Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: rosie__posie    04/04/2014    5 recensioni
Sherlock Holmes, sedici anni e con più nessuno al mondo, avrebbe dovuto entrare in quell’aula di tribunale per far capire a quelle persone che, pur avendolo sottratto alla luce del mondo per quasi due mesi, Mycroft non avrebbe mai potuto ucciderlo o fargli del male.
Perché in una limpida notte stellata di fine maggio ci avevano già pensato John Watson e Mary Morstan a trafiggergli il cuore.

Note: teenlock, court!fic, tematiche delicate, dinamiche Sherlock/Mycroft, Johnlock forever
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
A Giulia <3
 
 
 
 
Mentre affondava le unghie nei palmi delle mani, Sherlock pensò che, dopo quella sera di tante settimane prima, la sua soglia del dolore si fosse innalzata notevolmente.
 
Non riusciva a provare proprio nulla, mentre cercava di martoriare il corpo per ricordarsi di essere ancora vivo.
 
La guardia alla sua destra gli lanciò un’occhiata di sfuggita, prima di sistemarsi per l’ennesima volta la pistola in vita e tornare a guardare fisso innanzi a sé.
 
Il ragazzo sospirò e poi allacciò le gambe all’altezza delle caviglie. Distese le dita e si guardò i palmi: la corona di solchi lasciati dalle unghie gli ricordò un sole all’alba.
 
Sospirò di nuovo e questa volta serrò le dita attorno alla panca su cui era seduto.
 
Due avvocati gli passarono davanti con passo affrettato e le parrucche ben cotonate, discutendo entrambi delle proprie cause.
 
Noioso.
 
“Noioso” non era invece il termine più adatto per descrivere quanto avrebbe fatto lui a breve: dover entrare nell’aula alle sue spalle e convincere la giuria che l’imputato, tale Mycroft Vernet, accusato di diversi crimini (di cui non si era preso la briga di informarsi a fondo poiché secondo lui totalmente privi di senso) tra cui circonvenzione di incapace (in cui lui era l’incapace in questione – Sherlock Holmes un incapace, semplicemente ridicolo), era in realtà quanto più di vicino a un fratello (o a un amico) aveva in questo mondo.
 
Il termine più corretto era “doloroso”. Sarebbe stata la cosa più dolorosa a cui sarebbe mai stato chiamato a fare in vita sua.
 
Sherlock Holmes, sedici anni e con più nessuno al mondo, avrebbe dovuto entrare in quell’aula di tribunale per far capire a quelle persone che, pur avendolo sottratto alla luce del mondo per quasi due mesi, Mycroft non avrebbe mai potuto ucciderlo o fargli del male.
 
Perché in una limpida notte stellata di fine maggio ci avevano già pensato John Watson e Mary Morstan a trafiggergli il cuore.
 
§§§
 
La prima mattina in cui aveva aperto gli occhi a casa di Mycroft, il primo suono che aveva udito era lo scorrere placido di un fiume.
 
Il secondo quello del caricatore di una Walther PPK che veniva svuotato contro una sfilza di lattine vuote, a giudicare dal suono prodotto e dal tempo impiegato da ciascuna per ruzzolare a terra.
 
La terza cosa che aveva attirato la sua attenzione era stata scoprire d’essere legato. Ammanettato, per la precisione, a una catena di ferro ancorata al muro.
 
Una volta che gli occhi si furono abituati alla penombra, si era reso conto di trovarsi in una sorta di cantinino grande due metri per due.
 
Sherlock non aveva provato paura, nemmeno per un attimo. Nemmeno quando si ritrovò di fronte la figura magra e slanciata del suo carceriere. Lo sguardo di quell’uomo aveva un nonsoché di familiare, come se avesse trascorso anche lui una vita intera nella solitudine.
 
“Il mio nome è Mycroft” aveva annunciato l’uomo con voce piatta, mentre lo liberava dalla catena.
 
Il ragazzo lo guardò con aria dubbiosa.
 
“Che c’è? Preferisci rimanere qui?” aveva borbottato poi.
 
“Adesso mi ucciderà?” La voce di Sherlock era così calma che, dall’esterno, la gente avrebbe potuto pensare che i due stessero discutendo delle regole di un gioco in scatola.
 
“Vuoi essere ucciso?” aveva ribattuto Mycroft con aria grave e inarcando un sopracciglio.
 
Il ragazzo aveva scosso la testa con decisione. “No, perché credo ci sia già riuscito il mio migliore amico, ieri sera.”
 
Dopo quella prima mattina, Mycroft non ammanettò più il ragazzo, né gli fece male in altro modo.
 
Dopo quella mattina, Mycroft fece silenziosamente del proprio meglio per ricucire quel giovane cuore ferito e insegnargli come non soffrire più.
 
§§§
 
L’ispettore Molly Hooper uscì silenziosamente dall’aula di tribunale e si guardò attorno. Ancora seduto sulla sua panchina, a Sherlock fu sufficiente annusare l’aria per dedurre la sua presenza: il suo profumo era inconfondibile.
 
Inconfondibile quanto quello di Mary Morstan, ma indubbiamente più sobrio e apprezzabile...
 
La giovane detective sorrise tristemente quando notò che il ragazzo non s’era mosso d’un solo pollice da dove lo aveva lasciato quasi un’ora e mezza prima. Gli si sedette accanto e per un po’ nessuno di loro parlò.
 
“Ancora un testimone e poi sarà il tuo turno” sussurrò lei dopo un paio di minuti. “Greg è già dentro.”
 
Greg era Gregory Lestrade, suo marito e anche assistente sociale. Si occupava di assistenza ai minori sia per il tribunale di Fulworth che per i servizi sociali locali; avrebbe presenziato alla testimonianza di Sherlock affinché nessuno dei suoi diritti fosse leso. Un tipo a posto, lo aveva intravisto una volta in ospedale, assieme all’ispettore Hooper, e lo aveva classificato come una persona ordinaria, innocua, con punte di inettitudine tollerabili ma con un grande cuore.
 
Molly provò ad allungare la mano verso Sherlock, ma poi la ritirò subito, ricordandosi quanto fosse schivo il ragazzo verso le manifestazioni d’affetto.
 
Lui si limitò ad annuire.
 
“Sai, io devo aspettare che la seduta venga aggiornata prima di... Di portarti là. Se desideri sempre che venga anche io, oltre a Greg” aggiunse poi la Hooper.
 
“Lo so, ispettore, me lo ha già detto” le fece notare Sherlock, con voce piatta. Il suo sguardo non abbandonò mai la punta delle sue scarpe lucide. Da quando non si vestiva in modo così elegante? Forse non era mai nemmeno capitato: in casa, solo al suo patrigno, il defunto e non compianto Jim Moriarty, era consentito vestirsi bene.
 
Il giovane sospirò, mentre il pensiero di “là” si chiudeva attorno al suo stomaco come una morsa: i servizi sociali, un nome pomposo per indicare una casa per gli orfani, dove sarebbe rimasto in attesa che venisse affidato a una nuova famiglia.
 
Con l’improvvisa dipartita del suo patrigno, Sherlock non aveva più nessuno e, in cuor suo, credeva che la solitudine fosse per lui la migliore punizione per aver desiderato ardentemente la morte di Jim.
 
La migliore dopo aver aperto il proprio cuore a John Watson e aver ricevuto in cambio il più crudele dei “No”.
 
“Chi c’è dentro?” domandò a un certo punto, voltandosi verso la porta di accesso all’aula. “Non tutta Fulworth, mi auguro...” aggiunse, tornando a guardare la Hooper.
 
Molly sorrise d’un sorriso ancora più triste di quello precedente, se mai fosse stato possibile. “Credo ci sia qualcuno della tua scuola, se è questo che vuoi sapere...”
 
La morsa attorno allo stomaco di Sherlock si chiuse ancora di più su se stessa, aculei affilati che si conficcavano nella debole carne.
 
Fa’ che lui non ci sia. Che loro non ci siano...
 
“Ma anche tante di quelle brave persone che ti hanno espresso il loro affetto con fiori e bigliettini in ospedale!”
 
Già, tutte quelle persone, come tu, Hooper, del resto, che credevano dovessi essere protetto da Mycroft, mentre invece la persona che mi ha ucciso si chiama John Watson...
 
Lui c’è?” trovò Sherlock il coraggio di chiedere alla fine.
 
L’ispettore Hooper sospirò e raccolse anche lei tutto il suo coraggio, per cercare la mano del ragazzo e stringerla questa volta in una materna stretta. Forse lei e Greg avrebbero potuto far domanda di affidamento per il giovane Holmes, si ritrovò per un attimo a pensare.
 
“Credo di averlo visto, sì, assieme a sua madre e sua sorella. Tutta la famiglia Watson al completo, probabilmente...” ammise poi sconfitta.
 
Sherlock affondò i denti nel labbro inferiore: di lì a pochi minuti sarebbe dovuto entrare in quell’aula e davanti a tutti i cittadini di Fulworth nel Sussex – e alla famiglia che aveva amato come se fosse stata la propria – rivelare di essere omosessuale, rivivere l’inferno che aveva vissuto per mano di John e dei suoi “amici” e probabilmente fallire nel misero tentativo di spendere una, dieci, mille parole in favore di Mycroft essendo, per ironia della sorte, uno dei testimoni chiave dell’odiosa procuratrice, Kitty Riley.
 
Che cosa sarebbe accaduto se le persone in aula avrebbero commesso l’errore di credere che anche John fosse omosessuale? Avrebbe finito per diventare oggetto di scherno (o peggio) da parte dei suoi nuovi amici, esattamente com’era capitato a lui? Doveva proteggerlo.
 
Stupido, stupido Sherlock che lo ami ancora...
 
“E che mi dice di Jacob Thorne [1]?” domandò a sorpresa Sherlock, trovando gli occhi di Molly. Thorne era l’avvocato della difesa.
 
L’ispettore annuì decisa. “Ci penso io.” Gli batté con risolutezza una mano sulla coscia e poi s’alzò, lasciandolo nuovamente solo.
 
§§§
 
Ogni cosa, ogni più piccolo soprammobile e persino la tappezzeria alle pareti, nel piccolo cottage di Mycroft Vernet gridava MI6 da tutti i pori. A Sherlock bastò un rapido giro per le stanze per capire chi fosse il suo anfitrione: un uomo che aveva dato tutto se stesso al Governo e che da esso era stato scaricato.
 
Avevano molto in comune, dopotutto.
 
Il ragazzo non fece mai domande, ma le risposte gli giunsero comunque. Dai lineamenti induriti di Mycroft, o dal suo sguardo. Così come la vecchia macchina da scrivere che teneva su un tavolino e alla quale passava ore e ore.
 
“Sto scrivendo un libro [2]” gli aveva detto rimanendo sul vago.
 
Quell’uomo aveva un piano per vendicarsi del suo Governo, con il quale molto probabilmente credeva d’essere sposato. Un piano che forse era già iniziato da tempo o che stava per concretizzarsi, questo non gli era dato di sapere con esattezza.
 
