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Autore: Soqquadro04    06/04/2014    4 recensioni
[AU!Delena - tutti umani | Triste, tristissima | Death Character | Inverosimile et sdolcinata]
[...] Teneva le dita intrecciate alle sue, appoggiate sul materasso anche se la posizione era scomoda – all'improvviso, lei aveva districato la mano e si era seduta, a gambe incrociate.
Doveva togliersi quel maledetto vestito – sarebbe impazzita, altrimenti. Non voleva più vederlo – bruciarlo, ecco cos'avrebbe dovuto fare.
Lui l'aveva osservata distrattamente mentre abbassava la zip, sfilandosi poi l'abito dai piedi – non si era preoccupata di essere rimasta in intimo, anche se avevano quindici anni e gli ormoni e tutte le altre cose che ti spiegano quando inizi a notare che in giro ci sono ragazzi davvero carini e che le ragazze non sono poi tutte noiose maestrine.
Era Damon – e anche se era un ragazzo davvero molto, molto carino era probabilmente la persona che la conosceva meglio al mondo e sua madre era appena morta e non pensava minimamente che quel che era successo sarebbe potuto succedere.
Ma
era successo.
L'aveva baciata – così, senza preavviso,
l'aveva baciata e tutto era cambiato. [...]
Una storia lunga una vita - cose che succedono, persone che muoiono, che soffrono.
Questa è la vita.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Fandom: The Vampire Diaries
Disclaimer: se fossero miei potrebbero citarmi in tribunale per tutte le volte che li sto facendo fuori a turno – ripensandoci, potrebbero farlo comunque. Dovrebbero, forse.
Generi: Triste, Sentimentale, Romantico, Angst, momenti Fluff a volte
Avvertimenti: possibile (possibilissimo) OOC, AU, Death!Character
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
Iniziamo subito col dire che il romanzo che presta il titolo (meraviglioso) a questa storia è una cosa dannatamente stupenda. E se non l'avete letto vi considererò persone orribi- no, okay, in realtà, complici varie cose, non ha fatto grande audience.

E questo non mi va troppo giù (anche se posso capire se non ci siete mai capitate sopra, fidatevi se vi dico che merita) perché è, seriamente, uno dei libri più belli che io abbia mai letto, in una mentale classifica dei miei romanzi preferiti si piazza considerevolmente in alto, e quando dico considerevolmente in alto intendo veramente molto in alto.
E quindi sì, la citazione iniziale è anche l'inizio del libro, perché è uno degli incipit, di nuovo, più spaccacuore/strappalacrime/adorabili che personalmente io abbia, ancora, mai letto. E, nella mia seppur breve vita, non è che ne abbia letti poi così pochi, in effetti.
E avrei voluto citarlo tutto, ma diventava una cosa un po' troppo lunga e quindi ho dovuto tagliare qua e là, e ugualmente è decisamente troppo lungo come frase iniziale.
Ma diciamo che fa lo stesso.

Per il resto, non ho molto altro da chiarire: 'sta cosa è stata una complicazione infinita, oltre che emotivamente sfiancante.
In alcuni punti non sono riuscita nemmeno dopo dieci – e non scherzo: dieci – tentativi a mantenerli completamente IC, in altri mi è riuscito meglio, ci sono frasi che odio e pezzi che adoro.

In generale, AMO scrivere AU.
Anche se sono stanchissima.

È inebriante, sapete? Una volta, quando stavo appena iniziando ad avventurarmi nel mondo del fandom e a sfogliare le prime storie, ho letto da qualche parte che scrivere AU è molto più difficile che cimentarsi con delle Missing Moments – dopo aver capito di cosa diamine si stava parlando, mi ricordo che nella mia testa era inconcepibile prendere i personaggi (di qualsiasi cosa) e trasferirli da un'altra parte. Già ci sono rimasta un po' così quando ho scoperto che c'erano persone che scrivevano utilizzando i personaggi di altri (ripensandoci ora che è una cosa che fa parte della mia quotidianità, e chi mi conosce sa che considero lo scrivere fanfiction l'hobby in assoluto migliore del mondo, mi suona piuttosto ridicolo, in effetti), il minimo mi sembrava mantenerli nel loro mondo.
Probabilmente è anche questo uno dei motivi per cui, anche dopo essermi abituata a tutto quel che dovevo, ci ho messo così tanto tempo a iniziare a scrivere storie del genere.

Un altro è che sono fermamente convinta che per gestirne una decentemente devi conoscere i pg bene, ma bene, ma benebenebene. E devi fare tanto, tanto allenamento – anche se ho letto progetti di ragazze che se la cavavano alla grande anche dopo relativamente poco, ma quelle sono situazioni di talento strabiliante e sinceramente sarei felice se avessi anche solo un decimo di quelle possibilità fra le mani. #mamagari
Però in generale sono abbastanza soddisfatta.

Finita tutta questa parentesi che non mi ricordo perché ho fatto, buona lettura a chi vorrà leggere e, soprattutto, in bocca al lupo (sono 6364 parole di roba [leggi: buona parte è un mattone di crisi esistenziali e riflessioni depresse], non è da tutti) <3
Ah, no, non ho finito: la maggior parte delle ripetizioni, in particolare quella di “va/andava/andrà tutto bene”, sono volute. Comunque, se ne beccate qualcuna fatemela notare ugualmente, perché non sono tutte volute.
A presto,
la vostra Soqquadro

 

P.S. Ho sparato Enzo come altro vertice del triangolo Damon/Katherine/Stefan al posto di quest'ultimo perché mi sono resa conto che i Salvatore hanno sei anni di differenza e, nella fascia d'età che ho utilizzato, sei anni sono un abisso.
Quindi, sì, non c'entra nulla ma ce l'ho infilato in mezzo lo stesso – poretto, non se lo merita.

