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Autore: emotjon    08/04/2014    9 recensioni
«Penso davvero che tu sia bellissima, ne dubiti?». Si interruppe a metà risata, non appena sentì le sue labbra posarlesi sulla spalla, solleticandole la pelle con la barba di qualche giorno. «E poi, non so il tuo nome», aggiunse, ancora in un soffio. E lei lo sentì perfettamente, nonostante il volume altissimo della musica.
«Sei ubriaco».
«Zayn, piacere».
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4252 parole.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il suicidio è solo un modo come un altro per andare via.
 


Stanca di vivere. Non poterne più. Stanca di non poterne più. Guardare il mondo dall'alto di una collina e vedere tutto in bianco e nero, mentre gli altri sette miliardi di persone godono della presenza dei colori. Delle mille sfumature delle cose.
O bianco, o nero. Lei vedeva solo quei due colori, che fosse dalla cima di quella collina o dal tetto di un grattacielo. Non aveva importanza. Non faceva differenza. Non le importava, in fondo.
Nere, erano le occhiaie sotto ai suoi occhi. Neri, erano i suoi capelli, ormai perennemente legati in una treccia quasi sempre sfatta. Nere, erano le nuvole sopra la sua testa. E neri erano anche i suoi ricordi, fin troppo sfruttati, usati e malconci.
Bianche, erano le ali degli angeli. Bianca, la pelle traslucida della ragazza, attraverso la quale si poteva vedere il reticolo delle vene e delle arterie. Bianco, il fumo della sigaretta, che le scivolava via dalle labbra dischiuse.
Bianco, il mare di lapidi su quella collina.
Nero, il filo di inchiostro sulla pelle della ragazza, sotto il seno sinistro. Quanto più possibile vicino al cuore. Un tatuaggio. Una scritta indelebile. Un nome. Nero, come i suoi capelli, i suoi occhi, il suo stesso animo.
Zayn.
«Ehi, bellissima». Ricordava ancora l'inflessione straordinariamente sexy della sua voce. Ricordava il modo in cui non smetteva di passarsi la lingua sulle labbra guardandola. L'odore del suo respiro, quando si era avvicinato. Sapeva di alcool. E di sigaretta. E aveva cercato di avvicinarla a sé, di toccarla.
Ma lei gli aveva sorriso, schiaffeggiandogli la mano tatuata, sempre più vicina al suo fianco. Aveva scosso la testa, con un sopracciglio inarcato. «Bellissima? Sei ubriaco, chiunque ti sembra bellissima, non funziona così?». Aveva mantenuto il sorriso, continuando a guardarlo negli occhi.
Caramello. Miele. Oro fuso. Cioccolato fondente. O il buio più totale, quasi tutt'uno con la pupilla. Erano così i suoi occhi. Cambiavano. Erano strani, curiosi. Tremendamente sexy, maliziosi. Ridevano, i suoi occhi, ancora prima che a lui venisse in mente di scoppiare a ridere.
Ed era scoppiato a ridere, mentre lei si allontanava agitando leggermente le dita della mano, nascondendosi nel buio, tra la gente, tra un corpo e l'altro. Aveva bevuto, ballato, ma i suoi occhi e il suono della sua risata avevano continuato a seguirla ovunque, tutta la sera.
E la sera successiva, in un'altra discoteca. Si erano incontrati di nuovo. Senza parlare. Lui le aveva offerto un drink, era ancora sobrio, poi si era volatilizzato, lasciandola con un baciamano terribilmente imbarazzante e un sorriso. L'aveva intravisto alla postazione del dj, con le cuffie, mentre sembrava giocherellare con tutti quei pulsanti colorati, che a lei erano sempre sembrati tutti uguali.
L'aveva guardata, per un momento. Come se vedesse solo lei, prima di far partire Tsunami. Era la sua preferita. E lui sembrava saperlo, mentre la guardava muoversi con le amiche, sorridendo. Mani al cielo, sorriso sul volto, ballava con la propria migliore amica.
Senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi.
E quella era solo la prima volta di tante. Troppe, le volte in cui si erano rivisti, quasi per sbaglio, sempre mezzi sbronzi, o totalmente ubriachi. Senza parlare. Era uno scambio di sguardi. Sguardi che soffocavano, da quanto erano intensi. Sguardi che non facevano che aumentare la tensione sessuale, un secondo dopo l'altro.
