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Autore: Melinda Pressywig    02/04/2014    10 recensioni
Ci sono Simon, Sasha e Johnny.
Simon è innamorato di Sasha da anni, ma lei è sposata con Johnny e stanno per avere un bambino. Simon è incazzato nero con se stesso, ma la sua confessione gli porterà della roba pazzesca. Meglio tardi che mai, no?
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Triangolo Spezzato












Sasha era incinta di tre mesi. Me lo disse il tizio del pub dove andavo spesso a farmi una birra. 
All'inizio non volevo crederci. Pensai mi stesse prendendo per il culo; ma quando andai a trovarla il mattino seguente, lei aveva un sorriso così radioso che mi tornò difficile riderle in faccia. 
Sasha era la moglie di Johnny, quell'energumeno alto un metro e ottanta coi bicipiti scolpiti, che mi stava sulle palle da quando si erano sposati due anni prima. Anzi no, praticamente da sempre. 
Però non era lui il vero problema, bensì il mio rapporto con Sasha. Ero incazzato con me stesso per non averla limonata quando avrei dovuto farlo: la notte di Halloween, sotto la pioggia, in quella catapecchia bucata vicino al cimitero, coi costumi fradici e il trucco colato. 
Erano quindici maledettissimi anni che la desideravo. Se avessi  avuto il coraggio, anziché comportarmi da eterno impacciato-sfigato, a quest'ora quel figlio in arrivo sarebbe stato il nostro bambino. E la bella casa con giardino in cui abitavano sarebbe stata la nostra di casa. Invece no, ero rimasto il fottuto amico di sempre, umiliato e surclassato proprio da quel Johnny Line, il bastardo senza cervello che mi aveva rinchiuso in un armadietto al liceo. 
Perché è così che va il mondo: gli sfigati vengono abbattuti dai ragazzacci stronzi, e solo dopo vent'anni, quando quelli avranno la barba abbastanza lunga e folta da definirsi dei veri uomini, sarà troppo tardi. Il tempo li avrà ingannati e rimarranno soli e depressi, rimpiangendo la gioventù ormai sfumata. E quella ragazza con cui facevano sesso nei loro sogni proibiti, puntualmente sarà già stata prenotata dal quel playboy, che nel frattempo sarà diventato un ammasso di lardo, che si ciba di pollo fritto e beve coca-cola dietetica. Johnny era il belloccio rimasto un figurino ed io lo sfigato rimasto ugualmente solo. Bella merda.
Quando Sasha mi fece entrare, io le sorrisi cordiale. Il suo viso sapeva calmare la mia rabbia repressa: aveva dei lineamenti fini, gli occhi castani chiarissimi, i suoi capelli erano biondi e le arrivavano fino al seno. 
Mi fece accomodare in salotto, sul nuovo divano in stoffa vellutata. La casa, poi, profumava di lavanda e a me stava già venendo la nausea. Mi chiese se volessi bere qualcosa. Io puntualmente le risposi che volevo una birra, e lei andò in cucina a prenderla. 
Mi guardai attorno e il posto era sempre lo stesso: i mobili ben accostati ai muri, una lampada spenta nell'angolo. Il pesce rosso nella boccia di vetro ancora vivo. Qualche quadro appeso alla parete, la televisione buia e un vaso di fiori sul davanzale della finestra. A Sasha piaceva l'ordine, a me neanche un po'. Quando tornò, la mia birra era servita dentro un bicchiere oblungo con del ghiaccio, proprio come la volevo io. Poggiò il vassoio sul tavolino e me la porse.
«Allora? – le dissi – come vanno le cose tra te e Johnny?»
«Benissimo! C'è una notizia che devo darti...»
«Lo so»
«Lo sai!?»
«Sì, me l'ha detto Travis, del pub». Nel dirlo sembravo annoiato.
«Oh... accidenti. Johnny deve aver parlato troppo. La voce si è sparsa in fretta, mi dispiace...»
«Non preoccuparti, dovevo aspettarmelo... congratulazioni»  e le regalai un sorriso forzato. 
Lei riprese il discorso:
«Ma ci pensi, Simon? Io e Johnny avremo un bambino!»
«Certo che ci penso... anche troppo» risposi sarcastico. Lei lo notò subito.
«Ma che ti prende? Mi sembri abbattuto. Hai perso di nuovo il lavoro?». Mi andò il liquido di traverso. Avrei preferito perdere quel lavoraccio come magazziniere piuttosto che essere superato, ancora una volta, da Johnny Faccio un figlio subito. 
Terminati gli scossoni della tosse le risposi:
«Ma no, no. Figurati! Al Donnely&co ci lavoro ancora, non mi hanno cacciato...». Feci una pausa strategica, bevendo un altro lungo sorso della mia birra per riprendermi dal precedente e mi soffermai a guardare quell'orribile dipinto raffigurante un treno a vapore fermo alla stazione. Doveva essere di Jhonny, ci avrei scommesso l'anima. 
Io non volevo dire la verità a Sasha. Non se lo meritava. Avrei bruciato il bel teatrino che avevo messo su dal principio. Il teatrino dove io ero la marionetta che indossava una maschera, lei la protagonista inconsapevole dell'intrigo. Eppure la tentazione mi costringeva a buttarmi... forse era giunto il momento di dirglielo una buona volta e farla finita. Rischiare, creare un po' di caos nella quiete che avevo creato. 
Mi voltai a guardarla e proseguii: 
«Vedi... è che adesso ti perderò e non avrò più la possibilità di averti. Sai, con un figlio a carico e tutto il resto...». Le lanciai la mia confessione velata, ma lei non capì subito. Anzi, reagì con una risata. 
«Ma non essere sciocco! Presto diventerai una specie di zio, e sarai il suo padrino, e verrai ai compleanni, e...». Bingo! Sasha si bloccò, come se le avessero tolto la corrente elettrica. Rimase qualche secondo a pensare, senza guardarmi, mentre io bevevo l'ultimo goccio torbido. Dovevo averla scossa. 
Se lo aspettava? Non se lo aspettava? Non mi era dato saperlo, perché sul più bello entrò Johnny dalla porta d'ingresso. Sentimmo il clack della serratura. Automaticamente guardai il mio orologio: segnava le undici e un quarto. Un tempismo a dir poco pessimo. Era già l'ora di sloggiare per me, a mezzogiorno avrei dovuto essere al fondo merci. 
Quando quello ci trovò comodamente seduti sul suo divano, allargò le braccia in segno di sorpresa e disse: «Ehi, ma guarda un po' chi c'è... Simon Stunt! Come andiamo? Saranno mesi che non ti vedo». Come dargli torto, cercavo di stargli alla larga il più possibile, e lui era troppo stupido per capire quanto lo detestassi. 
Mi alzai per correttezza e andai da lui, per dargli almeno una pacca sulla spalla. Sasha, invece, rimase seduta. «Già, che ci vuoi fare, sempre impegnato...» risposi io. 
Poi lui mi ignorò, spostando l'attenzione direttamente su Sasha. 
«Ed eccola qui la mia mogliettina...». Si sedette accanto a lei, con l'intenzione di slinguazzarsela ben bene, come se io non ci fossi. Sasha protestò, allontanandolo con la mano sul petto. 
«Johnny, andiamo... non davanti a Simon».
Per un attimo mi sembrò infastidita dal quel contatto. Era o non era suo marito? Forse l'avevo scombussolata più del dovuto. Non sapevo se esserne soddisfatto o meno.
«Fate pure. Anzi, ora devo andare. Il lavoro mi chiama...»
«Ma come? Non resti per una birra insieme a me?» disse Johnny.
«No, me l'ha già offerta Sasha, grazie»
«E allora ti ha già detto la notizia bomba, non è vero?»
«Sì – la guardai – me l'ha detto... Felicitazioni». 
Johnny scoppiò in una risata gioiosa. «Nascerà un bel maschio, me lo sento!». 
Vidi Sasha sorridere, poi mi guardò con un senso di mortificazione in volto che mi fece pentire come un miserabile, ma ormai avevo fatto la frittata, tanto valeva mangiarsela. 
Poi entrambi mi accompagnarono alla porta. Io li salutai, dirigendomi verso la mia auto.
«Ciao, Simon...»
«Ciao bello!»