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Storia catastrofica di te e di me

C’è sempre un ragazzo che ti prende. E non parlo del fratello della tua migliore amica che ti prende la testa quasi strozzandoti, come se foste su un ring di wrestling. O del bambino a cui fai da baby-sitter che ti prende, ti si attacca alla gamba e non ti molla più.
Parlo di uno che ti prende e ti butta in una favola.
Indimenticabile. [...] Quel genere di presa. [...]
L’amore è così, è superviscido. Ti si avvinghia addosso appena ti volti a guardare come ti fasciano bene i jeans nuovi. [...]
E poi una mattina ti svegli e scopri la Verità. [...]
E non c’è niente di «elettrizzante» nell’innamorarsi. Ma proprio niente.
Alla fine quello che succede è che ti ritrovi a stare sempre da cani, più fuori che mai, devastata dalla paura che finisca male e che la tua vita ne esca rovinata per sempre.
E indovinate un po’? È proprio così che va.
Sì, certo, lui ha un profumo da paura. E tu ti sciogli quando ti manda un sms per augurarti la buonanotte e sì, d’accordo, i suoi occhi sono troooppo azzurri. [...] E sì, quando ti bacia il resto del mondo scompare, la tua mente si spegne e tu senti solo le sue labbra e non c’è nient’altro che conti.
E lui ti dice che sei bella e tutt’a un tratto lo sei.
Ma ho una notizia da darvi: è un gran casino, in realtà, un gigantesco incubo che vi esploderà in mano.
Non avete idea del pasticcio in cui vi siete ficcate.
L’amore non è un gioco. Le persone ci si tagliano le orecchie. Ci si buttano dalla Torre Eiffel, oppure vendono tutto quello che hanno per trasferirsi tipo in Alaska e vivere con gli orsi grizzly, e poi finiscono sbranate e nessuno le sente urlare aiuto.
Ecco com’è: innamorarsi è più o meno come essere divorati da un grizzly.
E credetemi, io lo so.
Perché, non ve l’ho detto? A me è successo. Cioè, non sono stata sbranata da un grizzly. Mi è andata molto, molto peggio.
Avevo quindici anni quando sono morta perché mi si è spezzato il cuore.

Storia catastrofica di te e di me – Jess Rothenberg

 

Il medico che diede la notizia era un veterano – dopo trent'anni di onorata carriera ne aveva viste di cotte e di crude ed era stato portatore di tante cose. Era stato abbracciato ed aveva abbracciato, era stato dispiaciuto e a volte, invece, indifferente.

Proprio quel mattino, prima che quel ragazzo arrivasse – incidente, frontale contro un'altra auto, l'altro guidatore se l'era cavata con poco – e lo contattassero d'urgenza, aveva letto un articolo quanto meno curioso su una rivista medica non esattamente stimata – parlava della sindrome del cuore spezzato.

Non si intendeva la depressione seguita a una delusione d'amore, tipica dell'età adolescenziale (a quella era abituato, vedeva casi tutto il giorno – fra cui a casa sua, ogni volta che la figlia rientrava in lacrime da scuola) – in linea col tono decisamente poco efficiente della rivista, si trattava invece della possibilità di morte in seguito a un forte trauma che, letteralmente, spaccasse in due parti il cuore.
Non ci aveva dato peso, limitandosi a cambiare pagina – sciocchezze, tutte sciocchezze.

Eppure.

Eppure quel ragazzo non ce l'aveva fatta – era uscito dalla sala operatoria dopo sette ore di intervento inutili, togliendosi la mascherina dal viso con un gesto stanco, e un'infermiera gli aveva indicato quella che supponeva essere la famiglia –, prima che potesse parlare, una donna rossa di capelli era corsa verso il bagno, tornando poco dopo con una giovane dagli occhi scuri, dall'aria esausta, distrutta, che doveva essere la sorella, o più probabilmente la fidanzata.

Non sa perché si era rivolto direttamente a lei – sembrava semplicemente più giusto, più corretto da parte sua dirle che non c'era stato nulla da fare. Non poteva lasciare il compito ai familiari – non sarebbe stato etico.

Eppure.

Era stato costretto a rimanere, dopo aver comunicato la cosa – perché sì ne aveva viste di tutti i colori, in trent'anni, ma non ricordava di avere visto mai così tanto dolore in un solo sguardo, così tanta pena in un gesto. Non aveva neppure cercato di aggrapparsi a qualcosa – si era semplicemente lasciata cadere a terra, senza nemmeno piangere.
E anche se gli era sembrata una cosa così terribilmente assurda, alla Romeo e Giulietta – a livello medico impossibile, fra l'altro –, era accaduta davanti ai suoi occhi e non è che poteva ignorarla.

Forse avrebbe dovuto chiamare la direzione di quella rivista, dopotutto.

 

*****

 

È tutto bianco – sono bianche le pareti e il pavimento piastrellato e le seggiole scomode (si ritrova a pensare che forse, alla fine, sono così dannatamente scomode per preparare le persone al dolore – perché seduti fuori da una sala operatoria le lacrime sembrano impregnare i muri, e davvero le sedie non possono essere altro che bianche e scomode).

Non riesce neppure a togliersi la giacca – per assurdo, fa freddo come allora (e poi, se si sforza, sente ancora la pallida ombra del suo profumo nella fodera interna e davvero non può rischiare di contaminarlo con l'odore asettico di disinfettante) e come allora nessuno esce e nessuno entra, e l'unica cosa che le martella in testa è il suo nome e non ha nemmeno la forza di piangere (non ce n'è motivo, del resto. Non c'è bisogno di piangere – non ce ne sarà più bisogno, non dopo tutto quello che lui ha fatto per farla ridere. Vero, amore?).

È un déjà-vu, un'orribile sensazione di ricordo – la stessa sala, che sembrava molto più grande e molto più vuota, quando era una bambina lì seduta, su quelle stesse sedie scomode, accanto a Jenna che singhiozzava, fragile.

Eppure ora sa, ora sente davvero, ora comprende – la paura le morde le viscere, le straccia l'anima e il cuore sembra non dover battere più.