Una sera lei non lo vide. Pensò che forse il caso, il destino, o chi per lui, quella sera non fosse dalla sua parte. Dopo un mese, si erano visti praticamente tutte le sere, per un motivo o per l'altro. E quella sera, niente. Lui non c'era. Continuava a guardarsi intorno, tra un drink e l'altro. Perché, anche se odiava ammetterlo, si era abituata alla sua presenza. E le piaceva da impazzire il suo sguardo addosso.
«Ehi, bellissima».
Un sussurro. Un fiato caldo tra la nuca e il lobo dell'orecchio. Il suo respiro addosso, mentre le sue mani scivolavano tranquillamente dalle sue cosce ai suoi fianchi, fino a fermarsi sul punto vita. Era impietrita, senza nemmeno la forza di protestare sotto quel tocco. Le piacevano, quelle attenzioni.
«Vedo che non hai perso il vizio…».
«Penso davvero che tu sia bellissima, ne dubiti?». Si interruppe a metà risata, non appena sentì le sue labbra posarlesi sulla spalla, solleticandole la pelle con la barba di qualche giorno. «E poi, non so il tuo nome», aggiunse, ancora in un soffio. E lei lo sentì perfettamente, nonostante il volume altissimo della musica.
«Sei ubriaco».
«Zayn, piacere».
Era passata una vita. O almeno, così sembrava, mentre una lacrima nera di mascara le scorreva lungo la guancia. Era finito tutto da un giorno all'altro, tra un sorriso e l'altro. Tra un bacio e l'altro. Senza permettergli di fare l'amore per l'ultima volta, per imprimerle bene in mente com'era davvero stare con lui. Tutta la notte. Solo loro. Ma no, non ne avevano avuto l'occasione.
Non come avrebbero voluto. Non col lieto fine delle favole.
Era passato almeno un altro mese prima che lei riuscisse a presentarsi. Il suo nome, in un sussurro contro il suo orecchio, prima che gli mordicchiasse il lobo. Era brilla, come ogni sera in cui si scontravano sulla pista da ballo. Ed era probabile che lui fosse fatto, ma i brividi li sentì lo stesso, mentre le labbra rosse di lei si posavano piano sulle sue.
Le labbra di Zayn sapevano di alcool, e di sigaretta, come aveva sempre immaginato, dalla prima volta in cui l'aveva visto. Ma erano anche dolci, in un certo senso. Sapevano di zucchero filato. Sorrise, nel bacio, mentre lui le sfiorava la schiena coi polpastrelli, fino ad arrivare ai glutei e alle cosce lasciate scoperte dal vestito cortissimo che indossava. La tirò su, senza staccare le labbra dalle sue.
E facendole schiudere le labbra, lasciando che le loro lingue entrassero in contatto. Piano. Delicatamente. Ma poi sempre più velocemente, mentre le dita di lei si perdevano tra i capelli del moro, tirandoli leggermente. Si staccarono dopo quella che parve un'eternità, per prendere fiato.
I respiri che ancora si mischiavano tra loro, alcool contro alcool, tabacco contro tabacco, zucchero filato contro fragole e pesche. Le mani di lui ancora a sfiorarla lungo le cosce, fino al ginocchio e ritorno, mentre ancora la teneva su, come pesasse quanto una piuma, o forse meno.
«Se pensassi davvero che tu sia bellissima, mi crederesti?». Probabilmente no. Scosse la testa sorridendo, senza smettere di guardarlo nemmeno per un istante. E lui rise, arricciando il naso e giocando con il piercing al labbro, mentre i suoi occhi nocciola le entravano dentro, si perdevano nei suoi, azzurro cielo. Grigi, in quel buio, spezzato solo dalle luci da discoteca.
«Lo pensi, cucciolo?», lo provocò mordendogli appena il labbro inferiore, succhiando il piercing. Ancora occhi negli occhi. Come se non riuscissero a distogliere lo sguardo. Attirati l'uno all'altra come due calamite difettose. «Mmmm…». Fece scivolare le dita sul suo petto, da sopra la canottiera bianca che indossava, graffiandolo il più delicatamente possibile.