Perché la triste verità è che quando ti voti completamente a qualcosa, aveva sentenziato Mycroft pulendo la sua PPK, non sempre questa ricambia il tuo voto, primo o ultimo che sia.
 
Pensava a questo il giovane Sherlock, la sera del suo terzo giorno di permanenza al cottage sperduto nel bosco, mentre era seduto davanti a un piatto di porridge.
 
“Sono davvero un così pessimo chef?” aveva scherzato Mycroft, il cucchiaio a mezz’aria.
 
Gli occhi di Sherlock scivolarono sul proprio pollice destro. Era immacolato: la pelle color latte gli rammentava insolentemente un giuramento di sangue che John aveva promesso ma che non aveva mai mantenuto.
 
“Il porridge va benissimo, grazie.”
 
E poi il giovane aveva chiuso gli occhi, permettendo all’immagine di John mentre faceva sesso con Mary di ucciderlo ancora una volta.
 
§§§
 
“Il giudice Magnussen ha decretato una piccola pausa: si riprende alle dieci e mezzo” lo avvertì l’ispettore Hooper sgusciando fuori dalla porta laterale dell’aula, quella riservata alle forze dell’ordine e ai funzionari del foro.
 
Sherlock balzò in piedi e le sue gote divennero ancora più pallide del solito. Questo voleva dire che John sarebbe uscito di lì entro pochi secondi, così come pure i suoi amici, i loro compagni di scuola, Mary…
 
“Vieni” disse Hooper, prendendolo per mano e trascinandolo via. Dal panico che balenò in quegli occhi chiari, non le era stato difficile intuire il panico in cui era stato gettato il ragazzo.
 
Un minuto dopo Sherlock si trovò chiuso in un bagno riservato, il cuore che pareva voler esplodere da un momento all’altro all’altezza della gola. Si appoggiò al lavandino con entrambe le mani e boccheggiò in cerca d’ossigeno.
 
Non voleva vedere John, non voleva vedere nessuno.
 
Voleva andarsene da lì, tornare a casa.
 
Solo che lui non ce l’aveva più una casa… nemmeno il suo rifugio preferito, casa Watson.
 
Ad attenderlo c’erano i servizi sociali adesso.
 
Aprì il rubinetto, s’arrotolò le maniche di giacca e camicia e sistemò i polsi sotto il getto corrente: un po’ di refrigerio, finalmente…
 
Si ricordava bene il giorno in cui aveva visto l’ispettore Molly Hooper per la prima volta. Era un’umida sera di metà luglio, quando lei e i suoi uomini avevano fatto irruzione al cottage di Mycroft per arrestarlo.
 
Sherlock aveva protestato, aveva scalciato e tirato pugni. Non voleva andarsene da lì, non voleva che il sistema accusasse Mycroft di qualcosa di cui non era colpevole. Perché il sistema sbagliava.
 
Ma alla fine ogni cosa s’era rivelata vana e lui s’era trovato dentro un’ambulanza, sdraiato su una barella, circondato da noiosi paramedici con un QI addirittura inferiore a quello delle scogliere che, da lì a poche iarde, si gettavano nella Manica.
 
E poi Molly era montata anche lei sul veicolo di soccorso, i capelli scompigliati e un velo di rossetto che le donava davvero.
 
“Va tutto bene, Sherlock. Ti abbiamo trovato e ti riporteremo a casa” gli aveva sussurrato con dolcezza. Il tono della voce gli aveva ricordato quello materno di Violet Watson, la donna che avrebbe voluto avere come mamma, se mai se ne fosse meritato una…
 
“Ti riporteremo a casa” aveva ripetuto, sedendogli affianco.
 
Sherlock aveva artigliato il materasso con le unghie e scosso violentemente il capo. “Non da Jim! Non riportatemi da lui…”
 
Per un attimo, avrebbe voluto aggiungere un ti prego a quelle parole, ma Sherlock Holmes non era mai stato un tipo da suppliche.
 
Il viso dell’ispettore Hooper si indurì a quella richiesta. “Non pensare al tuo patrigno, ora, cerca di rilassarti” gli aveva intimato.
 
Come avrebbe mai potuto rilassarsi al pensiero dell’uomo che più d’una volta aveva alzato le mani su di lui e su sua madre, quando il suo cuore ancora batteva? Come avrebbe mai potuto rilassarsi al ricordo delle ultime parole che Jim gli aveva vomitato addosso?
 
Allora sei davvero quella checca che i tuoi compagni di scuola sostengono! Se solo rivedo il tuo brutto muso qua dentro, ti farò rimpiangere d’essere venuto al mondo…
 
L’ambulanza s’era messa in moto sobbalzando, scuotendolo dai suoi pensieri.
 
Forse non sarebbe stato male, dopotutto, se Jim si fosse presentato in ospedale. Avrebbe fatto in modo di provocarlo, esibendo con orgoglio la propria diversità, e allora tutti avrebbero conosciuto il vero Jim Moriarty. Allora tutti avrebbero visto.
 
L’ispettore Hooper era rimasta al suo fianco tutto il tempo, durante l’accettazione al triage e anche dopo. Mentre attendevano i referti dei primi esami del sangue, aveva addirittura provato a manifestare la sua solidarietà abbracciando il ragazzo, ma vedendo la sua immediata ritrosia, si era arresa subito, instaurando una modesta ma strategica distanza tra i due.
 
Sherlock era rimasto seduto sul suo lettino con i muscoli tesi, lo sguardo vigile e le unghie artigliate alle candide lenzuola, aspettandosi di veder sbucare Jim da un minuto con l’altro. Ogni volta che la tenda che lo separava dagli altri pazienti veniva tirata da una qualche infermiera, Sherlock sussultava e si schiacciava un po’ di più contro lo schienale, in cerca di protezione.
 
Tutto questo fino a quando l’ispettore Hooper parlò.
 
“Jim Moriarty non verrà.”
 
Il ragazzo aveva distolto lo sguardo, gettandolo su un apparecchio per il rilevamento della pressione arteriosa dimenticato su un carrellino poco lontano da loro.
 
“Non oggi, forse, ma Jim Moriarty è un segugio che non abbandona mai l’osso, una volta che vi ha messo i denti sopra.”
 
Sherlock aveva fatto del proprio meglio per non tradire emozioni, eppure, a quelle parole, la sua voce tremò.
 
“Jim Moriarty non verrà più a farti del male perché è deceduto due settimane fa...”
 
Il ragazzo s’era voltato verso Molly, le belle labbra dischiuse in una perfetta O di stupore.
 
“Deceduto?” ripeté incredulo.
 
L’ispettore annuì. “Il suo capo dello staff, Sebastian Moran. Una lite scoppiata dopo una partita a carte andata male.”
 
Il suo patrigno parlava di sovente del suo braccio destro – Sebastian, Sebastian, Sebastian... – e in quel momento Sherlock si considerò un po’ meschino poiché segretamente provava sollievo nel sapere che Moran lo aveva liberato da un pesante fardello.
 
Quasi quasi lo avrebbe ringraziato con un bacio in bocca.
 
Ma che ne sapeva dei baci, lui? Sherlock Holmes, sedici anni, non aveva ancora donato le sue labbra a nessuno...
 
Grazie al Cielo, una cosa era finalmente certa: che Jim Moriarty non lo avrebbe più fatto soffrire. Non avrebbe più alzato le mani su di lui, né lo avrebbe più usato per testare quanto fosse tagliente il vetro delle bottiglie della sua marca preferita di Cherry.
 
Soprattutto, non lo avrebbe più minacciato di porre fine alla sua vita.
 
Sherlock Holmes s’era abbandonato a un lieve sospiro di sollievo, rilassando finalmente i muscoli e abbandonando le membra stanche nel materasso.
 
Era solo al mondo, adesso, ma almeno nella solitudine non avrebbe più rischiato di soffrire.
 
§§§
 
“Come te lo sei fatto?” aveva chiesto Mycroft una mattina. Erano seduti in veranda, su due seggiole di vimini. Non una sola foglia si muoveva in quell’afa insolita per il mese di giugno e nessuno di loro aveva parlato per diverso tempo. La porta d’ingresso era socchiusa e dal salotto giungevano le note di un brano di Nina Simone.
 
Vernet[3] gli stava pian piano insegnando i linguaggi del corpo – amore, odio, inquietudine, tradimento... – per leggere gli altri anche quando non aprivano bocca. Era stato in quella occasione che lo aveva notato.
 
“Il tuo polso, intendo. Ho notato che fai fatica a piegarlo da quando sei qui” aveva spiegato l’uomo all’inarcarsi dubbioso di un sopracciglio del giovane.
 
“Non è stata la sua catena” aveva risposto pronto Sherlock.
 
Uno sbuffo annoiato. “Ovvio, l’avevo messa all’altro braccio. Dovresti smettere di dire banalità. Non s’addicono a una persona intelligente come te” era stato il commento di Mycroft, chinandosi per bere un goccio d’acqua dalla brocca sul tavolino tra le due sedie.
 
“Stamford e Sholto” rispose Sherlock, accigliandosi al ricordo.
 
Un improvviso alito caldo riscaldò i piedi nudi del ragazzo: una palla di pelo stava leccando affettuosamente le sue dita lunghe e magre. Era Barbarossa, il cane di Mycroft.
 
“Dal tono della voce deduco che sono persone che conosci ma con cui ovviamente non hai un buon rapporto. Li chiami per cognome, quindi forse compagni di scuola?”
 
Sherlock aveva annuito piano, allungando una mano per regalare una rapida carezza al muso di Barbarossa, il quale aveva uggiolato tutto il suo apprezzamento.
 
“E non si è trattato di un incidente, bensì di un fatto voluto.”
 
Il ragazzo aveva annuito di nuovo. Il suo labbro inferiore aveva tremato appena, quando, abbassando le palpebre, il suo cuore prese a rivivere la scena: Stamford e Sholto che lo sorprendevano, che lo trascinavano dentro quella stanza, che lo obbligavano a guardare...
 
Il dolore della distorsione al polso non era stato nulla alla vista di John e Mary.
 
Di John su Mary.
 
Di John dentro Mary...
 
Eri stato sufficientemente eloquente con il tuo ‘no’, aveva mormorato a colui che fino a quel momento aveva creduto essere il suo unico amico, con voce piatta e calma che in apparenza non tradiva emozioni, mentre dentro la sua intera esistenza si stava frantumando in mille pezzi.
 
“Quando avrai voglia di parlare di ciò che ti ha ucciso, ragazzo, io sarò qui” lo avevano raggiunto le parole di Mycroft. Poi l’uomo s’era alzato in piedi, stiracchiandosi. “Sai, Sherlock, credo che l’unica cosa che ci protegga veramente sia la solitudine” aveva aggiunto, prima di richiamare Barbarossa con uno schiocco di labbra e rientrare in casa.
 