Passai il turno lavorativo pensando alla reazione di Sasha, crucciandomi sulle conseguenze delle mie azioni. Pensavo all'embrione che lentamente cresceva dentro di lei e non era frutto dei miei lombi. A Johnny che osava palparla al posto mio e alla frustrazione che il rimpianto mi stava provocando. 
Mentre sollevavo gli scatoloni pieni di prodotti commerciali non feci altro che rodermi il fegato e sputare bile sopra la persona che ero diventato: un tipo trasandato, con la barba incolta e i capelli scuri già brizzolati alle tempie. Un'espressione annoiata e uno stile di vita monotono. Era un miracolo se riuscissi a tenermi un lavoro decente per più di un mese. Vivevo in un bilocale spoglio e caotico, in affitto, con casse di birre in frigo e poco cibo salutare. Non che fossi un alcolizzato o un obeso cronico, ma mi seccava andare al market sotto casa; era pieno di buzzurri. Non avevo neanche la tv, al massimo leggevo qualche libro su come aumentare l'autostima o un classico melodrammatico. In poche parole: un eterno sfigato. No, forse non del tutto... qualche donna riuscivo a rimediarla ogni tanto, con tatto e gentilezza... giusto per soddisfare certe voglie. Niente relazioni fisse, niente amore. Sasha era l'amore.

Il giorno seguente, con mio stupore, lei mi telefonò al cellulare. Io ero appena uscito dalla doccia.
«Pronto?»
«Simon... Ciao, ti disturbo?». Dalla voce mi sembrava tranquilla, per niente innervosita.
«No, dimmi»
«Vorrei rivederti... Sai, per parlare. Ieri sei scappato»
Parlare. Suonava meglio di ti odio, vaffanculo come avevo immaginato.
«Sì, hai ragione...» le risposi con finta indifferenza «Vuoi che venga a casa tua?»
«No! No... Non voglio che Johnny ci disturbi di nuovo. Ti va di accompagnarmi in centro città? Voglio dare un'occhiata ai negozi per neonati». 
La proposta mi incuriosì, non potevo rifiutare.
«Certo, va bene, sarà un piacere»
«Perfetto, passo io alle quattro»
«Ok»
«Allora... ciao»
«Ciao». Il fatto che avesse scelto me e non Johnny per un compito simile era un buon segno. Carico e sollevato andai a rendermi decentemente presentabile. Era pur sempre un appuntamento...