 

Si sono conosciuti in un giorno di pioggia – pioggia che cadeva dal cielo come pianto delle nuvole, e scrosciava implacabile sulle foglie degli alberi (almeno, su quelle poche che erano ancora attaccate ai rami, come aggrappate disperatamente ad un ultimo brandello di vita).

Faceva freddo, quell'autunno, un freddo esagerato – lei aveva sei anni e i suoi genitori erano appena morti, erano andati in cielo, come qualcuno che non ricorda più le aveva spiegato una notte gelida di fine settembre.
Non aveva capito bene, in realtà, non subito – l'unica cosa che le era stata chiara era che non sarebbero tornati più.

Era fradicia, Elena, il giorno in cui si sono incontrati – uno scricciolo di bambina con troppi capelli in testa e abiti troppo leggeri addosso, raggomitolata sulla sabbia bagnata dell'apposita buca con le ginocchia strette al petto.

Tremava, quando aveva sentito la sua risata – attraverso il vento e il rumore dell'acqua, tintinnante come argento. Aveva sollevato appena gli occhi, sbirciando da uno spiraglio fra le braccia incrociate, e l'unica cosa che era effettivamente riuscita a vedere era stata una macchia. Gialla.
Subito dopo, si era ritrovata davanti, a due centimetri dal proprio, il volto di lui – e quasi sorride ripensando a quanto già era bello, persino a sei anni, con un impermeabile color limone indosso e i capelli schiacciati dentro il cappuccio, le guance rosse per la corsa, per il freddo o forse per l'ilarità, o magari per tutte e tre le cose insieme (quasi sorride) –, le iridi chiare accese da una scintilla di curiosità.

Si erano osservati a vicenda per un tempo indefinito, probabilmente una decina di secondi, prima che lui scrollasse le spalle, come indifferente alla situazione decisamente surreale, e le tendesse la mano, come un adulto in miniatura, le spalle dritte e lo sguardo orgoglioso. Azzurro.

«Sono Damon – tu chi sei?» allora non aveva trovato curioso il modo che aveva di presentarsi – non ci aveva fatto neppure caso, mentre, inizialmente titubante, gli stringeva le dita e lui la aiutava a rialzarsi, tirandola in piedi –, ma, col passare degli anni, si era accorta che dalla sua bocca non aveva quasi mai, se non proprio mai nel modo più assoluto, sentito uscire un “mi chiamo”.
Solo “sono”, come se il suo nome fosse tutto quel che poteva definirlo – come se non fosse semplicemente un nome, ma la sua stessa essenza.

 

Forse sta solamente trovando ragionamenti illogici dietro a una normale abitudine, ma al momento non le importa – qualsiasi cosa per non pensare, per dimenticare dov'è e cosa sta facendo.

 

Ricorda che aveva risposto sottovoce alla sua domanda, tenendo il viso inclinato in basso, le ciocche appesantite dall'acqua che le si appiccicavano alla pelle e contribuivano a renderla piuttosto simile a un anatroccolo spaesato sotto il suo primo acquazzone.
«Elena.» e lui le aveva sorriso, un sorriso a cui mancava uno dei denti davanti – un sorriso enorme e allegro e tanto luminoso che le era sembrato che il sole, all'improvviso, fosse spuntato da dietro le nuvole. In realtà aveva continuato a piovere, ma non era importato a nessuno dei due.

Damon l'aveva presa per mano, trascinandola sotto un albero e ciarlando con voce acuta, rapido, un canarino cinguettante – ormai non rammenta più di cosa, forse non l'aveva nemmeno udito –, voltandosi una volta o due a lanciare un'occhiata preoccupata agli abiti zuppi, con quell'irresistibile senso di protezione nei suoi confronti che non aveva smesso di accompagnarlo per tutti gli anni a seguire. Si erano seduti entrambi su una panchina – umida anche quella –, l'uno di fianco all'altra, e lui l'aveva guardata qualche altro secondo, prima di parlare, il capo inclinato di lato – assomigliava sempre di più a un uccellino, con quell'aria impaziente, il cappuccio scivolato sulle spalle – e le palpebre socchiuse.

«Io sono qui con Stefan, e la mia mamma. Dov'è la tua?» l'aveva domandato con una certa inevitabile innocenza, guardandola con quei suoi occhi troppo grandi e troppo azzurri, mentre lei sollevava lo sguardo alle nuvole, una piega triste delle labbra, senza neppure domandarsi chi fosse Stefan.

Aveva alzato appena la mano, come a voler raggiungere la pioggia, ormai sempre più debole, prima di rendersene conto e arrossire, abbassando il braccio.
«In cielo.» aveva distolto anche gli occhi dalla coperta grigia sopra le loro teste, corrugando la fronte e sentendo una stretta al cuore – le sarebbe diventata così familiare, col tempo.

Lui non aveva più parlato – le si era fatto un po' più vicino, titubante al vedere la sua diffidenza quando il suo ginocchio l'aveva sfiorata, per poi prendere coraggio quando aveva notato che tremava ancora.
Un attimo dopo, aveva la sua cerata gialla drappeggiata sulle spalle come una cappa, e lui sorrideva di quel suo sorriso speciale – appena prima che qualcuno chiamasse il suo nome, facendogli voltare istintivamente il capo.

«Damon! Dove sei? Damon!» girandosi nella direzione da cui proveniva la voce, Elena era riuscita a distinguere una figura alta e gialla quanto era prima lui, con in braccio qualcosa di più piccolo. E giallo.
Le venne il dubbio di avere incontrato una famiglia di papere a passeggio.

Quella che era, in realtà, una donna, li vide poco dopo – si diresse verso di loro quasi correndo e, quando si fece abbastanza vicina, lei riuscì ad osservarla meglio.

Era bella – un viso dolce e i capelli neri, bagnati, che le rimanevano appiccicati alle guance; gli stessi occhi di lui, celesti e vivaci e così incredibilmente vivi.
Fra le braccia aveva un fagottino minuscolo, un cosino avvolto in un impermeabile – giallo, naturalmente – decisamente enorme per lui – un neonato con le iridi verdi, limpide come solo quelle dei bambini sono.