Quella sera, Sherlock gli avrebbe raccontato tutto.
 
§§§
 
Il sorriso di Greg Lestrade, seduto a pochi metri da lui, era caldo e rassicurante mentre Sherlock, in piedi e rigido al pari di una statua, alzava la mano per giurare. Osservando l’assistente sociale, si sarebbe avuta l’impressione di trovarsi in un accogliente pub di paese, invece che in un’aula di tribunale.
 
Il procuratore Riley chiarì alla giuria il ruolo ricoperto da Gregory prima di alzarsi, pronta per interrogare il giovane teste.
 
Sherlock aveva messo piede in aula tenendo lo sguardo fisso innanzi a sé. A tratti, lo fece oscillare tra la giuria e il giudice Magnussen, ma fece sempre del proprio meglio per evitare di incrociare quello di John, ovunque fosse seduto.
 
L’aria odorava di mille profumi: dai Chanel n. 5 e Yves Saint Laurent a quelli dozzinali in vendita per cinque sterline persino ai distributori di benzina in autostrada. Persino di sudore. Ma nessuna traccia di Claire de Lune.
 
Niente Mary Morstan, grazie al Cielo!
 
Kitty Riley pose per prima cosa le domande di routine e infine venne alla prima di quelle più importanti: che cosa era accaduto la notte di quel sabato di fine maggio.
 
Sherlock non rispose dapprima, limitandosi a osservare i tratti del viso del procuratore: poteva quasi leggervi una vita di frustrazioni e delusioni, in quei lineamenti. Frustrazioni che, secondo ciò che si diceva in giro, avevano annoverato anche il secondo marito di sua madre, Jim Moriarty, e che, magari, avrebbero potuto trovare una qualche sorta di riscatto, in quel processo.
 
Patetico.
 
E noioso.
 
“Signor Holmes, la prego di rispondere alla domanda” lo incalzò la Riley, la voce che tradiva ben più di una nota d’avversione nei confronti del ragazzo.
 
Sherlock sbuffò. “Sono andato a una festa” tagliò corto. Se l’MI6, con l’aiuto dell’ufficio del procuratore di Fulworth, volevano condannare Mycroft Vernet, che si accomodassero pure! Ma avrebbero dovuto farlo senza il suo aiuto.
 
Senza che lo avesse programmato o previsto, Mycroft lo aveva salvato e questo significava che era in debito con lui. Ma significava altresì che, se voleva mostrare alla giuria il lato buono di quell’uomo (per lo meno, la parte che lui conosceva), il prezzo da pagare sarebbe stato rivivere quella notte.
 
Ironico, perché solo fino a poco tempo prima avrebbe giurato che, se avesse mai dovuto dichiarare al mondo intero che esisteva qualcuno che lo aveva salvato, quel qualcuno sarebbe stato John Watson.
 
“Vostro Onore, posso considerare il teste ostile?” sbuffó la Riley, voltandosi verso il giudice con l’aria petulante di una bambina di cinque anni.
 
Magnussen annuì con aria annoiata.
 
“Vostro Onore, possiamo avvicinarci?”
 
La voce dell’avvocato Thorne sorprese tutti. Magnussen accordò il permesso con un’aria ancora più annoiata di prima, se possibile. Un attimo dopo, difensore e procuratore furono al suo cospetto.
 
Sherlock incrociò le mani in grembo e si sforzò ancora una volta di tenere gli occhi agganciati alle sue scarpe lucide.
 
Lo sguardo di John.
 
Se lo sentiva appiccicato addosso, che gli entrava sotto la pelle e arrivava a bucargli il cuore. Non fu un problema dedurre dove fosse seduto: balconata, prima fila, terzo posto.
 
Perché John odorava di buono.
 
Bastava alzare appena appena il capo e i loro occhi si sarebbero incontrati. Bastava appena un attimo e avrebbe goduto ancora una volta di quegli occhi blu che tanto amava. E che non lo ricambiavano.
 
Il cuore scalciava così tanto nel petto da far male.
 
Così vicini eppure così lontani.
 
“Vostro Onore, ritengo che il ragazzino sia spaventato del fatto di dover parlare della vicenda davanti ai suoi concittadini” stava intanto sussurrando Thorne alla sua sinistra. “Credo che andrebbe a beneficio di tutti se facessimo sgombrare l’aula...”
 
E in quel momento Sherlock sentì un altro sguardo su di sé: si voltò e scoprì gli occhi del giudice che lo stavano scandagliando con un’abilità degna di una RM. In pochi attimi, a Sherlock sembrò che Magnussen avesse individuato in lui dieci, cento punti di potenziale pressione.
 
Si osservarono, in silenzio.
 
Il giovane Holmes sostenne con fierezza lo sguardo del giudice e in quegli attimi, nell’aula, regnò il silenzio più assoluto.
 
Poi le labbra di Magnussen si tesero in un sorriso di potere, prima di esclamare: “Permesso accordato” e tornare a guardare innanzi a sé.
 
Sherlock sospirò compiaciuto e, d’istinto, i suoi occhi si posarono su Thorne, che annuì in segno d’intesa: Molly Hooper aveva fatto quanto richiesto.
 
Un attimo dopo, gli uscieri aprivano le porte e i presenti iniziarono ad abbandonare ordinatamente l’aula.
 
Non altrettanto ordinato fu il pensiero che attraversò rumorosamente la mente di Sherlock: John se ne stava andando, proprio in quel preciso istante, e con ogni probabilità non lo avrebbe più rivisto.
 
Affondò nuovamente le unghie nei palmi: questa volta fece ancora più male. E allora cedette.
 
Sollevò il viso e John era lì, in piedi davanti al terzo posto della prima fila della balconata, esattamente dove sapeva sarebbe stato. Indossava un paio di jeans chiari e una camicia rossa a scacchi. Teneva una mano appoggiata alla balaustra.
 
Ed era bellissimo, come sempre.
 
Il cuore di Sherlock si rivoltò su sé stesso e lo stomaco si chiuse, mentre gli occhi presero a dolere. Vide Harry accanto a John mettergli una mano sulla spalla, ma il ragazzo biondo non pareva intenzionato a muovere un solo passo, gli occhi blu ancora agganciati a quelli più chiari di Sherlock.
 
Eppure hai scelto lei, fu quello che pensò il giovane Holmes, una lacrima che scappava al suo controllo.
 
Poi la sua visuale si espanse e, accanto a John, Sherlock vide non solo Harry, ma anche il signor Watson e mamma Violet. La famiglia al completo.
 
La famiglia che Sherlock amava... La famiglia da cui si rifugiava ogni volta che suo patrigno Jim alzava le mani su di lui.
 
Non lo aveva mai rivelato a nessuno, mai veramente nemmeno a se stesso, eppure avrebbe tanto voluto far parte di quella famiglia, essere amato e non rimanere nella solitudine. E ora che li vedeva pian piano uscire dall’aula, uno dopo l’altro, regalandogli un muto e ultimo sguardo, il cuore che Sherlock pensava di non avere prese a sanguinare come trafitto da una lama.
 
Gli uscieri chiusero le porte con un rumore sordo: la famiglia Watson non c’era più.
 
L’ispettore Hooper donò a Sherlock l’ennesimo cenno d’intesa, che voleva significare “Noi siamo qui con te”, prima di sedersi accanto al marito Gregory.
 
Infine, il racconto del giovane Holmes iniziò:
 
 
John era il suo migliore e unico amico da diversi anni. Si erano conosciuti per caso fuori da scuola, dopo le lezioni un pomeriggio del primo anno.
 
Sherlock, magrolino e con un cespuglio di capelli ribelli, era stato beffeggiato da un gruppo di ragazzi del terzo anno e John, nella migliore interpretazione del sincero cavaliere dall’armatura lucente, aveva preso le sue difese.
 
“Non avevo bisogno del tuo aiuto, me la stavo cavando egregiamente da solo” aveva borbottato Sherlock mentre cercava di tirarsi in piedi e raccattare i propri libri.
 
“Te la stavi cavando bene con quell’occhio nero? Erano in tre, ben piazzati, e tu... Guardati! Sembra che non mangi da giorni!” lo aveva rimproverato John, aiutandolo.
 
Pur continuando nei suoi borbottii, Sherlock aveva accettato l’aiuto offerto dal ragazzino biondo suo compagno di classe, di cui conosceva soltanto il nome ma che sembrava appartenere a una famiglia che si preoccupava per lui, a giudicare dalla sua apparenza e dalle generose quantità di cibo che sbucavano sempre dal suo zaino.
 
Sorprendendo anche se stesso, aveva addirittura accettato il suo invito ad andare a casa sua per fare i compiti. Dopotutto, se si fosse presentato a casa con la divisa scolastica in quelle condizioni, una “ripassata” da parte del patrigno Jim sarebbe stata garantita.
 
Sherlock trascorse il pomeriggio con John e lo trovò semplicemente “perfetto”.
 
Dopo quel pomeriggio, ce ne furono molti altri e, in breve, divennero amici inseparabili. Non solo John era divenuto il migliore – unico – amico di Sherlock, ma anche il suo porto sicuro in cui rifugiarsi quelle volte in cui i rapporti con Jim si inasprivano. Così, spesso il giovane trascorreva le notti a casa Watson, dove sapeva avrebbe trovato l’amicizia di John, qualche sana scaramuccia con Harry e un abbraccio e un pasto caldo da parte di mamma Watson.
 
Gli anni sui banchi di scuola erano trascorsi rapidi sino a quando, pochi mesi prima, Sherlock aveva compreso d’essere innamorato di John.
 
Ed era sprofondato nel panico.
 
Amare era destabilizzante, perché col passare del tempo si scopriva sempre più vulnerabile e dipendente da John. Era una catastrofe, poiché sapeva che John, che cambiava ragazza al ritmo delle fasi lunari, non lo avrebbe mai ricambiato. Poiché sapeva che John Watson non ci sarebbe stato per sempre.
 
Per settimane, Sherlock fu combattuto tra la possibilità di dichiararsi e quella di soffocare il proprio amore. Sino a quando, un bel giorno di fine maggio, John si accorse che qualcosa non andava e gli domandò che cosa fosse.
 
“Sono gay.”
La rivelazione gli era sgusciata fuori dalle labbra senza permesso, mentre stava cercando di soffocare il maremoto d’emozioni che stava provando. Erano appoggiati al parapetto dei corridoio esterno che si snodava fuori dall’appartamento della famiglia Watson, intenti a guardare gli altri ragazzi del condominio giocare a basket, giù nel cortile.
 
“O almeno credo di esserlo. Non sono mai stato interessato agli altri ragazzi, o alla gente in genere. Tu lo sai bene. Ma c’è questa persona, questo ragazzo...”
 
Sherlock era nervoso e parlava martoriandosi le dita, evitando accuratamente lo sguardo di John.
 
“Ti fa sentire le farfalle nello stomaco?” aveva chiesto John, sorridente.
 
