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Autore: Claudine Delacroix    13/04/2014    8 recensioni
Elizabeth Woolridge Grant aveva quattordici anni e viveva con suo padre a Lake Placid, quando venne invitata ad esibirsi in un locale newyorkese.
E quando la sua innocenza venne distrutta.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
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Premessa: gli avvenimenti sotto descritti sono di mia invenzione, creati per puro diletto, basandomi sulle informazioni fornitemi da wikipedia per l'età, i luoghi, il nome del padre e quello reale di Lana. Il resto è frutto della mia fantasia; l'opera è volta a raccontare una storia come un'altra e nulla di più.

 

L O L I T A

 

 







«La tua Lizzy, Rob, farà strada. Grazie al mio locale e grazie alla sua voce, vedrai, diventerà famosa in poco tempo. Lasciamela per qualche mese; sono sicuro che poi i miei clienti verranno solo per lei.» Sorrise con voluttà per un attimo, poi si corresse; «Per la sua voce, intendo dire.»

Rob guardò la figlia. Vedeva come la sua bambina, anche dopo quattordici anni, a lui apparisse la stessa di sempre, nonostante durante quell'estate fosse assai mutata fisicamente. La figura si era alzata di qualche centimetro, i fianchi da spigolosi erano diventati due curve morbide; le labbra, fino a pochi mesi fa del rosa pallido naturale, erano ora costantemente tinte di rosso scarlatto, che ne evidenziava la pienezza. Si tingeva le labbra di rosso perché aveva scovato un vecchio rossetto di sua madre in una scatola dei ricordi dimenticata da anni, sepolta tra le cianfrusaglie nel garage. Il seno era ancora acerbo ma in crescita. Lo poteva percepire dalla maglietta tesa che scopriva una porzione di pancia. E lei, che non se ne era accorta, continuava ad indossare i suoi abiti da bambina, conferendo alla propria immagine una sensualità puerile.

Elizabeth Grant era una lolita a tutti gli effetti. Giovanissima ma già sviluppata, soda e compatta, attraente in quel modo puro che faceva impazzire gli uomini di una certa età.

Rob lo sapeva bene, ma sapeva bene anche quanto Lizzy amasse cantare e quanto fosse portata; dunque accettò, lievemente in apprensione, di affidarla alle cure di John Wills, proprietario dell'Office 96, un locale di New York dalla clientela variopinta. Buona musica, era frequentato tanto da ragazzi giovani quanto da signori maturi in cerca di svago.

Così, un piovoso ventisette dicembre - in un'auto vecchia che sapeva di tabacco - Elizabeth, le mani strette attorno all'unica valigia che si era portata via, imboccò la strada della musica.

E anche quella della dissoluzione, nonostante lei non lo sapesse ancora.

 

Per la ragazza non fu un trauma lasciare Lake Placid - la località nella quale aveva vissuto per quattordici, lunghi anni solitari. Ella amava poche cose, nella vita; suo padre, cantare e pregare. Era una ragazza molto religiosa, e adorava ascoltare ad occhi chiusi le messe domenicali. Ma in particolar modo le piaceva cantare nel coro della chiesa. Trovava che il canto e la preghiera, uniti, fossero quanto più si avvicinasse all'idea di paradiso.

Dio e musica insieme; la sua vita, grazie a loro, aveva raggiunto la piena completezza.

Ma non si sarebbe fatta sfuggire un posto di lavoro – perché John l'avrebbe pagata; gliel'aveva promesso, aveva detto 'in base a quanti clienti mi porterai, pasticcino, ti pagherò'.

E poi suo padre era sicuro che ciò l'avrebbe lanciata nel mondo della musica, facendola divenire una cantante a tutti gli effetti.

Lizzy non era ottimista e sognatrice come il padre, ma aveva accettato più che volentieri l'opportunità di visitare New York ed esibirsi in un locale. Certo non credeva di sfondare o diventare all'improvviso conosciuta; aveva i piedi per terra, sapeva che quello del padre e di John fosse un progetto un po' utopistico, ma le era piaciuta l'idea. E poi voleva viaggiare.

Non aveva molti amici, perciò gli addii consistettero in lunghi abbracci al padre e sguardi melanconici diretti alla casa dov'era cresciuta e vissuta da sempre. Accarezzò tutte le foto attaccate alla parete e ne staccò una dov'era con suo padre, che portò con sé, seppellita tra vestiti che le stavano troppo stretti e libri di musica. Era stata scattata da poco; durante il giorno della sua cresima, qualche mese fa. Suo padre, elegante in completo grigio, aveva posto un braccio intorno alle spalle di lei, vestita di bianco e con una coroncina di fiori candidi che le cerchiava la testa. Entrambi sorridevano felici, e la vetusta chiesa dietro di loro era il degno sfondo di una giornata memorabile.