Stava scherzando, glielo si leggeva in faccia. Lo stava provocando. Forse era solo l'effetto dell'alcool, forse lo stava solo facendo apposta. Non aveva importanza, in fondo.
«Lo penso, sì... Ma è evidente che non mi credi».
«O forse ti credo, ma voglio farti credere il contrario». Gli lasciò un bacio sulle labbra, prima di obbligarlo a farla scendere e allontanandosi come se non fosse successo niente, quando al contrario era appena successo tutto. Era appena iniziato tutto. Era appena iniziato, il loro gioco, il loro tira e molla, quel gioco che a loro veniva terribilmente bene. Lasciarsi, e riprendersi. Baciarsi, e fingere di essere troppo fatti per sentire qualcosa.
Difettosi entrambi, a modo loro. Ma insieme… tornavano integri.
Una, due, tre, quattro… una pasticca dopo l’altra, giù per la gola, mentre i ricordi prendevano il sopravvento. Su quella collina, davanti a quella lapide bianca, col il suo nome stampigliato sopra a caratteri cubitali, nero su bianco. Come un miraggio, come non fosse vero, non a tal punto da crederci.
Una, due, tre, quattro…
Una mano del moro nella sua, le dita intrecciate. Erano sdraiati in un prato, era quasi il tramonto. Erano riusciti a vedersi fuori da una delle tante discoteche. Per caso. Per sbaglio. O forse il moro l’aveva seguita. Non aveva importanza, a dire il vero. A lei non importava. Le bastava che ci fosse, non importava come.
Sdraiati l’una sull’altro, coi capelli scuri di lei a dividerli dal resto del mondo, come una tendina. Una coltre di fumo, che divideva gli schiocchi delle loro labbra e i loro pensieri, da tutto il resto. Un sorriso contro l’altro. Due sorrisi apparentemente innocui, mentre il fumo della sigaretta passava dalle labbra di lui a quelle di lei, per poi disperdersi nell’aria.
E la risata della ragazza, mentre di scostava da lui per guardarlo negli occhi. La facevano impazzire, i suoi. Sarebbe rimasta minuti interi a fissarli, senza comunque riuscire a capirli totalmente. Erano come un enorme rebus, i suoi occhi. «Ti ho sempre creduto, sai? Anche se eri ubriaco…».
«Sei rimasta bella anche la mattina dopo, infatti…».
«Idiota», mormorò riabbassandosi per sfiorargli le labbra. Era la classica frase da adolescenti innamorati. Ma loro erano tutto tranne che i classici adolescenti. Loro erano difettosi. Materiale umano di seconda mano. Una manciata di secondi, prima che le mordicchiasse il labbro, tirandola il più possibile a sé, quasi fusi insieme, separati solo dai vestiti. Un idiota che ci sa fare, certo.
«Ci pensi mai a come sarebbe?», le chiese, scostandole una ciocca di capelli dal viso. La vide aprire i meravigliosi occhi celesti e osservarlo, curiosa, con la testa inclinata leggermente di lato. Sembrò intercettare il suo sguardo, Zayn. Come sarebbe… come sarebbe stato essere normali. Normali. Adolescenti. E innamorati.
«Sarebbe bello», gli sussurrò contro le labbra, prima di stampargli un bacio e sollevarsi da terra, per poi tirare su anche lui. «Ma è più semplice volerti che amarti, piccolo». Aveva capito perfettamente. C’era da aspettarselo. L’ennesimo sussurro, forse uscito dalle sue labbra, forse portato dal vento caldo della classica giornata afosa di agosto.
È più semplice volerti che amarti.
La prese per il polso prima che potesse allontanarsi troppo da lui. La fece voltare, facendola scontrare contro le sue labbra socchiuse. L’aveva ammesso. Aveva ammesso di volerlo, con la naturalezza del battito d’ali di una farfalla. Come fosse la cosa più normale di questo mondo. Come se avesse avuto quella frase sulla punta della lingua per mesi, indecisa se pronunciarla o meno.
Erano uguali. Si volevano entrambi. Ma erano diversi. Lei era più forte, aveva avuto la forza di ammetterlo. Di ammettere di non essergli indifferente. Di ammettere che in fondo in fondo provava anche qualcosa in più della semplice e primitiva attrazione sessuale.