A quella domanda Sherlock s’era voltato, stranito. “Le farfalle?”
 
“Sì, insomma, ti fa sentire bene? Ti fa sentire speciale?”
 
“Oh, sì, mi fa sentire ogni giorno meraviglioso...” aveva convenuto il ragazzino, arrossendo appena sulle guance pallide.
 
“Allora credo proprio che dovresti dirgli cosa provi per lui, amico!” era stato il commento di John.
 
“Ma per te... Sarebbe un problema? Il mio essere... diverso?”
 
“Nemmeno tra un milione di anni, amico!” aveva ribattuto il biondino, battendogli affettuosamente una mano sulla spalla.
 
E Sherlock commise l’errore di credergli.
 
Giunse alla fine l’ultimo sabato di maggio, serata canonica del ballo di fine anno.
 
L’ultima cosa che Sherlock voleva era andarci.
 
L’ultima cosa che John voleva era non andarci.
 
Lui ci sarà? scrisse John su un bigliettino, che poi passò a Sherlock in un attimo in cui l’insegnante di matematica dava loro le spalle.
 
Il ragazzino deglutì e, indeciso su che cosa rispondere, rimase con la matita a mezz’aria per un po’.
 
Credo di sì
 
Allora penso proprio che dovresti andarci anche tu. E dichiararti!
 
Sherlock decise di fidarsi ancora volta di quella che credeva essere l’altra metà della sua anima.
 
Il pomeriggio del fatidico giorno Sherlock se ne stava accucciato ai piedi del letto, con le gambe incrociate. Aveva sistemato il laptop in grembo ed effettuato l’accesso a tumblr.
 
Era intenzionato a fare del proprio meglio per scoprire se fossero i maschi in genere a interessargli oppure solamente John.
 
John, John, John...
 
Quel nome gli riempiva la testa da far male.
 
Su tumblr si imbatté in un gifset così imbarazzante da fargli abbassare di colpo lo schermo del portatile. Le sue guance bruciavano.
 
Dio che imbarazzo...
 
Sherlock raccolse poi tutto il suo coraggio e riaprì il portatile.
 
E poi vide delle foto che l’imbarazzo precedente non era nulla a confronto. Eppure si trovò a desiderare che John facesse a lui quelle cose, anche solo la metà. Poter sentire finalmente le mani di John sulla sua pelle... Anche solo un abbraccio, o un bacio piccolo piccolo.
 
Ma una vocina nella sua testa gli sussurrava crudelmente che non era a lui che John avrebbe voluto fare quelle cose.
 
A quei pensieri proibiti il suo corpo prese a reagire in modi a lui pressoché sconosciuti. Si sentì improvvisamente spaventato; avrebbe voluto che John fosse lì con lui, per aiutarlo a comprendere, ma John non c’era e...
 
E poi arrivò Jim.
 
Era così immerso nel suo mondo da non accorgersi del suo ingresso nella stanza. Fu in quel momento gli eventi iniziarono a precipitare.
 
“Che cosa stai facendo, frocetto del cazzo?” tuonò il patrigno.
 
Il ragazzo trasalì per la paura, schiacciandosi contro il calorifero.
 
Non farmi del male pensò, mentre il desiderio d’avere John al suo fianco cresceva a dismisura.
 
“Allora sei davvero quella checca che i tuoi compagni di scuola dicono! Se solo rivedo il tuo brutto muso qua dentro, ti farò rimpiangere d’essere venuto al mondo!”
 
“E se così fosse?”
Il ragazzo lo aveva guardato con aria di sfida negli occhi, poiché sapeva che John lo avrebbe lodato per il suo coraggio.
 
Di tutta risposta, Jim portò indietro il braccio, pronto per colpire, ma Sherlock fu più rapido di lui: agguantò lo zaino e balzò fuori dalla sua camera, mentre il patrigno gli vomitava addosso un’altra sfilza di insulti, invitandolo a non tornare più sotto quel tetto.
 
Sherlock corse fino a quando il fianco non iniziò a far male. Corse fino a quando le gambe non lo condussero a casa di John.
 
“Sherl, per l’amore del Cielo! Cos’è successo?” aveva detto John, scostandosi dalla porta d’ingresso per farlo accomodare in casa.
 
Il ragazzino moro stava tremando.
 
“Jim...” aveva biascicato lui semplicemente, mentre scivolava sul divano.
 
John s’accomodò accanto a lui e, in un gesto d’affetto, cinse la vita dell’amico con un braccio, attirandolo a sé.
 
Oh Cielo!
 
E allora Sherlock tremò. Quant’era meraviglioso essere abbracciato da John! Quant’era delizioso sentire il tepore della sua pelle sfiorargli il viso! Erano sensazioni così intossicanti da far male.
 
Era innamorato di John e lo sarebbe stato per sempre...
 
Pian piano, raccontò all’amico cosa fosse accaduto con il patrigno, la testa ancora pesante per tutte le emozioni che stava provando.
 
“Tu stasera non torni a casa tua. Resti qui” aveva proferito John con decisione al termine del racconto. “E poi domani parleremo con i miei. Andremo ai servizi sociali, o alla polizia, ma questa storia deve finire!”
 
Sherlock seppe solo annuire, incapace di fare altro.
 
John gli preparò il the e, davanti a due tazze fumanti, portò la discussione sulla festa di quella sera, nel tentativo di distrarlo.
 
Già, proprio distrarlo...
 
“Non so se dirglielo. Voglio dire... E se non mi volesse? Se non gli piacessi?” aveva bisbigliato Sherlock, lo sguardo incollato alla superficie increspata della bevanda. Stava arrossendo e non poteva farci nulla.
 
“Tu sei meraviglioso, gli piacerai per forza!” aveva dichiarato John.
 
Sherlock arrossì ancor di più.
 
Ma se non piaccio a nessuno si disse il ragazzo. E poi ci sono tutte quelle femmine. Sarah, Mary...
 
“Senti, facciamo così. Se va male, dopo la festa, facciamo un giuramento noi due” era stata la decisione John. Si alzò e si sedette sulla sedia accanto all’amico. Prese la mano destra di Sherlock nella sua mancina, regalandogli una nuova cascata di brividi. “Faremo il giuramento di sangue! Così i nostri pollici testimonieranno per sempre la nostra amicizia!”
 
Gli occhi di John brillarono, mentre quelli di Sherlock si spensero: se fosse andata male, sapeva bene che non ci sarebbe stato alcun giuramento.
 
Il salone grande della scuola era pieno di lustrini, luci psichedeliche e musica insopportabile. Ma anche di femmine dal falso sorriso, come quella Mary Morstan, e studenti chiassosi e sguaiati, come Stamford e Sholto, la cui compagnia John pareva cercare più di quella di Sherlock.
 
A metà serata, il ragazzino sgusciò fuori dal salone e si sedette sulla gradinata antistante l’ingresso principale dell’istituto.
 
Se la sua mente non fosse stata annebbiata dai sentimenti che provava nei confronti del suo unico amico, avrebbe capito che le cose non sarebbero andate come desiderava. Ma c’era quella piccola fiammella nel suo cervello che gli sussurrava Fidati di John! Lo sai che lui è l’unico! Se lui dice che andrà bene, non può essere altrimenti!
 
Si stava mordicchiando nervosamente il labbro inferiore quando John comparve come uno spettro alle sue spalle. “Sei qui! Ti ho cercato ovunque!”
 
Il sorriso di John era così luminoso da far concorrenza a quello della luna sopra le loro teste.
 
Sherlock affondò ancor di più i denti nella carne.
 
“Allora? Glielo hai detto?”
 
Sta zitto, sta zitto!
 
Ma non ci riuscì.
 
“Glielo sto dicendo in questo momento...” aveva sussurrato, il cuore che galoppava in ogni angolo del suo corpo.
 
“Come sarebbe a dire?” aveva domandato il biondo, senza capire.
 
“Sarebbe a dire che sei tu il ragazzo che mi piace...” La voce di Sherlock s’era affievolita così tanto da spegnersi in un gemito.
 
Fu allora che il suo mondo iniziò a sgretolarsi davanti ai suoi occhi: il suo nucleo, John, aveva smesso di girare e il pianeta Sherlock stava morendo.
 
John Watson impallidì esterrefatto. “Io non sono gay!” s’era precipitato a chiarire con urgenza.
 
“Nemmeno io” aveva trovato Sherlock la forza di ribattere. “Ho fatto delle ricerche e sono giunto alla conclusione: non mi interessano gli altri ragazzi, mi interessi solo tu...”
 
In quel momento, Sherlock aveva bisogno di contatto umano. Aveva bisogno di sentire il suo John vicino ma non lo trovò. Allungò una mano ma John si ritrasse.
 
“Io... No, non posso” disse con decisione. E se ne andò, lasciando Sherlock tutto solo.
 
Crack! Qualcosa si spezzò.
 
Che cosa aveva fatto? Perché glielo aveva detto? Perché aveva dato ascolto a John? Perché di lui si fidava, semplicemente. Avrebbe dovuto dare retta al proprio cervello, non al cuore, perché era infallibile.
 
Si prese la testa fra le mani, con gli occhi che iniziavano a bruciare e il respiro che gli mancava. Rimase così per un tempo indefinito, fino a quando il suo mondo non subì un altro pesante scossone.
 
“Eccolo lì lo smilzo gay!”
 
“E così ti piace l’uccello, eh?”
 
Sherlock si voltò e fu preso dal panico: Stamford e Sholto erano davanti a lui e lo stavano schernendo. E così John aveva mandato i suoi nuovi amici...
 
“Lasciatemi in pace…” Aveva parlato a denti stretti, con una mano che iniziava a tremare.
 
“Oh no, non ti lasceremo in pace!”
 
“Vogliamo divertirci un po’ con te!”
 
Quello che accadde dopo rimase una matassa confusa di avvenimenti e dolore. In un attimo, Sholto e Stamford lo afferrarono, uno per un braccio e l’altro per un polso. Provò a divincolarsi ma lui era troppo gracile e loro troppo robusti...
 
Lo trascinarono per i corridoi della scuola e su fino al primo piano, sciorinandogli insulti direttamente nelle orecchie.
 
Sino a quando non si fermarono davanti alla porta di un’aula.
 
Sino a quando quella porta non venne aperta.
 
Sino a quando il suo cuore e il suo mondo non implosero definitivamente.
 
John stava facendo sesso con Mary Morstan, una ragazza del penultimo anno. Sulla cattedra.
 
Per un attimo che parve lunghissimo, ogni cosa si fermò e a Sherlock sembrò di non essere più in grado di respirare.
 
“Sherl...” aveva mormorato John, impallidendo e alzando la testa dal collo di Mary, che stava baciando fino a un attimo prima.
 
Sherlock distolse lo sguardo, ferito, dicendo con voce sottile: “Eri stato sufficientemente eloquente con il tuo no.”
 