Elizabeth aveva salutato anche il suo gatto screziato di nero e bianco, Mochi, trovato due estati prima che gnaulava nel fosso vicino a casa sua. Lo strinse a sé e gli promise di tornare presto, mentre lui faceva le fusa ignaro del periodo che avrebbe dovuto passare senza la sua padroncina.

Era un grande passo, uno dei più importanti della sua vita. Ma era pronta a compierlo, e felicissima di poter provare quella nuova esperienza.

John Wills, amico intimo di suo padre e praticamente suo zio adottivo, era un bonario uomo sui quaranta. Gestiva questo locale, l'Office 96, da qualche mese; l'attività stava andando bene. Il locale era diventato abbastanza popolare e attirava sempre più clientela, grazie all'idee innovative di John.

Era da agosto che Elizabeth non lo vedeva, e per le vacanze di Natale se l'era venuta a prendere. Aveva le braccia ricoperte di tatuaggi tribali, inflaccidite dall'età. I capelli, neri come il fondo di un pozzo, si presentavano costantemente impregnati di gel. Era un uomo un po' sovrappeso e rubicondo, ma sorridente e scherzoso con tutti. Faceva belle battute, anche se molte Elizabeth non le capiva; qualche volta John diceva certe cose sulle donne, cose strane, ridendo malizioso. Lizzy non le capiva, ma rideva lo stesso.

La ragazza voleva molto bene a John; quand'era morta sua madre, due anni prima, egli era stato accanto a quello che rimaneva della famiglia Grant, aiutandola a rialzarsi e sostenendola nei momenti di peggiore sconforto. Aveva cucinato molti pranzi e molte cene quando il padre usciva per giornate intere, sfrecciando per le stradine di Lake Placid sulla sua Cadillac rossa rovinata dagli anni. Rob e Lizzy erano caduti; John li aveva aiutati a rialzarsi. Ed era per questo che gli erano più che grati; ed era per questo che, sia Lizzy che Rob, non misero minimamente in dubbio la correttezza dell'uomo.
John era il loro salvatore, la loro spalla, e inoltre si era rivelato anche la 'pista di lancio nel mondo della musica' di Lizzy, come amava definirlo il padre.



Partirono subito dopo le vacanze di Natale, un uggioso ventisette dicembre. «Liza, il tuo debutto sarà a capodanno, sei contenta? Ho tenuto in serbo la serata per te. Nessuno sa nulla. Ti presenterò come 'rivelazione del 2000'*, sarà perfetto.»

La tranquilla località di Lake Placid distava dalla Grande Mela circa sei ore e mezzo di auto. Si misero in viaggio la mattina, Lizzy infreddolita e stanca, John esaltato e fiducioso, Rob nostalgico ma orgoglioso di sua figlia.

Elizabeth chiuse la valigia, ed il rumore della cerniera che si chiudeva le sembrò un qualcosa di definitivo. Fu il suono che suggellò la sua infanzia per dare spazio, finalmente, a qualcosa di nuovo. Non sapeva nemmeno lei cosa; ma sentiva sarebbe stato esaltante... Mochi le fece le fusa attorno alle gambe, saltando poi sopra al letto per annusare la sua valigia. «Mochi, Mochi, Mochi» disse Lizzy un po' triste, abbracciando il suo gatto che cercò inizialmente di divincolarsi. «Mi mancherai, Mochi» l'animale si rassegnò alle coccole forzate e cominciò a ronfare beato.

«Elizabeth» gridò Rob dal piano di sotto. «È ora, su» aggiunse, con la voce che tremolava. Elizabeth lasciò Mochi che si acciambellò sul suo cuscino, addormentandosi.

«Ciao gatto. Ciao camera. Ciao, Lake Placid» disse la ragazzina, abbracciando con lo sguardo tutta la stanza, cercando di portarsela via con gli occhi.

Scese le scale a fatica, mentre il peso della valigia la trascinava quasi giù. Uscita di casa, vide che John era appoggiato alla macchina con un piede; una mano in tasca, stava fumando una sigaretta. «Ecco la nostra stella!» disse l'uomo, gettando il mozzicone per terra ed allargando le braccia. Prese con delicatezza la valigia, sistemandola nel bagagliaio mentre Lizzy e Rob, in disparte, si salutavano.

«Eliza, ti voglio bene. Fa' la brava. Sei in buone mani, Eliza» proferì Rob, più per rassicurare se stesso che per altro. La figlia rise un momento.

