato e, guardando la figlia, chiese con un sorriso: “E di America cosa mi racconti? Come sta?”
Ofelia, purtroppo per lei, aveva davvero una buona memoria per le cose che doveva dimenticare. Perciò continuò per tutta la vita ad andare a dormire alle undici e mezza, a leggere per venti secondi spaccati le stesse prime parole, al capitolo IX di un libro senza titolo, e a passare i successivi trenta minuti chiedendosi:
America chi?

 

Di America rimase solo la sua sagoma disegnata col gesso alla fermata dell'autobus.
Ci provarono in tanti, a cancellarla, ma quella non volle mai saperne di andare via.
Due giorni dopo la Grande Genesi, però, un ammasso di treccine e smalto per le unghie verde acido vi passò accanto saltando la corda.
Guardò per un po' la sagoma, prese dalla tasca della salopette il gessetto che portava sempre con sé e disegnò sul viso vuoto il profilo di un sorriso zoppicante.
Si chiamava Asia, quella bambina. Non credo avesse dentro di sé alcun universo, ma di sicuro nei suoi polmoni era arroccata una piccola città.

 

Un giorno aprì la bocca per parlare e scoprì, con un terrore infinito che nemmeno lei riuscì a comprendere veramente, che le rimanevano solo tre domande.
Serrò le labbra per un po', giusto per non lasciarsi scappare le sole possibilità che le restavano, ma sapeva fin dall'inizio che non sarebbe riuscita ad arrivare molto lontano, senza dare fiato ai suoi discorsi senza capo né coda.
Ho finito tutte le cose da chiedere? chiese, allora, sconfitta.
Proprio tutte, le risposero, accarezzandole il capo, quando le passavano accanto.
Dai, non ne è rimasta nessuna?
Nemmeno una minuscola.
E le parole?
Finite anche quelle, molto probabilmente.
Aprì la bocca per ribattere, per dire che non era possibile, che doveva esserci altro.
Non le uscì nulla.
Così Asia dovette sedersi sul marciapiedi e aspettare che qualcuno accostasse sul ciglio della strada, per offrirle qualche nuova domanda e un nuovo set di parole.
In cambio, giurò, gli avrebbe dato tutto quello che voleva. Anche se stessa.

 
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Nonsense / Vai alla pagina dell'autore: RuboLaVitaDentroDiMe