Lo voleva. L’avrebbe avuto.
Labbra contro labbra. Zucchero filato e fragole.
Ed erano di nuovo a terra, come qualche secondo prima, tanto attaccati da sentire tutto e niente, tanto vicini da respirare la stessa aria. E nascosti dai papaveri, i loro gemiti mitigati dal rumore del vento, dalle spighe di grano che frusciavano, dal frinire dei grilli.
Si baciarono fino a non aver più fiato. Si sfiorarono fino ad averne abbastanza. Rimasero lì, in quel campo, fino a sera. Videro il sole sparire dietro l’orizzonte, mentre la canottiera del moro veniva lanciata a qualche metro da loro, non senza un sorriso. Ma la fermò, prima che potesse sbottonarsi la camicetta blu notte.
Intrecciò le dita con le sue, tirandosi a sedere. Facendo scontrare i loro nasi. Facendole mancare il respiro, già affannato, con quella vicinanza. La guardò sbattere le palpebre, fin troppo velocemente, prima di aiutarla a tirarsi su e alzarsi con lei, per rinfilarsi rapidamente la maglietta stropicciata.
«Che hai in mente?».
«Voglio essere difettoso in tutto e per tutto, dolcezza».
Si erano sempre definiti difettosi a vicenda. Nati per sbaglio, lo pensavano entrambi, prima di incontrarsi. Il frutto di incontri tra sconosciuti. Ma poi si erano incontrati, in quella discoteca. E, che lo volessero ammettere o meno, era cambiato tutto. Erano cambiati anche loro, volente o nolente. Ma erano comunque rimasti difettosi. Quello era nel loro DNA, non sarebbe sparito, non da un giorno all’altro.
Ma forse non era da difettoso, non voler fare sesso con lei in un campo di grano. Forse era addirittura più romantico di quanto non credesse possibile. Forse… forse nonostante la facciata da stronzo, egocentrico e drogato per disperazione, c’era solo un ragazzo che stava scoprendo l’amore, nel modo più normale che sapeva. Difettoso, non riparabile, difficile da aggiustare. Come tutta la sua vita, come tutto ciò che faceva.
Un’altra lacrima, mentre ingoiava la quinta e la sesta pasticca, aspettando che le prime quattro facessero effetto. Non sentiva niente, mentre le lacrime continuavano a scendere, portando via anche l’ultimo residuo di mascara. L’unica cosa che riusciva a sentire erano i ricordi.
Il ricordo di Zayn che si sfilava la canottiera, e tirava fuori una bustina dalla tasca dei pantaloni. Non era la prima volta che si facevano. Ma non così, non come aveva in mente il moro. Era la prima volta anche per lui, in un certo senso. Così, come avevano fatto col fumo della sigaretta, la piccola pasticca bianca passò dalla bocca di lui a quella di lei, mentre si baciavano.
Succhiarono quella pasticca un po’ per uno, passandosela tra un respiro e l’altro, tra un bacio e l’altro. Alla fine sapeva sia di fragole che di zucchero filato, quella pasticca. In più, non sarebbero stati davvero fatti, non a tal punto da star male. Non a tal punto da non ricordare nulla il giorno dopo.
L’effetto dell’anfetamina era minimo. Li avrebbe resi solo più percettivi. Avrebbe reso il tutto più… amplificato.
Così, i brividi si moltiplicarono lungo le loro schiene, mentre Zayn le sbottonava la camicetta e le lasciava una scia di baci, dalla gola, all’incavo tra i seni, fino all’ombelico, e poco sopra l’elastico degli slip di pizzo, ancora coperti malamente dai pantaloncini di jeans.
Finirono sdraiati uno sull’altra, sentendo più di ogni altra cosa l’attrito della pelle color caffelatte di uno contro la pelle leggermente abbronzata dell’altra. Sentendosi più vicini che mai, mentre un sospiro si faceva spazio tra le labbra della ragazza, arrivando dritto alle orecchie del moro. Facendolo andare fuori di testa.
La prese per le cosce nude, tirandola più vicino a sé, senza staccare gli occhi dai suoi. Collisione di respiri, di labbra, di iridi tanto diverse ma completamente in sintonia. Collisione di pensieri, persino. Si staccarono una manciata di secondi, solo per liberarsi del resto dei vestiti, prima di tornare uno sull’altra, alla distanza di un sospiro.