Elena aveva spalancato la bocca, estasiata – era davvero, davvero tanto carino. Damon, invece, aveva cominciato a parlare – probabilmente spiegando a quella che doveva essere sua madre cosa ci facesse seduto su una panchina nel bel mezzo di un temporale, in compagnia di una sconosciuta.
La donna aveva corrugato la fronte, senza riconoscerla – come avrebbe potuto? Non si erano mai viste e probabilmente nemmeno l'avrebbero mai fatto, non fosse stato per quella situazione vagamente assurda, e lei era solo una bambina come tante altre, con i capelli scuri e gli occhi grandi – , ma poi le aveva sorriso di un sorriso teneramente comprensivo, sistemandosi meglio il piccolino fra le braccia.

Poi aveva parlato ed Elena era sicura di non avere mai sentito una voce così – era calda, bassa, dolce, appunto, come solo quella di una mamma può essere.
«Come ti chiami, piccola?» rischiò di farla piangere, perché la voce della sua, di mamma, era tanto simile alla sua da farle male – ma strinse i denti e, anche se non sorrise, le rispose, timidamente.

Non si preoccupava particolarmente del fatto che fossero due – tre – estranei: anche se le avevano sempre ripetuto di non parlare con gli sconosciuti, Damon aveva la sua età e la signora sembrava così buona – non potevano volerle fare del male.
Lei le aveva detto di chiamarsi Elizabeth, le aveva ri-presentato Damon e presentato per la prima volta il suo fratellino, Stefan – le aveva chiesto, cauta e discreta, se ci fosse qualcuno ad aspettarla a casa, se qualcuno sapesse dov'era.

Nessuno lo sapeva – era scappata, di nascosto, rifugiandosi nel parco dove la portava la mamma, che non era tanto lontano e davvero, fra poco sarebbe tornata a casa.
Elizabeth non aveva fatto in tempo a proporle di accompagnarla che, infine, Jenna era arrivata, bagnata fino alle ossa, trovandoli ancora su quella panchina vicina all'entrata – non aveva smesso un secondo di esprimere la sua più completa gratitudine a Elizabeth, strofinandole nel mentre le braccia per cercare di scaldarla, senza accorgersi dell'impermeabile giallo o di qualcos'altro che non fosse il sollievo per averla ritrovata.

Nemmeno lei si era ricordata dell'impermeabile, alla fine – non fino a che non erano già sulla strada di casa, con la promessa di un invito a cena perché non so come ringraziarla, davvero, grazie e il mormorio a metà fra il furioso e il preoccupato a morte di sua zia le risuonava nelle orecchie, quando aveva abbassato lo sguardo e aveva trovato il tessuto giallo limone e, proprio mentre smetteva di piovere, aveva rivisto il sorriso di quell'uccellino dagli occhi azzurri ed era solo stata contenta, per la prima volta dopo mesi.

 

Jenna oltrepassa trafelata le porte scorrevoli, guardandosi intorno, spaesata, prima di riuscire a individuarla, rannicchiata in un angolo su una di quelle maledette sedie, ancora in pigiama – e chi aveva pensato a presentarsi in maniera decente?
A chi sarebbe importato, soprattutto?

Si dirige nella sua direzione e, quando la raggiunge, nemmeno si spreca a parlare – semplicemente si inginocchia davanti a lei e la abbraccia, un po' a fatica per la posizione scomoda, accarezzandole i capelli e lasciando che finalmente abbia qualcuno a cui aggrapparsi, lasciandola piangere e stringerla quasi fino a soffocarla.

La conosce, quella paura – sa che non c'è molto altro da fare che attendere, e anche piangere, perché tutto quel dolore, tutto quel terrore, non possono rimanere rinchiusi per sempre.
Pensa che il destino o chi per lui abbia un'ironia crudele addosso – persino lo stesso ospedale, ed è come sentirsi morire dentro una seconda volta, perché ancora si tratta della sua famiglia.

Rimangono strette l'una all'altra per non sa neppure quanto tempo, e nessuno parla e tutto sembra incredibilmente immobile – perché, forse, illudersi che il tempo non passerà può servire a impedire che il dolore scavi troppo in profondità, che si ancori feroce alle anime e che disegni solchi sulla pelle.
E forse fermare il tempo è l'unica soluzione – ma non si può fermare il tempo.

 

L'ha desiderato anche un'altra volta – secoli prima, le pare –, di poter cristallizzare un momento e vivere in quel limbo per sempre.

Di anni, quella volta, ne avevano dieci – le elementari erano quasi finite (non erano nella stessa classe, nemmeno nella stessa scuola – eppure non era passato un pomeriggio, neppure uno, dopo quella famosa cena, senza che lui si presentasse alla sua porta, prima con Elizabeth accanto e poi, più tardi, da solo, in bicicletta. Non importava se era malato, se stava tossendo a morte o aveva trentotto di febbre, né se il giorno dopo aveva una verifica di matematica importantissima, era sempre lì) e le medie incombevano come ombre minacciose.

I cambiamenti bruschi ad Elena non sono mai piaciuti – da bambina rifiutava persino di tagliarsi i capelli, limitandosi a spuntarli di tanto in tanto per evitare che arrivassero a ricoprirla –, ed era già giugno e lei aveva una paura terribile di quel che sarebbe successo alla fine dell'estate, senza di lui.
L'avrebbe dimenticata, ne era certa – si sarebbe fatto nuovi amici, più grandi, più interessanti; magari una fidanzata bellissima che avrebbe occupato i suoi pomeriggi e lei, semplicemente, sarebbe stata accantonata, messa da parte come un vecchio giocattolo d'infanzia.

Era l'ultimo giorno di scuola – erano già usciti entrambi, finalmente, e lui era così euforico, mentre la trascinava verso il loro albero, in un angolo piuttosto sperduto del giardino di casa sua, che era davvero, davvero enorme, come l'edificio in sé, del resto.