Poi, raccogliendo tutto il suo coraggio e tutta la sua forza, si divincolò dalla stretta di Stamford e Sholto, provando un dolore terribile al polso, e scappò via.
 
Sentì John chiamarlo e gli altri due ragazzi ridere, ma non si voltò.
 
Uscì in quella notte buia, con il cuore che graffiava contro il petto. Fuori dai cancelli della scuola si bloccò: dove poteva andare? Cosa poteva fare? Il suo brillante cervello si rifiutava di cooperare. Gli accadeva sempre così quando c’era di mezzo John, ma questa volta bruciava più di mille ferite.
 
Non poteva tornare a casa, da Jim.
 
Non poteva nemmeno andare a casa Watson a riprendere le sue cose o a chiedere aiuto a mamma Violet, poiché l’ultima cosa che desiderava era dirle d’essere innamorato di suo figlio per vedersi di nuovo emarginato per la propria diversità.
 
Si frugò in tasca: aveva documenti, cellulare e quindici sterline. Si liberò del telefono, gettandolo in un cestino dei rifiuti: così nessuno avrebbe più potuto rintracciarlo, pur dubitando che qualcuno desiderasse farlo...
 
E poi prese a correre.
 
Corse via dal centro abitato, verso la foresta che si stagliava alle spalle di Fulworth. Corse sino a quando ogni muscolo del corpo prese a fargli male, fino a quando non era più in grado di respirare. Incespicò diverse volte nelle tenebre che gli impedivano di orientarsi e vedere. Qualcosa, un arbusto probabilmente, lo ferì a una gamba, ma non se ne curò.
 
Arrivò al fiume che tagliava in due il bosco e lì arrestò la sua corsa. Il gorgoglìo placido delle acque lo avvolse come un tenero abbraccio. Era come se la Natura gli stesse sussurrando che era tempo di fermarsi e di vivere serenamente, deponendo le armi.
 
Solo in quel momento s’accorse che il suo viso era rigato dalle lacrime. Non s’era mai sentito solo e spaventato come in quel momento.
 
Sfinito, si sdraiò a terra e si addormentò.
 
Si sarebbe svegliato a casa di Mycroft.
 
 
Sherlock raccontò tutto questo e molto altro ancora.
 
Disse ai presenti come l’imputato gli avesse offerto conforto nel momento più buio della propria vita. In quelle settimane che trascorsero assieme, fu per lui il fratello che non aveva mai avuto.
 
Gli aveva insegnato nozioni di base di difesa personale, a orientarsi nella foresta e sfruttare meglio i propri sensi per dedurre le cose che lo circondavano.
 
Gli aveva spiegato il piacere di leggere un buon libro, di essere affettuosamente lappati in viso da un cane fedele e di intrattenersi con giochini in apparenza futili come l’Allegro chirurgo.
 
Mycroft gli aveva illustrato anche come riconoscere se una persona fosse innamorata dalle pulsazioni e dalla dilatazione delle pupille (pur dubitando dell’utilità di questa nozione nella propria vita, poiché nessuno lo avrebbe mai amato).
 
In breve, Mycroft lo aveva accolto e accudito come se fosse stato un uccellino caduto dal nido e in procinto di morire. E, secondo Sherlock, una persona così semplicemente non avrebbe mai potuto essere una persona da condannare.
 
Quando il giovane tacque, nel silenzio dell’aula si udirono alcuni singhiozzi sommessi: erano dell’ispettore Hooper, che invano aveva fatto del proprio meglio per trattenersi; dell’assistente-stenografa del giudice Magnussen, che, nel suo splendido abito lilla, cercava di svolgere in una qualche maniera il proprio lavoro tra i singhiozzi; così come di una bella ragazza nella seconda fila della giuria, i cui grandi occhi da cerbiatta erano lucidi per la commozione.
 
Le uniche persone impassibili nell’aula erano Riley e Magnussen.
 
E Mycroft, al banco degli imputati, ma il ragazzo sapeva bene che la sua era soltanto una maschera, proprio come quella che lui stesso spesso indossava.
 
Nel silenzio, Sherlock udì un rumore provenire dalla balconata: per un attimo temette stupidamente che John fosse ancora là, ma quando alzò lo sguardo non vide nessuno.
 
Sciocco che non sei altro...
 
Tornò a guardare Riley, con il volto che si sforzava di non tradire dolore.
 
Sorprendentemente, il procuratore gli pose un altro paio di domande innocue e Thorne scelse di non controinterrogare.
 
Un minuto dopo era finalmente fuori da quell’inferno di ricordi.
 
§§§
 
La guardia giurata lo scortò nuovamente dentro la saletta di servizio. Lo informò che l’ispettore Hooper lo avrebbe raggiunto non appena le fosse stato possibile, prima di lasciarlo solo in quella stanza sterile che ormai conosceva a memoria: un lungo tavolo rettangolare e quattro sedie, ecco tutto ciò che conteneva.
 
Quando la guardia se ne fu andata, Sherlock s’avvicinò alle finestre, che occupavano tutta la parete di fronte alla porta. Guardò fuori: vide un uomo e una donna incamminarsi sui cinque gradini che conducevano all’ingresso del tribunale e un uomo con una bambina scenderli.
 
Poco più in là, uno scorcio di mare si lasciava intravedere tra i due alti edifici che sorgevano al di là della piazza.
 
Sospirò: chissà se John e la sua famiglia erano tornati in aula o se n’erano andati, per sempre.
 
Sospirò più forte: si disse che non doveva pensarci, che non doveva importargli, poiché non sarebbe cambiato nulla. Non lo avrebbe più rivisto, c’era poco da fare.
 
Lo sguardo scivolò sul suo pollice e lì tristemente rimase: l’assenza di una cicatrice che avrebbe testimoniato il giuramento di sangue bruciava più della sua ipoteca presenza. Avrebbe volentieri sopportato quella cicatrice e il piacevole ricordo del suo sangue mescolato a quello di John, anche se tra loro sarebbe finita ugualmente nello stesso modo, perché avrebbe significato che per un momento, anche uno solo, era stato davvero importante per John.
 
Stupidamente, aveva creduto che John ci sarebbe sempre stato per lui, invece non sarebbe stato così. Aveva scelto lei.
 
“E non me...” disse, dando voce ai propri pensieri.
 
S’avvicinò a una sedia, dov’era appoggiato il suo zaino. Sì, quello che aveva lasciato a casa Watson...
 
Lo aprì e ne estrasse un taccuino. Dalla tasca esterna prese una penna nera e poi si sedette sulla sedia accanto.
 
Mycroft gli aveva consigliato di tenere un diario, o un blog. Sarebbe stato terapeutico, gli aveva detto, mettere nero su bianco le proprie emozioni, quello che gli capitava.
 
“Non mi capita proprio nulla” aveva borbottato.
 
“Oh, sono certo che in futuro ti capiteranno cose che tutti vorranno sapere” aveva ribattuto fraternamente Mycroft, sorridendogli.
 
Sherlock riteneva di non essere proprio capace di tenere un diario. Considerava il narrare di sé una sorta di sentimentalismo inutile, tuttavia acconsentì.
 
Invece di narrare le sue giornate, aveva optato per un approccio diverso: annotare parole slegate tra loro, che comunicavano in sintesi ciò che provava.
 
Era per questo che, aprendo il taccuino, i suoi occhi si trovarono di fronte, come prima, una pagina piena zeppa di John scritto ovunque.
 
Andò alla prima pagina libera, sfilando il segnalibro con cui l’aveva contrassegnata: un bigliettino bianco, di quelli che vengono spediti con i mazzi di fiori.
 
Se lo rigirò tra le mani e poi lo annusò: profumava ancora dei giacinti con cui era stato spedito. Lo aprì sentendosi pervadere da un moto di nostalgia:
 
Ti auguro una pronta guarigione. Ricordati che sei forte. Violet Watson
 
Era il secondo giorno in cui si trovava in ospedale, dopo che lo avevano portato via da casa di Mycroft.
 
Lo avevano sottoposto a esami su esami, rivoltandolo come un calzino, alla ricerca di segni di violenza lasciati ipoteticamente da Mycroft. A parte quelli di vecchie fratture, di cui Jim era fautore, non trovarono nulla.
 
Stava tornando dal reparto di radiologia quando si trovò la prima sorpresa di quella giornata: la sua camera era zeppa di vasi e mazzi di fiori. Rose, gerbere, margherite, giacinti... Un’apoteosi di colori, profumi e bigliettini.
 
“Il popolo di Fulworth ti ama!” aveva cinguettato l’infermiera che lo accompagnava sempre con gentilezza a tutte le visite, una signora anziana di nome Hudson.
 
“Mi... ama?” aveva ripetuto Sherlock, incredulo.
 
Amare, quel verbo gli risuonava alle orecchie in modo davvero bizzarro se associato a se stesso.
 
“Sì, tesoro mio! Channel Four non parla d’altro! Di te, della tua scomparsa, di dove ti hanno ritrovato... E soprattutto del tuo patrigno. Non oso immaginare che cosa ti abbia fatto quell’uomo! Un vero e proprio diavolo!” aveva borbottato, mettendosi a rifargli il letto.
 
Sherlock s’era avvicinato a quella moltitudine di fiori con un po’ di timore. S’era inginocchiato e aveva iniziato a spulciare i bigliettini. C’erano nomi più o meno noti e altri decisamente sconosciuti.
 
Fino a quando i suoi occhi non s’erano posati su quel cognome. E il cuore gli era schizzato in gola.
 
“Sono tutti molto colpiti dalla tua storia e desiderano dimostrarti la loro solidarietà! E in effetti non vedo proprio come potrebbe essere diversamente! Però mi spiace, tesoro, di notte i fiori non possono rimanere qui, dovremo spostarli in corridoio...”
 
L’infermiera Hudson  continuava a parlare ma Sherlock non l’ascoltava: mamma Violet aveva pensato ancora una volta a lui.
 
L’aveva sempre amata e considerata una madre, forse anche in virtù del fatto che si chiamava come la sua vera madre, scomparsa cinque anni prima, dopo solo due anni di matrimonio con Jim.
 
E poi forse perché era la madre di John e tutto ciò che riguardava John era semplicemente meraviglioso.
 
Quelle poche parole gli erano entrate nel cuore e lì erano rimaste: erano risuonate come un addio, una sorta di Ti voglio bene Sherlock ma devo stare dalla parte del mio John.
 
Non poteva biasimarla; rimpiangeva solamente di non aver mai avuto il coraggio di dirle che l’amava come un figlio.
 
La seconda sorpresa di quel giorno arrivò a metà pomeriggio.
 
E fu terribile.
 
Era stato a una, secondo lui, inutile e noiosa seduta con una psicologa. Non aveva proprio potuto sottrarsi. Durante quei quarantacinque minuti aveva parlato quasi sempre lei, mentre Sherlock s’era chiuso in un ostinato silenzio.
 