Non dissero una parola. Solo un mare di gemiti, di ansimi e di sospiri, prima che Zayn entrasse in lei, ancora con le dita intrecciate alle sue. Un sospiro più forte degli altri, quasi di sollievo, a sentirlo dentro di lei. Uniti, tanto da non capire dove iniziava l’uno e finiva l’altra. Uniti, tanto da farsi mancare il fiato fino a stare male, quando lui iniziò a muoversi piano ma con decisione dentro di lei.
Settima e ottava pasticca di antidepressivi, mentre ogni momento di quella notte le ritornava in mente.
Ogni minimo particolare, nitido da far male. Come era entrato in lei, come aveva continuato a stringerle le mani senza staccare le dita nemmeno per un istante, come aveva sussurrato il suo nome. Come l’aveva baciata. Come l’aveva riempita fino a farla stare bene davvero, come nessun altro aveva mai fatto.
«Hai mai pensato a come sarebbe?», gli chiese accoccolandosi contro il suo petto, lasciandoci un bacio leggero, mentre entrambi riprendevano fiato. Che fosse stato sesso, o amore, l’avevano fatto per tutta la notte, fino a vedere il primo raggio di sole entrare pigramente tra le tende di camera di Zayn.
«Sarebbe bello», le fece il verso, ridacchiando. «Ma sono difett…».
Ancora quella parola. Difettoso. Sembrava lo facesse apposta. Ma lo bloccò con due dita sulle labbra, prima che potesse dirlo davvero. Se lui era difettoso, lo era anche lei. E tanto valeva provare ad esserlo insieme, no? Cosa gli costava provare? Per lei, almeno. O per sentirsi meno solo. Meno difettoso.
«Possiamo essere difettosi insieme, cucciolo». Cucciolo. L’aveva chiamato come la sera in cui si erano baciati per la prima volta. La sera in cui gli aveva detto il proprio nome. E le parve davvero di vedere una lacrima scivolare lungo la guancia di Zayn, mentre gli si metteva a cavalcioni, e si avvicinava al suo viso.
Leccò via quell’ospite indesiderato, mentre le ciglia del moro sfarfallavano. Forse l’aveva sorpreso. Forse era solo l’anfetamina, che però a quel punto doveva già aver smesso di fare effetto. O forse l’aveva semplicemente commosso, con quelle poche parole.
«Insieme?».
«Insieme, sempre».
Insieme. Sempre. Glielo aveva promesso, anche se non esplicitamente. Aveva promesso che sarebbero stati insieme. Aveva promesso che sarebbe stato per sempre. Aveva creduto nel per sempre, per la prima volta in vita sua.
Ed erano stati insieme.
I tre mesi più belli di sempre, che sembravano non finire mai, ma che da un certo punto di vista, sembrarono passare in un lampo. Tre mesi, in un battito di ciglia. Tre mesi, racchiusi in un bacio. Tre mesi, nei quali non si erano separati nemmeno per un momento. Tre mesi nei quali avevano continuato a sballarsi, a bere, a baciarsi fino a rimanere senza fiato, a fare l’amore fingendo che fosse solo sesso.
Tre mesi in cui avevano vissuto. Vissuto davvero, fregandosene del resto.
Fregandosene di quando si erano ritrovati ad urlarsi contro in mezzo ad una strada, con la gente che li guardava, e Zayn che l’aveva quasi presa a schiaffi da quanto era fatto e incazzato. Non proprio una bella accoppiata. Fregandosene dei rispettivi brutti caratteri.
Si gridavano di odiarsi, e il minuto dopo finivano sotto le lenzuola a fare l’amore senza rendersene conto. Come quell’ultima notte, prima che tutto finisse. L’ultima notte in cui avevano fatto l’amore. L’ultima volta in cui le loro labbra si erano sfiorate, e le loro lingue si erano rincorse, e i loro respiri allo zucchero e alla fragole si erano uniti ancora una volta.
L’ultima volta.
La mattina dopo si erano svegliati abbracciati. Lucidi come non mai. Avevano scherzato come sempre, ma per la prima volta rendendosi conto di quanto non fossero più tanto difettosi come una volta. Erano normali adolescenti, per una volta. Normali adolescenti innamorati, la prima e l’ultima volta.