La prima volta che aveva visto Villa Veritas era rimasta a bocca aperta – credeva che solo nei vecchi libri le case avessero ancora un nome, ma il cartello in ferro battuto che campeggiava all'inizio del viale d'ingresso non mentiva.
Col tempo si era – quasi – abituata alle stanze gigantesche e ai soffitti altissimi, e all'immensità dell'atrio e a tutte quelle altre cose che rendevano casa di Damon così magicamente antica.

Ma non riusciva ad essere spensierata quanto avrebbe voluto, mentre l'ansia continuava ad arrotolarle spiacevolmente lo stomaco – anche quando si erano lasciati cadere sull'erba, sotto le fronde protettive della quercia che sembravano quasi chiudersi su di loro, ridendo, sentiva il pensiero continuo e angosciante martellarle in testa e giocare a nascondino in fondo alle iridi scure.

E sapeva che era solo questione di tempo prima che anche lui si rendesse conto che c'era qualcosa che non andava – perché era sempre stato così, prima ancora che diventasse quello che la capiva, chi condivideva quei segreti che sembravano allora così importanti, chi le sorrideva quando qualcosa andava storto. Il suo migliore amico.

Damon era sempre stato questo, prima di qualsiasi altra etichetta che gli potesse venire messa addosso – solo il suo migliore amico, che le era accanto da anni e le sarebbe rimasto vicino. Forse.
Come volevasi dimostrare, due minuti dopo lui le si era piantato davanti, accigliato – seduti a gambe incrociate l'uno di fronte all'altro, come facevano solitamente quando c'era un discorso serio in ballo.

«Cosa c'è, Elena?» per certi versi, Damon era piuttosto maturo per la sua età – in qualche momento, qualche gesto distratto che le faceva intravedere il ragazzo, e poi l'uomo, che sarebbe diventato.
Quell'istante era uno di quelli – il vento che gli scompigliava leggermente i capelli, il tono basso, calmo, consapevole.

L'aveva guardato negli occhi, tentennando – poi aveva sospirato e si era rassegnata a non lottare. Tanto presto o tardi gliel'avrebbe comunque strappata, quella confessione – tanto valeva risparmiarsi ulteriore fatica.

«Te ne andrai, vero? Questo» allargò le braccia, indicando loro due e l'albero e il giardino intero «non ci sarà più. Nella nuova scuola ci sarà sicuramente qualcuno di più interessante e-» l'espressione sul suo volto la costrinse a fermarsi.
Non riusciva a capire se era più stupito, arrabbiato o se solo, semplicemente, non riuscisse a credere che lei avesse parlato – probabilmente tutte e tre le cose insieme, era sempre stato parecchio espressivo.

Comunque non era molto felice, quello era piuttosto chiaro – aveva ribattuto con un tono decisamente incredulo, quasi... ferito.

«Elena, ma cosa stai dicendo? Perché dovrei andarmene?» aveva imitato il suo gesto, la fronte ancora un poco corrugata «Questo è questo da praticamente sempre – perché dovrebbe cambiare? Non essere assurda.» aveva sbuffato le ultime parole, incrociando le braccia al petto. Non aveva sorriso – soltanto aveva continuato a fissarla, corrucciato, cercando di entrarle in testa, probabilmente per tentare di sezionare il suo cervello e capire da dove venivano fuori uscite del genere.
O qualcosa di simile.

Erano rimasti fermi così per almeno un paio di minuti, poi lui aveva sospirato, scuotendo la testa – si era piegato in avanti e, per un attimo, Elena aveva temuto che si sarebbe alzato e l'avrebbe lasciata definitivamente lì.

Sola.

Invece, Damon l'aveva sorpresa – si era allungato verso di lei e l'aveva abbracciata, un poco titubante, come se avesse paura di venire spinto via.
Non l'aveva fatto, naturalmente – anzi, l'aveva stretto a sua volta, inspirando profondamente.

Aveva sentito odore di pioggia e rammenta che aveva alzato gli occhi al cielo, cercando nuvole che non aveva trovato – solo anni e molti abbracci dopo aveva capito che era lui a profumare d'acqua piovana, per un qualche motivo a lei ignoto.

Dopo, quel giorno, avevano parlato poco e niente – non perché ci fosse imbarazzo, o perché fossero in qualche maniera straniti, semplicemente perché non c'era più nulla da dire.

Andava bene così.

 

Non sa quanto è passato da quando Stefan l'ha chiamata (lui non è ancora arrivato, è lontano, a Newport, e gli ci vorranno almeno due ore e mezza, di più se troverà traffico e quasi sicuramente lo troverà), o da quando è salita in macchina senza neppure vestirsi – non sa quanto è trascorso da che Jenna l'ha lasciata andare per sedersi accanto a lei, le sopracciglia corrugate e la mano destra che di tanto in tanto la accarezza.

Elena non si è ancora mossa dalla sua posizione – le ginocchia strette al petto, le braccia attorno a esse.
Solo ha il viso un po' più bagnato, gli occhi un po' più rossi – pensa e ricorda e si perde senza riuscire a ritrovarsi.

Non hanno notizie – nessuno ha notizie e per un secondo si chiede se Stefan sia già in auto, appena prima che sua zia le dica di avere chiamato il suo, di fratello, e si alzi per qualche passo e andare a prendere un caffè o un the o qualcosa.

Le chiede se ha fame, se ha sete, se ha sonno – se ha voglia di vestirsi, posso sempre richiamare Jeremy e chiedergli se ti porta qualcosa di Bonnie, o magari se può passare da casa tua.

Non ha fame, non ha sete, non ha sonno – però le chiede di chiamare Jeremy, andare a casa, portarmi quella felpa grande, dev'essere sul divano o su una sedia in cucina, grazie e la voce rischia di spezzarsi ancora e lei trema, trema, trema e non c'è nessuno a porgerle un impermeabile giallo.
Nota che non dice casa vostra – nonostante ormai lui viva lì e nell'armadio ci siano i suoi vestiti e in bagno lo spazzolino, e sparsi in giro i suoi libri e quel suo ridicolo giradischi e i colori ad olio appoggiati sul tavolo, non dice casa vostra, e l'unica cosa che riesce a fare è essergliene grata perché ha così tanta paura, così tanta.