Era dunque di cattivo umore quando tornò in camera sua. E sulla soglia il suo cuore si fermò: in camera ad aspettarlo c’era John.
 
John, John, John, John...
 
Avrebbe voluto scappare, ma anche non essere in altro luogo che quello. Avrebbe voluto vomitargli addosso tutta la sua rabbia, ma anche ribadire tutto il proprio amore.
 
Il biondo gli dava le spalle, le mani affondate nelle tasche dei jeans. Faceva oscillare il piede sinistro, in evidente tensione.
 
D’improvviso, John si voltò e a Sherlock sembrò che il mondo avesse preso a vorticare velocemente, troppo velocemente per lui.
 
“Sherl...” Aveva bisbigliato l’amico, arrossendo appena.
 
L’interessato aveva dovuto appoggiarsi alla porta per non barcollare.
 
“Jo... John” aveva farfugliato lui. Dopo aver messo tutti e due i piedi in camera, s’era strategicamente diretto accanto al letto, nell’angolo opposto rispetto a dove si trovava John.
 
Per due interminabili minuti, il silenzio regnò sovrano. Era come se entrambi gli eserciti stessero ancora studiando il campo di battaglia: nessuno voleva attaccare per primo.
 
“Come stai?”
 
Era stato John a spezzare infine il silenzio, con una domanda che risuonò inopportuna per entrambi.
 
“Benissimo” aveva sibilato Sherlock, artigliando il lenzuolo del letto con entrambe le mani. Sapeva che le sue parole sarebbero risuonate più false d’una banconota del Monopoli, ma non voleva darla vinta al suo ex migliore amico mettendolo a parte di tutto il proprio dolore.
 
Sembrava impossibile, ma John arrossì ancor di più. Poi aveva tirato fuori le mani dalle tasche, iniziando a chiuderle e ad aprirle nervosamente a pugno.
 
“Ti hanno fatto del male?”
 
“Chi?”
 
Sherlock aveva inarcato il sopracciglio a quella domanda.
 
“La persona... O le persone... Dove sei stato in questi mesi. Alla televisione stanno dicendo di tutto e di più.”
 
John era visibilmente a disagio, ma a Sherlock non importava: aveva patito troppo.
 
“Non è stata quella persona a farmi del male.”
 
Non aveva potuto farci nulla: la risposta gli era sgattaiolata fuori dalle labbra con naturalezza. ‘Sei stato tu, i tuoi amici e la tua ragazza a farmi del male’ dicevano i suoi tristi, ma risoluti occhi.
 
Così risoluti da costringere quelli di John a scappare via, in ritirata e gonfi di vergogna.
 
“Cucù! Ecco qui la tua cena, caro! Pollo e patate!”
 
Con un vassoio tra le mani, l’infermiera Hudson aveva fatto il suo ingresso nella camera ponendo così fine alla loro gelida reunion.
 
Mentre la donna sistemava il tutto sul tavolo, lo sguardo indagatore di Sherlock seguiva John in ogni suo più piccolo movimento, il quale pareva sforzarsi di far finta d’essere interessato a qualsiasi cosa – fiori, attacco per l’ossigeno, comodino... – fatta eccezione per il suo amico.
 
“Buon appetito!” Aveva cinguettato poi l’infermiera, lasciandoli soli senza nemmeno accorgersi della tensione che aleggiava nell’aria.
 
Sherlock continuava a fissare John e John continuava a evitare l’incontro di sguardi. E più lui lo fissava, più l’altro incredibilmente arrossiva.
 
“Io... Ti ho riportato il tuo zaino” aveva infine esordito John, recuperando l’oggetto dal pavimento nel punto in cui lo aveva appoggiato.
 
Sherlock nemmeno vi aveva fatto caso e la cosa lo fece irritare: non era da lui perdersi particolari; capitava sempre quando c’entrava John e la cosa non gli piaceva affatto.
 
“Lascialo pure lì, su quella sedia” aveva tagliato corto, senza nemmeno ringraziare. Non era proprio in vena di convenevoli, desiderava soltanto che John se ne andasse il più in fretta possibile.
 
No, non era vero: avrebbe voluto che rimanesse lì con lui, al suo fianco e per sempre, ma sapeva perfettamente che il proprio desiderio era pura utopia.
 
S’era sentito stringere il cuore.
 
John aveva ubbidito come un perfetto soldatino: era più che evidente che si sentisse a disagio e nervoso, ma Sherlock non aveva la minima intenzione di rendergli le cose facili.
 
“Bene, allora...” aveva detto il biondo, ammutolendosi subito dopo. Aveva mille cose da dire, ma nulla sembrava essere intenzionata a uscire dalla sua bocca.
 
“Allora arrivederci.”
 
Sherlock aveva completato la frase al suo posto, fingendo una finta sicurezza che non provava minimamente. Il suo mondo era una triste tavolozza di grigi e si doveva preparare a non rivedere più il suo John.
 
Raccogliendo le forze e comportandosi da adulto, Sherlock aveva poi allungato una mano, in segno di commiato.
 
L’amico era rimasto a osservare sconcertato quella mano tesa: sembrava una cosa così fredda e assurda... Poi aveva annuito e allungato anche la propria mano, andando a stringere quella di Sherlock.
 
“Arrivederci” aveva ripetuto.
 
In quell’attimo, un brivido aveva percorso la schiena del moro: stava di nuovo toccando John e sarebbe stato per l’ultima volta.
 
Il primo a distogliere lo sguardo fu John; a Sherlock era sembrato di scorgere una nota di malinconia sul suo viso, ma probabilmente era soltanto suggestione o inutile speranza.
 
E poi John era uscito dalla camera con movimenti meccanici, senza più cercare gli occhi dell’amico d’un tempo.
 
Rimasto solo, Sherlock aveva osservato impassibile le quattro mura attorno a lui: ogni cosa appariva estranea, surreale. Poi s’era seduto al tavolo e aveva preso a osservare il cibo nel piatto.
 
Se fosse stato un ragazzino normale, avrebbe dato sfogo alla sua rabbia scaraventando il piatto a terra. Se fosse stato un ragazzino normale, avrebbe urlato tutto il proprio dolore.
 
Ma Sherlock Holmes non era un ragazzino normale.
 
Sherlock Holmes si tenne tutto dentro.
 
Era rimasto a fissare il pollo nel piatto, senza mangiarlo, fino a quando gli occhi gli fecero troppo male per continuare.
 
Stava ripensando a tutto questo, mentre raccoglieva le gambe al petto e appoggiava i piedi alla sedia. Gli occhi scivolarono pigri sul taccuino aperto di fronte a lui sul tavolo.
 
Ciò che lo feriva di più non era il fatto che John lo avesse respinto, in fondo se lo aspettava, bensì l’essere stato abbandonato da colui che aveva creduto essere la metà di se stesso, nel momento in cui aveva più bisogno.
 
John lo aveva lasciato solo, ad affrontare Jim e ad affondare in una vita priva di felicità in cui soltanto lui e il resto della famiglia Watson rappresentavano un barlume di speranza.
 
Perché era così che si era sempre sentito accanto a John: completo. Aveva sempre creduto che lui e il suo unico amico fossero perfetti assieme, destinati a compiere magie l’uno accanto all’altro.
 
Ma probabilmente erano mere fandonie a cui credeva solo lui.
 
In quel mentre risuonarono tre colpi bussati alla porta. L’ispettore Hooper fece il suo ingresso nella stanzetta privata reggendo alcune cose tra le braccia.
 
“Il giudice Magnussen ha sospeso l’udienza per una breve pausa” annunciò, cercando di scostare una sedia con il piede.
 
Un’altra pausa? Quella giornata sarebbe stata interminabile...
 
Sherlock l’aiutò con la sedia e lei si sedette ringraziandolo con un sorriso.
 
“Hai delle ammiratrici!” disse Molly, appoggiando gli oggetti sul tavolo. Lui inarcò incuriosito un sopracciglio. “Questo dolcetto al cioccolato te lo manda l’assistente del giudice.”
 
La stenografa dal bell’abito lilla.
 
“Oh sì, Janine! Mi ha sistemato il vestito, stamattina, quando sono arrivato qui in tribunale.”
 
Per un attimo, gli occhi del ragazzo si illuminarono, ma durò appunto solo pochi secondi.
 
Poi l’ispettore Hooper gli mostrò alcune riviste scientifiche, che subito Sherlock guardò con interesse.
 
“Queste invece te le manda, un membro della giuria. Miss Adler.”
 
“La signorina in seconda fila, suppongo. Singhiozzava, quando ho terminato la deposizione...” disse il giovane, iniziando a sfogliare incuriosito le pagine di un articolo sul sistema solare.
 
“Sì, beh... In verità, mi aveva chiesto di comprarti riviste per adulti, ma ho pensato non fosse il caso” s’affrettò a chiarire Molly, le guance che si imporporarono velocemente. “Se non ti spiace rimanere da solo, io andrei a mangiare un boccone con mio marito” continuò poi.
 
Affetti. Tutti avevano degli affetti, tranne lui.
 
Molly si alzò facendo strisciare la sedia, ma poi si bloccò. Guardò Sherlock per un attimo con occhi gonfi di dolcezza, poi appoggiò una mano sul suo braccio. “Sta tranquillo, ragazzo mio. Io e Gregory faremo di tutto affinché la famiglia che si occuperà di te sia quella che sceglierai tu.”
 
Il ragazzo annuì piano, senza sollevare lo sguardo dalla rivista.
 
L’ispettore Hooper avvertì il braccio tremare sotto la sua mano.
 
Rimasto solo, provò a leggere le riviste, ma sembrava proprio che il suo cervello non volesse collaborare. Non era in grado di comprendere nemmeno le più banali delle frasi. Così, richiuse le riviste e il suo taccuino, si alzò e aprì la porta.
 
“Devo andare alla toilette” informò la guardia in corridoio. L’uomo accordò il permesso con un’alzata di sopracciglio.
 
Una volta in bagno, Sherlock osservò la propria immagine riflessa nello specchio: le profonde occhiaie raccontavano una storia di notti insonni.
 
Aveva paura, la verità pura e semplice era questa. Lui, che credeva che non ne avrebbe mai avuta, aveva paura di ciò che avrebbe potuto essere il suo destino, da quella sera in avanti. E l’aspetto più agghiacciante di tutto questo è che non aveva più nessuno a cui dirlo, nessun amico che avrebbe potuto dirgli “Ehi, andrà tutto bene, te lo prometto”.
 
Aprì il rubinetto e ci infilò sotto tutta la testa. Non gli importava se avesse bagnato anche l’abito elegante, non gli interessava se avrebbe finito per ammalarsi: aveva disperatamente bisogno di una bella scossa.
 
Poi tornò a guardarsi allo specchio, i capelli zuppi che ricadevano privi di vita sul suo viso. Prese una salvietta di carta dal dispenser e li asciugò in una qualche maniera, prima di tornare nella stanzetta privata. La guardia nemmeno si accorse del suo stato.
 