Sasha arrivò puntuale peggio di un boomerang quando torna indietro. Salii sulla sua auto grigia metallizzata e lei mi accolse con un sorriso. Era vestita casual, e portava i capelli sciolti. Il suo viso grazioso mi risollevava il morale.
«Sbaglio o tu non dovresti guidare?» esordii mentre chiudevo la portiera.
«Sono solo al terzo mese, non esagerare!» e ridacchiando ingranò la marcia. Non ero un clown, ma almeno sapevo come farla ridere. 
Passammo la successiva ora e mezzo comportandoci da semplici buoni amici, come se la mia confessione non avesse prodotto il ben che minimo effetto. Parlammo, sì, ma di tutt'altro, soprattutto di quel bambino in arrivo. Mi disse che era eccitata all'idea di diventare madre e di come la sua vita stesse per cambiare. Io l'ascoltavo, la immaginavo. Insistevo sul fatto che sarebbe dovuta nascere una femmina, alla faccia di Johnny. Lei mi confidò di desiderare una bambina e di volerla chiamare Cinthya.
«Non male!» commentai io, mentre lei stava sprimacciando un cuscino rosa. «Invece Joh che nome vuole dare al suo primogenito?»
«Kurt» rispose con una smorfia.
«Tremendo...» convenni io. Non avrei mai voluto essere il padrino di uno che si chiama Kurt Line.
Dopo aver visto una trentina di passeggini diversi, centinaia di biberon e vagonate di giocattoli, alle sei ci fermammo in un bar a prendere un caffè. Io nero, lei decaffeinato. 
A quell'ora c'era ancora il sole, la giornata stava giungendo al termine, e ancora non avevamo affrontato il vero argomento per cui eravamo usciti insieme. Io non osai iniziare, volevo fosse lei a farlo, a costo di affogare nella vasca che avevo riempito di orgoglio.
«Sai, ci ho pensato...» disse Sasha, dopo aver finito di bere il suo caffè.
«A cosa?» risposi io, recitando la parte del finto tonto.
«A quello che mi hai detto ieri. Ancora non capisco perché tu non me l'abbia detto prima che io mi sposassi. Non so: al liceo, al college... non ora che sono incinta!» sembrava indignata.
«Che pretendi? Johnny ti ha sempre allontanato da me». La risposta mi uscì di getto.
«Sì, ma hai avuto più di una occasione» continuò lei.
«Che ti devo dire? Ero un povero bamboccio innamorato. Gli sfigati spesso rinunciano, dovresti saperlo».
L'avevo detta grossa. Lei mi guardò, forse un po' risentita e improvvisamente consapevole della mia condizione. Di quanto l'avessi amata in silenzio e di come odiassi quel maledetto Line. Il rancore stava riaffiorando. «Io non posso dire addio a Johnny...» disse poi lei, con una goccia di rammarico.
«Lo so. Ed è proprio questo che mi fa incazzare. Significherebbe chiederti troppo». 
Glielo dissi con tono aggressivo. Cercavo di trattenermi ma non ci riuscivo, non lì davanti a lei e in grado di sputarle addosso la verità. Lei abbassò lo sguardo, impotente di fronte a me. Poi mi spiazzò dicendo: 
«Sarà meglio andare. Johnny sarà a casa tra un'ora». Si alzò, come se non volesse continuare quella conversazione, che in realtà era solo il preludio di una questione molto più complessa. Io la guardai accigliato e un po' deluso, indeciso se fermarla o lasciar perdere. Scelsi la strada più dolorosa. Forse era la cosa giusta da fare per entrambi: fregarsene il doppio.
Raggiungemmo la sua auto camminando in silenzio. Io con le mani in tasca e la testa china, lei un po' distante da me  guardandomi di sfuggita. Vi salimmo senza emettere un fiato, improvvisamente imbarazzati per guardarci o scambiare due chiacchiere noncuranti. 
Io ero amareggiato. Avevo perso... di nuovo. Lei non sarebbe mai stata mia. Lei non avrebbe mai lasciato Johnny. Sarebbe rimasta sempre e solo un'amica. Senza averla mai sfiorata, senza averle mai dato un bacio. Simon Stunt, lo sfigato rimasto tale. 
Arrivammo alla mia topaia che il sole era già calato e il cielo diventato scuro. 
Lei fermò l'auto, io la salutai con un flebile “ci vediamo”. Stavo per aprire la portiera quando mi sentii sfiorare col tocco della sua mano.
«Aspetta... resta qui» disse.
Io mi bloccai, sorpreso da quella sua voglia di me. Mi voltai lentamente a scrutarla. Lei mi guardava in un modo a me sconosciuto: in attesa, indecisa. L'atmosfera era cambiata, come se da un momento all'altro stesse per accadere qualcosa, come se i miei pensieri l'avessero raggiunta... 
Poi la vidi avvicinarsi a me, con l'intenzione di baciarmi. Una vicinanza che solo nei miei sogni da adolescente avevo vissuto. Nel sogno lei aveva i capelli che profumavano di fragole caramellate, mentre lì non avevano odore, anzi, non avevano importanza. Il suo volto riempì il mio campo visivo e accadde. 
Sasha mi regalò il bacio che avevo sempre desiderato. Molto meglio di quello che avrei dovuto darle io in principio. Mi feci trasportare, afferrandola per il collo, respirando quel contatto come se fosse il mio ultimo sospiro. Assaporando le sue labbra morbide, sentendomi in paradiso. E lei in tutto questo profondo sentimento era partecipe. Ricambiava. Non sapevo se lo stesse facendo per compassione o meno, ma io ero felice. Avrei voluto prolungare quell'eccitamento per ore e ore, ma lei si staccò di netto, lasciandomi con una mano a mezz'aria, ad occhi socchiusi e il respiro pesante. Quando li riaprii, lei era girata verso il volante, con una mano sul petto, e lo sguardo perso, forse era stupita di averlo fatto. Mi accorsi di avere gli occhi umidi e di essere piacevolmente sconvolto.
«A saperlo che baciavi così, mi sarei svegliato prima» dissi io, tutto rinvigorito. Lei si voltò sorridendo lusingata.
«Adesso faresti meglio a scendere, io devo proprio andare, Simon» disse.
«Oh... Sì, certo. Ora... Ora vado». A dire il vero avrei voluto starmene lì seduto ancora un po', giusto per metabolizzare l'accaduto e far finta che lei fosse mia davvero, ma avrei rischiato di mandare a monte il nostro appuntamento segreto. Perché era segreto, Johnny mica lo sapeva che sarebbe uscita con me. Feci per scendere e poi mi ricordai:
«Grazie... Non. Non lo dimenticherò mai. Tu... Tu sei una donna fantastica». Ero così stordito che sparavo verità a cuore aperto come un lancia palline da baseball. Avrei voluto dirle un ti amo ad effetto, come fanno nei film, ma avrei sicuramente esagerato. 
Scesi dalla macchina, chiusi la portiera, e mi abbassai a salutarla dal finestrino aperto. Avevo un sorriso soddisfatto, tanto che se mi avessero detto di un'esplosione al Donnely&co non me ne sarebbe fregato un cazzo. 
Lei mise in moto, pronta a partire. Mi guardò con un sorriso furbetto e disse:
«E comunque... Ho provato qualcosa per te, una volta»
«Cos...!?!». Partì in quarta, lasciandomi lì come un baccalà sottaceto. Quel colpo di scena mi fece un gran piacere, aumentando a dismisura la mia autostima da trentenne incallito.
«Domani ti chiamo!»  Le urlai dietro, ma non mi sentì.
Sorrisi e tornai a casa facendo l'idiota per strada. Quello fu l'appuntamento e l'epilogo migliore che potessi sperare.