 

Possono essere scorsi minuti o anni quando finalmente Jeremy arriva, Bonnie che lo sorpassa di slancio e corre verso di lei con i tratti alterati da qualcosa che può essere preoccupazione e tristezza e forse qualcos'altro, non lo sa – e un'altra stretta, un altro abbraccio lungo, che vorrebbe calmarla.
Suo fratello cammina più lentamente, fra le mani la felpa che le allunga senza guardarla negli occhi, posando una mano sul fianco della sua ragazza che lo lascia abbracciarla a sua volta.

Non sa dov'è finita Jenna – sarà da qualche parte, forse a cercare informazioni o forse semplicemente a sciacquarsi il viso.
Jeremy incastra il volto nell'incavo del suo collo, mormorando qualcosa sulla sua pelle – ci mette un po' a comprendere, la mente vagamente distaccata perché se si permettesse di essere completamente consapevole sa che non reggerebbe.

«Andrà tutto bene, Elena – andrà tutto bene.» e allora lo stringe un po' di più, un po' più forte – e ancora altri ricordi la investono e fanno male, e nemmeno lei sa quanto vorrebbe poter tornare indietro.

 

«Andrà tutto bene – lo so che sembra difficile, Damon. Ma andrà tutto bene.» era sincera – sarebbe andato tutto bene, non subito. Non sarebbe stato facile, non sarebbe stato rapido – ma sarebbe andato tutto bene, un giorno.

Una mattina si sarebbe svegliato e il dolore no, non è che sarebbe scomparso, assolutamente non sarebbe stato così, ma si sarebbe reso conto di riuscire a respirare ancora – si sarebbe accorto di poterlo relegare in fondo ai pensieri e comunque non sarebbe mai andato via, ma gli avrebbe permesso di continuare la sua vita perché l'essere umano è fatto per sopravvivere quasi a tutto, è resistente, è tenace.

Erano in camera sua, la porta chiusa – lei indossava ancora l'abito nero, le scarpe calciate in un angolo non appena era entrata; lui era rimasto in camicia e pantaloni, dopo il crollo.

Il funerale era stato orribile – non a livello organizzativo, ovviamente non a livello organizzativo (c'erano stati fiori e la veglia e una funzione e fiori, fiori, fiori ovunque perché lei aveva amato i fiori), ma lei gli era di fianco da una parte e lo vedeva, lo sentiva che era talmente distrutto da non riuscire nemmeno a piangere ed era così impotente, lei, l'unica cosa che poteva fare tenergli la mano e tentare di essere forte, e nemmeno aveva pianto (anche se lei era stata un'altra madre, forse più della stessa Jenna – anche se le aveva voluto bene e doveva in qualche modo far uscire tutto quel dolore, non poteva permettere che Damon dovesse confortare anche lei, non quando c'era già suo fratello da abbracciare).

Stefan aveva solo nove anni, quando Elizabeth era morta – lo ricorda piccolo e fragile aggrappato al braccio del maggiore come se non riuscisse a credere di essere lì.
Neppure Giuseppe aveva lasciato cadere una lacrima – si era limitato a rimanere in tensione per ore, lo sguardo dritto, scuro, la mancanza che aveva già scavato nuove rughe su quel viso invecchiato, stanco.

Ora che non c'era più lei a tenerli insieme, Elena era sicura che sarebbe bastato un niente a far crepare il già fragile equilibrio che legava lui e Damon – aveva avuto ragione, infine (erano bastati due mesi e un litigio di troppo e Damon aveva rischiato di finire in mezzo alla strada – ma c'era Stefan e allora dopo era tutto diventato più nascosto, camminavano entrambi su una lastra di ghiaccio sottile che scricchiolava e alle volte si rompeva).

Dopo il funerale, non poteva lasciarlo andare a casa – non a Villa Veritas, così grande e così vuota, con i ricordi che gli saltavano addosso ad ogni angolo e il visetto piangente di Stefan così vicino.
Aveva chiesto a Jenna di occuparsi di lui – li avevano portati entrambi a casa Gilbert, lasciando che Giuseppe se la sbrigasse da solo con il suo dolore.

Nessuno aveva detto nulla, per molto tempo – non in auto, durante il tragitto, nemmeno una volta arrivati a casa, mentre sua zia prendeva in braccio il più piccolo e gli sussurrava qualcosa all'orecchio, rassicurante, portandolo in salotto.

Lei l'aveva guidato fino alla camera come fosse la prima volta – quando erano entrati e si era chiusa la porta alle spalle, togliendosi le scarpe e lasciandole in un angolo, non ce l'aveva più fatta.
Si era scorticato le nocche contro il muro, furioso – la voce tenuta bassa per miracolo, un lamento così dolorosamente rabbioso che non aveva saputo come prenderlo.

«Non sopporto più questo silenzio, Elena. Maledizione, basta – basta!» aveva provato ad avvicinarglisi, ma lui si era voltato dall'altra parte con le mani sul viso, in gabbia, e aveva scosso la testa – e quanto tremava lo ricorda ancora, come se potesse spezzarsi da un momento all'altro, continuando a mormorare cose senza senso o con troppa consapevolezza, ribaltando tutto quel che aveva sulla scrivania in un'ondata di rabbia.

Quando era riuscita ad abbracciarlo, erano quasi caduti sul letto – l'aveva tenuto stretto, accarezzandogli il capo fino a riuscire a calmarlo, baciandogli la fronte e sospirando parole vaghe fra i suoi capelli, cullandolo come un bambino.

Damon aveva sempre avuto un pressante bisogno di contatto fisico – Elena era abituata ai suoi abbracci, al suo prenderle la mano, di tanto in tanto, al braccio che le circondava la vita.