Gli bastò un secondo per capire che qualcosa non andava, quando aprì la porta.
 
Il taccuino era aperto, le riviste erano leggermente più inclinate di prima e c’era un odore diverso nella stanza. Anzi, un profumo.
 
Un profumo piacevole e fresco.
 
Mise dentro un piede e poi l’altro, con fare guardingo, e poi chiuse molto lentamente la porta alle sue spalle. Prese a scandagliare con gli occhi ogni centimetro di quell’ambiente, alla ricerca di conferme alla sua teoria. E poi notò qualcosa: sulla parete di destra, subito sotto il soffitto, il pannello a copertura del condotto di aerazione aveva perduto un bullone e minacciava di staccarsi.
 
Sherlock vi si avvicinò piano, con il naso all’insù, e, quando si trovò esattamente sotto, il pannello ebbe l’insolenza di staccarsi definitivamente. Il ragazzo lo afferrò con pronti riflessi. Lo strinse goffamente tra le braccia, sentendosi minuto sotto il peso di quel pannello così grande dal quale avrebbe potuto passare addirittura una persona.
 
Una persona con un buon profumo.
 
Un buonissimo profumo...
 
“Sherlock...”
 
Il giovane fece un balzo per la sorpresa, andandosi a schiacciare nell’angolo tra le pareti.
 
“Sono qui.”
 
Spaventato come se stesse per essere attaccato da una tigre, strinse il pannello ancora più a sé, quindi abbassò il viso quel tanto che gli bastò per esaminare il punto da cui era echeggiata la voce: accucciato sotto il tavolo c’era John.
 
Lo guardò confuso e con il cuore in gola, domandandosi se per caso la doccia fredda non gli avesse fatto più male che bene.
 
Ma aveva sentito il profumo, ascoltato la sua voce, notato gli oggetti scostati sul tavolo. C’era il pannello che reggeva tra le mani, così come quel bellissimo viso che lo stava osservando.
 
Era tutto vero, indubbiamente, eppure il “perché” gli sfuggiva ancora.
 
John mosse un paio di passi a gattoni sotto il tavolo e, contestualmente, Sherlock si schiacciò ancor di più nell’angolino, in preda al timore e alla confusione.
 
“Non avere paura, Sherl, non ti faccio del male!” s’affrettò a dire il biondo, allungando una mano per impedire all’amico di un tempo di essere risucchiato da quel luogo in cui stava sprofondando. Ma poi si rabbuiò in volto, abbassando il mento e la stessa mano. “Te ne ho già fatto fin troppo...”
 
Sherlock sentì la testa iniziare a girare in maniera insopportabile. “Come sei entrato?” Una pausa. “Volevo dire, è ovvio che sei passato dall’impianto di aerazione, ma come... Chi...”
 
“L’ispettore Hooper. Mi ha mostrato tutto il percorso dei condotti. Cioè, i punti più importanti. Ad esempio come arrivare dalla toilette a qui o...”
 
“O?”
 
“O in aula.”
 
Il cuore di Sherlock incrociò le braccia e smise di colpo di funzionare, mentre il respiro si fermava a mezz’aria. Si ricordò all’improvviso di quel rumore che aveva udito in aula, durante la deposizione, e in un attimo le sue gote assunsero un colorito rosso accesso.
 
“Tu hai assistito alla mia deposizione...” Fu un’affermazione più che una domanda. Un’affermazione disperata.
 
“E grazie a Dio l’ho fatto Sherlock! Non avevo idea di cosa... Cioè, l’avevo, ma così... Sentirlo dalle tue labbra...”
 
La voce di John era una melodia di tentennamenti e insicurezza, mentre usciva dal suo nascondiglio e si tirava in piedi. Sherlock provò a scappare ancora, ma disgraziatamente la stanza finiva lì.
 
L’amore della sua giovane vita era lì, a un passo da lui. Poteva sentire il profumo dei suoi lucenti capelli; se avesse allungato una mano, li avrebbe addirittura sfiorati...
 
Dio, avrebbe davvero voluto toccarlo...
 
Fu come se, in quel momento, John fosse perfettamente connesso a lui, tant’è che, con immenso timore, alzò la mancina per andare a posarla su quella di Sherlock, stretta così forte attorno al pannello da sbiancare le nocche.
 
Il ragazzino moro tremò.
 
“Sono stato un coglione. Un immenso coglione...” ammise, la mano dell’uno su quella dell’altro.
 
“E non solo quella sera, ma anche prima.”
 
Poi John sospirò e scrollò le spalle: sembrava finalmente pronto per togliersi un pesante fardello dal cuore e dall’anima.
 
“Ho sempre tenuto molto a te, Sherlock. Forse fin troppo. E ho fatto del mio dannato meglio per ignorare la cosa.”
 
A questo punto, strinse di più le dita sulla mano dell’amico ed egli lo lasciò fare.
 
“Perché i miei sentimenti mi terrorizzavano. E quando tu mi hai detto quali erano i tuoi, ero ancora più spaventato. Dovevo capire, dare un senso a tutto, se ero una cosa o l’altra. Per questo sono stato con Mary. Per... capire. E ti giuro su quanto ho di più caro al mondo che non ho detto io a quei due idioti di portarti nell’aula affinché tu ci vedessi.”
 
Il respiro di Sherlock si fermò nell’aria, proprio nell’attimo in cui John tacque. Con quel gigantesco pannello retto a fatica tra le esili braccia, suscitava un’immensa tenerezza.
 
“E cos’hai capito, da tutto ciò?” gli domandò, con un fil di voce e il cuore che scalpitava e così gonfio di speranza da far male.
 
“È una cosa un po’ difficile da spiegare...” ribatté il biondino.
 
Sherlock si abbandonò a un gemito di delusione: per una frazione di secondo ci aveva creduto davvero.
 
“Preferisco mostrartelo” riprese John, con un mezzo sorriso.
 
Fu un attimo, un fulmine dorato che squarciava il cielo cupo segnando l’inizio della tempesta. Le labbra di John premettero su quelle di Sherlock, in un confuso primo bacio a stampo. Il biondino aveva chiuso gli occhi, mentre il moro, al contrario, li aveva sbarrati sotto quell’impeto di passione imprevista.
 
John non voleva saperne di lasciare libera la sua bocca e Sherlock non riusciva far altro se non pensare a quanto fossero morbide e buone le labbra del ragazzo che amava. Proprio come se le era sempre immaginate.
 
Meglio di come le aveva immaginate.
 
Non avrebbe più voluto che John si staccasse da lui.
 
Ma poi accadde: John si staccò boccheggiando in cerca d’aria e Sherlock, con la testa che girava vorticosamente, mollò finalmente la presa sul pannello, che finì dritto dritto sul piede del biondino. John si lasciò scappare un’imprecazione.
 
“Scusa, scusa, scusa...” farfugliò Sherlock nel panico. Si chinò per riprendere il pannello e spostarlo, proprio mentre John faceva lo stesso, tant’è che le loro fronti finirono per scontrarsi. Si guardarono per un attimo negli occhi e poi scoppiarono entrambi a ridere. Sembravano tornati a essere quelli di un tempo, le lancette dell’orologio che erano state riavvolte per cancellare ogni sofferenza.
 
Poi John si fece d’improvviso serio.
 
“Non so se sono stato chiaro.”
 
Sherlock aggrottò la fronte e fece il massimo per trattenere un sorriso sghembo. “Mhm, no. Non proprio. Forse dovresti chiarirmi meglio le tue conclusioni...”
 
John sorrise di rimando, prima di avvicinare nuovamente le sue labbra a quelle dell’amico. Donò loro un timido bacio, un secondo e poi un altro ancora. Infine, inclinò appena il capo, quel tanto che bastava per poter regalare piccoli baci alla guancia, alla punta del naso, all’orecchio. Allargò le braccia e attirò Sherlock a sé, stringendolo in un abbraccio che significava mille cose.
 
“Mi sei mancato così tanto...” sussurrò.
 
Sherlock si sentì incapace di pronunciare anche una sola sillaba. Allora si limitò ad affondare il viso nel collo di John, strofinandolo dolcemente con il naso. La pelle di John aveva un profumo meraviglioso, intossicante.
 
“Ho creduto che non ti avrei più rivisto. Che saresti morto, ovunque ti trovassi. E sarebbe stata tutta colpa mia...”
 
Un singhiozzo spezzò la voce del ragazzo e Sherlock, di tutta risposta, gli cinse i fianchi un po’ goffamente. Un secondo dopo tremavano entrambi.
 
“Potrai mai perdonarmi?” domandò John. Sentì le ciglia dell’amico solleticargli il collo: capì che stava riflettendo. Poi Sherlock si staccò da lui, lo guardò pensieroso negli occhi e infine baciò ciascuno di essi.
 
“Se mi vuoi bene, non me ne andrò più.”
 
Il biondo annuì piano.
 
“Devi dirmelo!” ordinò Sherlock, accigliandosi. “Ho bisogno di sentirlo dire dalle tue labbra.”
 
Allora John accostò il viso a meno di un centimetro dalle labbra di Sherlock, le leccò e poi, con tutta la dolcezza di questo mondo, bisbigliò: “Ti amo.”
 
Sherlock si morsicò il labbro che la lingua di John aveva appena carezzato, per non scoppiare a piangere, mentre i suoi occhi si riempivano tuttavia di lacrime. Non ebbe il tempo di ribattere nulla poiché l’amico lo soffocò nuovamente in un abbraccio.
 
Rimasero così, stretti l’uno all’altro, per un tempo indefinito, beandosi ciascuno dei battiti del cuore dell’altro, che ormai avevano capito di appartenersi.
 
Fu John a spezzare il dolce silenzio.
 
“Mia mamma è andata a parlare con il signor Lestrade.”
 
Sherlock inarcò un sopracciglio, perplesso.
 
“Vuole fare domanda affinché tu venga affidato alla nostra famiglia. Sin quando sarai maggiorenne o per quanto vorrai. Secondo l’agente Hooper non dovrebbero esserci problemi, soltanto formalità.”
 
Il cuore di Sherlock prese nuovamente a galoppare come un forsennato al centro del petto: stava per avere la famiglia che aveva sempre desiderato. Era così meraviglioso da suonare irreale.
 
“Sempre che a te vada bene” aggiunse pronto John. “Sherl?” lo incalzò dopo qualche attimo, non ottenendo risposta.
 
E poi sentì qualcosa inumidirgli il collo: il ragazzo che stava tenendo tra le braccia – il suo ragazzo – stava piangendo. Fu invaso da un moto di dolcezza, così come nuovamente dai sensi di colpa.
 
Sherlock ci aveva provato, a non piangere. Era da quella sera che non versava più una lacrima, ma ora non era riuscito a trattenersi oltre. Così, aveva lasciato libere un paio di lacrime o due, che erano state subito seguite da qualche singhiozzo e infine da un liberatorio pianto a dirotto.
 