E magari non c’era stato niente di romantico, nel modo in cui lei aveva sfiorato ogni suo singolo tatuaggio, o giocherellato con i piercing. O nel modo in cui si era lasciata fare il solletico, ancora completamente nuda, coperta solo dal lenzuolo che odorava di loro.
«Se ti dicessi che sono innamorato di te…?».
Aveva lasciato la frase in sospeso. L’aveva fatto apposta. Apposta per vedere come avrebbe reagito lei. E lei… lei aveva semplicemente schiuso le labbra, dando loro la forma di una piccola “o”, mentre non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo. Era incredula. Sorpresa, forse. Sbalordita, sarebbe più appropriato.
Perché dalla sera in cui si erano conosciuti, non avevano mai parlato di sentimenti. Mai, nemmeno implicitamente. Nemmeno gli erano passati per l’anticamera del cervello, quei sentimenti, in quei sei mesi.
«No…». L’unica cosa che era riuscita a dire, con le lacrime agli occhi. Ci avrebbe creduto? Era questa la domanda di Zayn. Avrebbe creduto alle apparenze, o avrebbe creduto a quello che vedeva in quegli occhi color cioccolato? «Sono io quella difettosa, non tu… non so nemmeno amare, sono un disastro».
Non l’aveva abbracciata. Non l’aveva stretta a sé. Non l’aveva baciata.
Perché con quelle poche parole l’aveva distrutto. Come se gli avesse stretto le mani intorno al collo fino a soffocarlo, fino ad ucciderlo. Gli aveva fatto perdere un battito. Gli si era incrinato, quel suo povero cuore di cristallo. L’aveva colpito proprio al centro del petto, con quelle parole. Tanto forte da lasciarlo senza fiato.
«Zayn…». Il suo nome, ridotto ad un soffio, uscito pianissimo dalle sue labbra.
Un sussurro, mentre lui se la scostava di dosso e si rivestiva, senza dire una parola, senza nemmeno guardarla. Senza riuscire ad incolparla di niente. In fondo, non era colpa sua se non lo amava. O se non riusciva a dirlo. Era solo colpa sua, si sentiva in colpa per non essere riuscito a farsi amare come avrebbe voluto.
Andare via. Non riusciva a smettere di pensare a quelle due parole.
A come sarebbe stato andare via, evadere da tutto, sparire per un po’. Allontanarsi da lei. Cambiare aria, magari dimenticarsi di quella ragazza a cui aveva dato tutto senza ricevere niente in cambio. E forse lei gli aveva dato la stessa quantità di tutto, ma lui nemmeno se n’era accorto.
Continuò a chiamarlo. Lo seguì fuori dalla sua stanza, lungo il corridoio, giù per le scale, fino alla porta d’ingresso. Cercò di attirare la sua attenzione. Ma lui era già fuori. Già in sella alla sua moto, nera come lui, nera come quel che aveva dentro. Anche se in quel momento dentro non aveva più niente. Gli urlò dietro, qualsiasi cosa tranne le uniche due parole che l’avrebbe indotto a restare.
«Ti amo, Zayn», sussurrò la ragazza, lasciando cadere l’ennesima lacrima e mandando giù l’ennesima pillola. Si sedette a gambe incrociate davanti a quella lapide bianca. Il cimitero era deserto. E lei poté sdraiarsi accanto a lui, immaginare di sentire ancora il battito del suo cuore contro l’orecchio, come fosse ancora lì con lei, senza che nessuno la vedesse.
Chiuse gli occhi, mentre le tornava in mente l’ultima occasione che aveva avuto per indurlo a restare, a non scappare. Aveva capito di amarlo l’attimo in cui l’aveva visto sfrecciare via con la moto. L’attimo in cui non l’aveva più visto all’orizzonte, si era accorta di non riuscire a stare senza di lui.
E aveva fatto il suo numero di telefono con dita tremanti, senza riuscire a placare i singhiozzi. Non aveva risposto. Né a quella né alle quattordici chiamate successive. Alla sedicesima, la linea era finalmente libera. E la sua risata le era arrivata alle orecchie, più prepotente che mai.
«Zayn…».
«Piccola, ciao».