Era sempre andato bene così – e anche se molti finivano per considerarli una coppia, sapevano entrambi che era solo amicizia e davvero, davvero andava bene così.
Dalla morte di Elizabeth, quel suo bisogno si era intensificato – a volte credeva avesse persino paura di lasciarla andare, come se anche lei potesse abbandonarlo, fino a farlo rimanere definitivamente solo (e se qualcuno avesse provato a fargli notare che c'erano ancora Giuseppe e suo fratello, probabilmente si sarebbe ritrovato con un occhio nero e il naso rotto e avrebbe passato un gran brutto quarto d'ora – non tanto per Stefan quanto per suo padre, in realtà).

Lui non aveva neppure reagito alle sue parole – tanto che si era chiesta se l'avesse sentita.
Era sdraiata sul letto, le gambe appoggiate alla parete – la gonna era scesa fino a scoprirle le ginocchia, ma non le importava particolarmente –, lui seduto sul pavimento, con la testa accanto alla sua.

Teneva le dita intrecciate alle sue, appoggiate sul materasso anche se la posizione era scomoda – all'improvviso, lei aveva districato la mano e si era seduta, a gambe incrociate.
Doveva togliersi quel maledetto vestito – sarebbe impazzita, altrimenti. Non voleva più vederlo – bruciarlo, ecco cos'avrebbe dovuto fare.

Lui l'aveva osservata distrattamente mentre abbassava la zip, sfilandosi poi l'abito dai piedi – non si era preoccupata di essere rimasta in intimo, anche se avevano quindici anni e gli ormoni e tutte le altre cose che ti spiegano quando inizi a notare che in giro ci sono ragazzi davvero carini e che le ragazze non sono poi tutte noiose maestrine.

Era Damon – e anche se era un ragazzo davvero molto, molto carino era probabilmente la persona che la conosceva meglio al mondo e sua madre era appena morta e non pensava minimamente che quel che era successo sarebbe potuto succedere.
Ma era successo.


L'aveva baciata – così, senza preavviso, l'aveva baciata e tutto era cambiato.

Non era stato il suo primo bacio – quello era stato qualche mese prima con Matt, il quarterback della squadra di football della scuola, ed era stata un'esperienza da dimenticare, così impacciata e umidiccia e decisamente poco piacevole –, ma era un bacio di Damon e questo non andava bene, loro non erano questo, non lo erano mai stati e non aveva mai pensato potessero esserlo.

Ma lui l'aveva baciata – e era stato tutt'altro che qualcosa di terribile; era stato semplice, naturale come respirare, un bacio a stampo che era durato tre secondi e poi era finito perché, non sa bene ancora oggi chi dei due, l'aveva allontanato o lui si era allontanato di scatto ed era stato tutto lì.
Un momento.

Non ne avevano mai più parlato – non era mai più stato nulla e avevano finto che tutto andasse ancora perfettamente bene, fino a che davvero non era andato bene e lui si era svegliato una mattina di nuovo in grado di respirare.

 

È circondata da così tante persone – persone che vogliono bene a entrambi e persone che non li conoscono, che passano davanti a quella ragazza infagottata in una giacca troppo grande e in una felpa ancora più grande e a quel gruppetto strano, un po' sparuto, pensando ai propri problemi, ai propri dolori – Jenna è tornata da dovunque fosse sparita e ha comunicato sottovoce che Alaric sta arrivando, essendo di strada è andato a prendere Stefan (era ad Hampton per lavoro, quindi dovrebbero essere lì a breve – un'ora, forse meno, ma del resto non sa da quanto loro sono lì quindi i suoi calcoli saranno quasi sicuramente sbagliati).

Elena si alza per la prima volta da quando è entrata in ospedale – lentamente, come un giocattolo a molla rotto, non fidandosi delle sue stesse gambe.

Jeremy prova a prenderle un gomito, non si sa bene se per invitarla a rimanere seduta o per aiutarla, ma lo scaccia con un gesto e prova a sorridere debolmente – un sorriso che non convince nessuno, un sorriso che non è neppure un sorriso e che si spegne quasi senza nascere.
Non parla da ore, e quando prova a rassicurarli si sente – il timbro roco, il raschio in gola.

«Voglio solo... andare in bagno. Lavarmi la faccia, cercare di pensare un po' – sto bene. Davvero, sto bene.» ovviamente non le credono, ma la lasciando andare senza fare commenti – Bonnie prova ad accompagnarla, ma desiste quasi subito, capendo.

 

Quando si guarda allo specchio, quasi si spaventa – il viso è un disastro di occhiaie, solcato di dolore, di paura, e i capelli sono un groviglio inestricabile, un nido d'uccello.
Stringe le palpebre, sospirando e aprendo l'acqua – si sciacqua il volto, il freddo che le schiarisce la mente, e prova a pettinarsi con le dita, senza troppi risultati.

Si chiede se lui la troverebbe bella anche così – anche distrutta dalla stanchezza e invecchiata di dieci anni in meno di una notte.
Forse sì – probabilmente le direbbe che non è mai stata più bella di così, che non ha mai visto nessuna così meravigliosa, e la farebbe ridere anche se sa benissimo che non è vero.

 

C'era, lei, quando era arrivata Katherine – e, oh, se non se ne fosse andata da sola l'avrebbe comunque mandata all'inferno lei, a forza di calci in quel suo perfetto didietro da modella.