E si ritrovò a pensare che, tutto sommato, il piangere, l’abbandonarsi ai sentimenti non era poi male, se ora c’era John che affondava le mani nei suoi riccioli neri, che lo stringeva amorevolmente a sé accarezzandogli la schiena, che lo ricopriva di piccoli e dolci baci ovunque...
 
Rimasero così, abbracciati a coccolarsi, fino a quando il sole iniziò la sua pigra discesa nel mare di fronte alle scogliere.
 
Quando aprì la porta della stanza, l’ispettore Hooper li trovò ancora stretti l’uno all’altro. Arrossì, sorrise e li lasciò nuovamente da soli.
 
 
 
§§§
 
 
 
“Porta in apertura, attenzione!” gridò la guardia.
 
Sherlock fece mezzo passo indietro e si immobilizzò, attendendo che le sbarre mobili si aprissero del tutto per lasciare accesso alle celle. Quando si furono arrestate del tutto, si voltò verso l’uomo alle sue spalle, in cerca di indicazioni.
 
“È l’ultima in fondo, ragazzo!” disse la guardia.
 
Sherlock annuì e, mettendo lentamente un piede davanti all’altro, giunse all’ultima cella a sinistra.
 
Mycroft era lì. Seduto, gli occhi chiusi e il capo reclinato all’indietro. Rimase a contemplarlo per un attimo in silenzio e poi le sue labbra si tesero in un sorriso, mentre la mente correva al bacio d’amore che aveva scambiato solo poco prima con John.
 
Il suo John.
 
“Sherlock.”
 
La voce di Mycroft spezzò il silenzio. Aveva ancora le palpebre abbassate, eppure si era accorto che quei passi appartenevano al ragazzino che aveva tenuto sotto il suo tetto in quei mesi. Sherlock non si stupì di essere stato riconosciuto: era al cospetto di Mycroft Vernet, dopotutto, una delle poche persone davvero intelligenti che aveva mai conosciuto.
 
“Mycroft” mormorò il ragazzo.
 
“Hai l’aria del gatto che ha inghiottito il topo.”
 
Fu solo dopo aver detto questo che l’uomo aprì gli occhi e vide la conferma della sua supposizione nel sorriso ancora presente sul volto del giovane.
 
Sherlock alzò le mani e le appoggiò piano alle sbarre della cella.
 
“Ho appena avuto il mio primo bacio d’amore” bisbigliò, la felicità che illuminava i suoi occhi come gemme nel cielo.
 
“Ti prego, dimmi che non è stata quella giovane donna in seconda fila tra la giuria!” disse Mycroft, tirandosi in piedi pigramente.
 
“Ovvio che no!” si affrettò a chiarire il ragazzo. “È stato John.”
 
L’uomo annuì pensieroso. “John, dunque...”
 
Una pausa e poi Mycroft fu davanti a lui, al di là delle sbarre.
 
“Lo hai perdonato?”
 
Sherlock aggrottò la fronte, riflettendo sulla domanda.
 
“Perdonato sì, dimenticato no.”
 
Vernet annuì; pareva soddisfatto della risposta.
 
“Che cosa ti accadrà, ora?” chiese poi il giovane Holmes.
 
“Non lo so, Sherlock. La prigione, suppongo” rispose Mycroft con gravità, scrollando le spalle.
 
“Beh, qualunque sia il luogo in cui ti manderanno, ti verrò a trovare.”
 
Prese a muovere nervosamente un piede e poi continuò: “Sai, ho riflettuto. La solitudine non ha senso. Tutti hanno bisogno di qualcuno da amare.”
 
Gli sorrise, di un sorriso così bello e contagioso da indurre l’uomo a fare altrettanto.
 
“Grazie di tutto” concluse.
 
Mycroft Vernet annuì e si risedette, gli occhi nuovamente chiusi in attesa del proprio destino.
 
Sherlock rimase a osservarlo per un minuto, poi si voltò e imboccò il lungo corridoio, in direzione dell’uscita.
 
 
 
§§§
 
 
 
Un mese dopo
 
Sherlock si sedette sul dondolo in veranda, gli occhi che si posavano pigri sul prato dietro casa Watson.
 
La nuova casa Watson, quella che Violet e suo marito avevano comprato dopo aver ottenuto il suo affidamento.
 
Avevano sempre desiderato tutti andarsene dal vecchio appartamento e trovare una sistemazione più grande, con un bel giardino per un’altalena, un tavolone di legno su cui pranzare nelle calde giornate estive e magari anche un cane di grande taglia. L’arrivo di Sherlock era apparso a tutti il momento migliore per il cambiamento.
 
Un brivido spinse Sherlock a chiudersi la lampo della felpa e ad accoccolarsi meglio sul dondolo, portando le braccia al petto. Era un ottobre caldo, tuttavia verso sera l’aria frizzantina che arrivava dalla vicina costa richiedeva sempre un maglioncino leggero.
 
O tante coccole...
 
Sorrise al pensiero, mentre sentiva la portafinestra scorrere alle sue spalle. I pesanti passi di John gli comunicarono che il suo ragazzo stava arrivando.
 
“Mamma dice che domenica vuole fare una maratona di DVD. Con tanto di popcorn, cupcakes e altre... Schifezze varie!” trillò allegro John, sedendosi accanto a lui e appoggiando i piedi al tavolino di fronte a loro.
 
“DVD di che cosa?” domandò Sherlock, già preoccupato.
 
“Di quello che piace a te, scegli tu. Non hai mai fatto una maratona di DVD. È la tua iniziazione!” ridacchiò il biondo. Si voltò verso di lui, donandogli il più luminoso degli sguardi e il più innamorato dei sorrisi.
 
Sherlock lo contemplò per un attimo, pensando a quanto fosse stato fortunato a riuscire finalmente a ottenere tutto questo.
 
“Non vedo l’ora...” commentò. L’idea di una maratona di DVD lo terrorizzava letteralmente, mentre per quanto riguardava tutto l’affetto che gli stava dimostrando la famiglia Watson... beh, a quello non si sarebbe mai abituato.
 
John ridacchiò, poi gli cinse le spalle con la mancina e lo attirò dolcemente a sé.
 
“Tranquillo” gli sussurrò all’orecchio, “ti assicuro che ne uscirai vivo!”
 
Sherlock si sistemò meglio nel grembo del suo ragazzo, stendendo le lunghe gambe, e chiuse gli occhi. Sentì John affondare una mano tra i suoi capelli e iniziare ad accarezzarli teneramente.
 
Le carezze di John...
 
Nemmeno a quelle si sarebbe mai abituato. Erano una melodia di amorevoli attenzioni che il ragazzo dedicava non soltanto ai suoi riccioli color delle tenebre, ma anche alla schiena, alle guance, alla pancia. E ogni volta, ogni singola volta che John lo sfiorava, Sherlock provava una cascata di emozioni che divenivano sempre più difficili da gestire.
 
Si domandò quando sarebbero divenute addirittura impossibili, quando sarebbe arrivato il momento in cui loro due...
 
“Ti prego, solo non scegliere film con morti violente! Mamma è facilmente impressionabile!”
 
La voce allegra di John lo riscosse dalla valutazione in chiave sessuale del loro rapporto. Sarebbe capitato quando sarebbe stato giusto, tagliò corto il suo cervello.
 
Abbracciò con entrambe le braccia la coscia di John, stringendosi di più a lui.
 
“Posso scegliere qualche documentario del National Geographic?” si informò, sorridendo.
 
“Mhm... Se mi dai un bacio, vedrò di intercedere con mamma!”
 
Lamentandosi del fatto che si era appena messo comodo, Sherlock si tirò dritto, trovandosi a un centimetro dalle labbra di John. Erano sottili, di sovente screpolate, eppure lui le considerava splendide. Da amare senza ritegno.
 
Donò loro un piccolo bacio, quel tanto che bastava per infastidire il suo ragazzo.
 
“Tutto qui?” borbottò il biondo. “Non me ne sono quasi nemmeno accorto!”
 
Sherlock ridacchiò, prima di chinarsi nuovamente verso quelle labbra. Dette loro un altro bacio e un altro ancora; e poi tirò fuori la lingua e le leccò avidamente. John mugolò in totale piacere.
 
“Dove... Mhm... Hai imparato tutto questo?” domandò, abbassando le palpebre per gustare meglio il sapore di Sherlock.
 
“Su tumblr!” rispose l’altro, gioviale.
 
“Su... Cosa?” proruppe John, staccandosi repentinamente da Sherlock e sgranando gli occhi.
 
“Sta arrivando tua mamma” disse il moro, notando dei movimenti al di là dei vetri e mettendosi a sedere compostamente.
 
Le guance di John si accesero come dei peperoni.
 
“Oh beh, tanto sa di noi...” mormorò più a se stesso che a Sherlock, occupando con un cuscino lo spazio vuoto che si era venuto a creare nel suo grembo.
 
“Vi ho portato la merenda, ragazzi!”
 
La signora Watson era comparsa alle loro spalle facendo scorrere la portafinestra con un piede.
 
“The e biscotti” continuò, appoggiando un vassoio sul tavolino.
 
“Grazie, mamma.”
 
“Grazie, signora Violet.”
 
A quelle parole, la donna si accigliò. “Quando imparerai a chiamarmi anche tu mamma, Sherly? Mi farebbe davvero piacere, sai?”
 
Le pallide gote del ragazzo si colorarono appena.
 
“Oh, presto, spero...”
 
Quando tornarono soli e Sherlock voltò nuovamente il capo verso John, notò che lo stava fissando in adorazione.
 
“Smettila di guardarmi così! Mi fai arrossire!” lo ammonì.
 
“È quello che desidero! Sei bellissimo quando arrossisci!”
 
E Sherlock arrossì ancora di più.
 
“Vieni qui” aggiunse John, attirandolo nuovamente a se.
 
Poi affondò nuovamente le dita tra i suoi riccioli: ci stavano proprio bene, era davvero il loro posto.
 
“E, vediamo, cos’altro hai imparato su tumblr?”
 
Sherlock sorrise contro la sua coscia.
 
“Te lo faccio vedere stanotte.”
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: un mondo infinito di ringraziamenti a Hotaru_Tomoe (tvb!) per tutti i consigli che mi ha dato <3 So bene che, dal punto di vista legale e forse anche sotto altri, questa storia ha poco senso, ma guardatela come un mio ennesimo omaggio al Johnlock e al teen!lock. Il nome dell’avvocato della difesa, [1], è il nome del procuratore in Law & Order UK, per la gioia della mia SAranel. L’idea di Mycroft che scrive il libro, [2], mi è venuta ripensando a un film con Walter Matthew che amavo tanto da bambina, in cui lui è un ex agente CIA che viene “scaricato” e che pensa di vendicarsi scrivendo un libro in cui spiattella tutti i segreti dall’Agenzia. Vernet, [3], è un riferimento al Canone, cognome degli antenati di Holmes francesi per parte di madre.
   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: rosie__posie