«Torna da me, ti prego…».
«Perché?». Una risata, un singhiozzo, uniti a quella domanda.
«Perché ti…». Amo. Da morire.
Ma non aveva fatto in tempo. Aveva sentito l’accelerazione di un motore, attraverso il telefono. Aveva sentito uno stridio di freni. E la chiamata che si chiudeva, subito dopo la botta più forte che le sue orecchie avessero mai sentito. Tutto nel giro di una manciata di secondi.
Tutto distrutto nel giro di qualche ora.
Aveva rovinato tutto. Era stata lei. Lei, a non essere in grado di rispondere ad una semplice domanda. A non essere in grado di dimostrare quanto lo amasse. Di capire, quanto avesse bisogno di lui. Era lei. Lei, era stata difettosa. Difettosa fino all’ultimo, quando erano finalmente riusciti ad aggiustarsi.
E c’era stato un funerale. Al quale lei non era andata. C’era stato un processo. Al quale lei non si era voluta presentare. Non aveva voluto vedere la madre di Zayn. O suo padre. O le sorelle. Non aveva visto nessuno per mesi. Si era costretta ad andare da uno psicologo, senza però riuscire a dire una parola, una seduta dopo l’altra.
Stava troppo male per mangiare. Troppo male per dormire. Troppo male per vivere.
Stanca di vivere. Non poterne più. Stanca di non poterne più. Guardare il mondo dall'alto di una collina e vedere tutto in bianco e nero, mentre gli altri sette miliardi di persone godono della presenza dei colori. Delle mille sfumature delle cose.
Possiamo essere difettosi insieme, cucciolo.
Insieme?
Insieme, sempre.
Glielo aveva promesso. Gli aveva promesso il per sempre. Il lieto fine. Gli aveva promesso che si sarebbe presa cura di lui, e che gli avrebbe permesso di prendersi cura di lei, come fosse la sua piccola. Sua per davvero, non solo per gioco. Sua, sempre.
E non riusciva a smettere di pensare a come sarebbe stato andare via. Via per sempre. Via dal mondo. In fondo, senza di lui, a chi sarebbe potuta mancare? Si stava spegnendo a poco a poco, senza di lui. Stava andando sempre più a fondo, senza di lui.
Tanto valeva pensare ad un piano.
Un piano in cui sarebbero potuti stare insieme, di nuovo. E le alternative non erano poi tante. L’alternativa era una sola. Morire. Andare via. Andare da lui. Per quello aveva preso tutti gli antidepressivi che aveva in casa e li aveva gettati malamente nella borsa. Per quello aveva trovato il coraggio di trascinarsi fino al cimitero.
Il suicidio è solo un modo come un altro per andare via.
Per quello era sdraiata di fianco alla sua lapide, con gli occhi che finalmente le si chiudevano. Aveva tanto sonno. Si sentiva pesante. E aveva freddo. Freddo dentro, e freddo fuori, tanto da tremare e avere la pelle d’oca.
«Ehi, bellissima».
La sua voce, tanto nitida da sentirla dritta nelle orecchie, mentre le palpebre le si abbassavano per non rialzarsi più. La vita le passò davanti in meno di un secondo, e con l’ultimo respiro la sua mano si chiuse intorno a quella di Zayn, che le sorrideva come aveva sempre fatto.
Quel sorriso strano, con la lingua tra i denti. E lui che giocava col piercing al labbro.
Era tutto bianco, dietro le sue palpebre. Tutto bianco, come un lungo tunnel, come se ne vedono nei film. Un tunnel, bianco. Tutto bianco. Lei odiava il bianco. Ma in fondo al tunnel vide due occhi. Non bianchi.
Color cioccolato.
Erano di nuovo insieme. Per sempre, stavolta.


 

buon pomeriggio splendori.
eccomi, di nuovo, a intasare il fandom.
non ho mai scritto una cosa del genere.
come non ho mai pianto tanto per scrivere qualcosa.
comunque, spero vi sia piaciuto.
spero anche che abbiate pianto. sono sadica, sì.
niente, che altro? io evaporo, che è meglio.
vado a nascondermi, in attesa delle recensioni che non arriveranno mai.
*me piange*
okay, addio.
alla prossima, un abbraccio.
- emotjon

 

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