Un po' per soddisfare quella novella gelosia – non che lui questo l'avesse saputo in qualsiasi modo perché, diavolo, era il suo migliore amico e davvero, davvero non poteva essere così tremendamente gelosa del suo migliore amico (una vocina nella sua testa aveva provato a suggerirle qualcosa, per esempio riportarle alla mente il giorno del funerale di Elizabeth, non che lei l'avesse ascoltata perché avevano dimenticato, non era stato niente. No, l'aveva soffocata con un cuscino prima che potesse insinuarle dubbi in testa – Damon era il suo migliore amico, e per quanto attraente e meraviglioso, e buono e dolce e Damon, sarebbe sempre rimasto solo questo) –, un po' perché lei, al contrario della stronza, c'era anche dopo, quando lui era rimasto in uno stato a dir poco pietoso per mesi – mesi orribili, in cui aveva seriamente rischiato d'impazzire di preoccupazione perché l'idiota si rifiutava persino di mangiare, a volte (non era poi tutta colpa di Enzo, anzi, era stato preso in giro anche lui e quindi forse avrebbe dovuto essere un po' più flessibile – o forse no, perché lei davvero non poteva difenderlo, non quando vedeva Damon in quelle condizioni e avrebbe volentieri cavato gli occhi con le unghie sia a Katherine Pierce che a lui, in perfetto stile “gatta vendicativa”, tanto per rimanere in tema col “tigrotta” con cui ogni tanto lui la apostrofava, così, per scherzo, da quella volta in cui gli aveva graffiato una guancia, per sbaglio, mentre giocavano in cortile), e quindi lei si era ritrovata ad ospitarlo a casa con serie lamentele da parte di Jenna ma, ehi, lo conosceva da quando era alto un metro e venticinque ed era più occhi che bambino, poteva dargli la camera degli ospiti.

Sua zia non aveva mai scoperto che, alla fine, nella stanza degli ospiti aveva dormito ben poco – supponeva sempre per la questione del contatto, Damon aveva passato buona parte delle sue notti a condividere il suo letto, il viso affondato fra i suoi capelli e i suoi battiti irregolari che le sussurravano tutto quello che non aveva il coraggio di dire a parole (tutto il dolore, tutti i rimpianti, tutta la rabbia).

Katherine era arrivata e gli aveva frantumato il cuore – oltre a questo aveva spezzato irreparabilmente tutto quel che lo legava ad Enzo. Era stato il suo migliore amico, poi si era lasciato avvolgere nella rete del ragno ed erano finiti a prendersi a pugni nel piazzale della Mystic Falls High School, con le in mezzo a cercare di dividerli e Katherine che li osservava compiaciuta dalla sua posizione di capo cheerleader.

Si erano beccati entrambi una settimana di sospensione – da allora non si erano più parlati, poi Katherine si era trasferita in un'altra scuola (Hell High School, in Louisiana, e se non era ironia questa non sapeva proprio cosa lo fosse).

Però era bella – mora, alta, sexy –, abbastanza bella da fargli perdere la testa e poi lasciarlo ridotto come l'aveva lasciato.

 

Comunque, alla fine, era stato meglio per lei – lei era rimasta, Katherine no.

Lei gli era stata accanto ed era stata la sua migliore amica per una vita intera, con il ricordo di quel giorno che tornava sempre più spesso a galla e non si era accorta subito che qualcosa stava cambiando.

Erano cresciuti – erano andati allo stesso college e avevano studiato ed erano sempre insieme, e tutti quelli che li incontravano li consideravano una coppia e non serviva a nulla negare.
Avevano provato entrambi a uscire con qualcuno – certo che ci avevano provato, e dopo si ritrovavano sul divano di uno dei due ubriachi fino a vomitare a raccontarsi i particolari imbarazzanti e ridere, ridere, ridere come solo lui riusciva a farla ridere da praticamente sempre.

Quando poi erano usciti dal college ed erano andati all'università – due diverse, eppure in qualche modo si ritrovavano comunque a casa e poi era arrivato Ric a condividere le sue sbronze quando lei aveva un esame importantissimo il giorno dopo e davvero non poteva –, semplicemente, era successo che tutto era cambiato e che da una coppia supposta erano diventati una coppia effettiva.

Così, naturalmente – non c'erano state dichiarazioni in grande stile (quelle erano arrivate tutte dopo, in realtà), né baci sotto la pioggia/neve/grandine e nemmeno anelli, perché quando conosci una persona da tutta la vita e la conosci meglio di quanto conosca te stessa semplicemente certe cose arrivano e restano, succedono e basta, con un bacio a stampo a quindici anni e con uno alla francese al bancone di una tavola calda dopo essere usciti dal cinema, con la bocca sporca di ketchup e il sapore per nulla romantico delle patatine fritte.

Era stato perfetto comunque – anche se non era stato romantico e non era stato canonicamente considerato meraviglioso, era stato il miglior bacio di tutta la sua vita.

 

Per un attimo riesce a sorridere veramente al suo riflesso nello specchio – solo un attimo, prima che la realtà torni ad imporsi e veda Jenna comparire sulla soglia e senta la sua voce terrorizzata e non sappia più cosa fare.

«C'è un medico – notizie, Elena, io non lo so... non so se è andato bene, se è finito. Non lo so.»

 

Razionalmente, sa che non hanno impiegato più di un minuto per raggiungere gli altri – distaccatamente, nota che Ric e Stefan non sono ancora arrivati e si chiede come sia possibile che non siano lì con loro a festeggiare (perché lui deve stare bene, non può esserci altra soluzione – non può e basta).
C'è uno sconosciuto in piedi accanto a Jeremy – gli tiene una mano sulla spalla e gli sta dicendo qualcosa sottovoce e il terrore serra la sua morsa attorno alle viscere ed Elena rischia davvero di vomitare (nessuno dice nulla e suo fratello la sta guardando con uno sguardo che però dice tutto).

Non può essere, però – non può.

Quando Jeremy si avvicina, cauto, gli occhi lucidi – perché? Non ha senso, lui sta bene (lui sta bene) –, lei fa un passo indietro, rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi.

Poi le parla e lei non sente, non sente – come può sentire, quando l'unica cosa che le riempie le orecchie è il rumore disastroso di uno schianto che le riverbera nel corpo e la testa le gira, il respiro che le si mozza mentre la crepa si fa più nitida, un'immagine distinta della sua testa.

Elena può distinguere chiaramente il momento in cui il suo cuore si spezza in due.

«Mi dispiace, signorina. Non ce l'ha fatta.» e il cielo le crolla addosso.

 

   
 
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