Be', era chiaro che io e Sasha non avremmo passato la vita insieme fino alla vecchiaia, che Cinthya non sarebbe stata figlia mia e che la casa col giardino non l'avrei mai avuta, ma almeno ero riuscito nell'ardua impresa di dichiararmi e inaspettatamente esaudire il mio desiderio proibito. Certo, una sana scopata sarebbe stato meglio, ma non potevo ottenere anche quella. Johnny mi avrebbe ucciso. 
Però non era detta l'ultima parola. Magari avremmo potuto diventare amanti in futuro. La sua espressione dopo quel bacio voleva significare molto di più. Forse avevo risvegliato dei rinsecchiti scheletri nell'armadio. Quale gioia!
A me andava benissimo. Maledettamente meglio delle mie aspettative al riguardo.
Una volta, lessi un aforisma dall'incontenibile saggezza che recitava così: Se la pazienza è la virtù dei forti, l'amore è la virtù dei pazienti*. Allora io ero un gran figo, dovevo ammetterlo.
















* (Cit. Stephen Littleword)











































 
Spazio Autrice:
Grazie per averla letta. Sono bene accette le recensioni costruttive.
Un saluto - Melinda Pressywig

Ha partecipato al contest  Amore in salsa di IMmatura sul forum di EFP. Settima Classificata.
Partecipa al Contest dei Cliché di Exoticue sul forum di EFP. Vediamo come va. Magari è più adatta.
E invece no, fa proprio schifo! Sono arrivata tredicesima. Ahahah! Ma voi continuate a dirmi che ne pensate. u.u  

 
  
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