«Ma sì, papà» rispose abbracciandolo «andrà tutto alla grande. Prenditi cura di Mochi. E sappi che ti voglio bene anch'io.»

John suonò il clacson; era ora di andare, se non avessero voluto trovare traffico. Elizabeth si staccò dal padre e corse verso la macchina; fece per aprire la portiera posteriore, ma John le urlò di non fare la femminuccia e di salire davanti.

Un po' in apprensione, Rob guardò l'auto grigia svoltare la via sgommando.

 

«Hai fame, piccola?» John volse per un attimo il viso verso la ragazzina. Si era appoggiata con la testa e le mani vicino al finestrino per guardare il panorama, il corpo teso a raggiungere il vetro; la maglietta, tirata, le aveva scoperto parte della schiena.

«Un pochino. Ma se è solo per me non ti fermare.» disse distratta.

"L'ha educata dannatamente bene, quel Rob, ed è un bocconcino pazzesco"pensò John lanciando il mozzicone della sua decima sigaretta dal finestrino.

Elizabeth, le gambe un po' indolenzite e lo stomaco vuoto, era vagamente nauseata dall'odore di fumo. Però era eccitata; aveva intravisto da poco i primi cartelli per New York.

A dispetto del declino iniziale della ragazza, si fermarono in un autogrill – scadente, lercio e pieno di camionisti. John disse che poteva prendere ciò che più le piaceva; alla fine l'uomo, dopo essersi sorbito i molti 'no, no, decidi tu' della ragazza, le comprò un sacco di leccornie che sapeva le sarebbero piaciute, più una rivista di musica.

«Ma John, ti ringrazio tanto... anche se, purtroppo, leggere in macchina mi nausea. Quella possiamo anche non prenderla.» L'uomo la portò alla cassa dicendole che l'avrebbe letta con calma a casa sua, di non preoccuparsi e che era proprio una ragazza educata e che non vedeva l'ora di sentirla cantare. Lizzy si limitò a guardarsi le scarpe, imbarazzata, poi gli sorrise.

Il resto del viaggio lo passò dormendo con la testa appoggiata sull'avambraccio sinistro e lo stomaco pieno dopo essersi sbafata tutte quelle bontà. Con la mano destra stringeva la rivista di musica.

Qualche minuto prima che arrivassero a New York, Rob decise di svegliarla – pensò le avrebbe fatto piacere, ed era proprio così. Prima di scuoterla le appoggiò una mano sulla coscia, salendo piano. La ragazza si mosse. John rimise le mani sul volante alla svelta.

«...mmm. Ho dormito?» Elizabeth non aspettò la risposta. «Oh mio dio, ci siamo quasi!»
L'ultimo grammo di stanchezza venne scrollato via dal corpo euforico della ragazza: per il restante tempo in cui guidarono verso la casa di John, ella non smise di apprezzare la città.
Era così... grande, e piena di gente, e così diversa da Lake Placid! I suoi occhi, avidi di meraviglie, non facevano in tempo a dedicare la loro attenzione a qualche cosa che venivano subito attratti da altro.

Quando finalmente arrivarono, l'umore di Lizzy era alle stelle. Il locale – sopra il quale si trovava la residenza di John – aveva un'insegna moderna, né vistosa né insignificante, quasi sull'elegante.

«Oh, John» disse con gioia «questo locale è fichissimo!»

John rise, mangiandosela con gli occhi, mentre lei entrava e lui tirava fuori dal bagagliaio la valigia. «Sono felice che ti piaccia, piccola.»

Dentro, nonostante le luci fossero spente e le sedie sopra i tavoli, si respirava già un'aria di festa. I colori toccavano tutte le tonalità di blu, soffermandosi soprattutto sul blu notte; le bottiglie di alcolici, disposte dietro al bancone in modo che i colori formassero un arcobaleno, rilucevano invitanti. Due o tre palchi dominavano la grande stanza, con quello principale al centro; Elizabeth ci salì sopra impugnando un microfono immaginario. Cantò qualche verso di una canzone ondeggiando i fianchi, e John – che si era seduto a guardarla tirando giù una sedia dal tavolo più vicino al palco – applaudì entusiasta, regalandole persino una standing ovation*.

Lizzy rise, i suoi capelli ondeggiarono con lei, e John salì sul palco per abbracciarla. «Ah, piccola» disse chinandosi per guardarla negli occhi «è bello che tu sia qui.»










 

 

 

 

Lana è nata il 21 giugno del 1986, e la cosa figa figa è che non mi sono nemmeno resa conto che, nel 2000, avesse 14 anni... giusto l'età che ho scelto per lei in questa storia!

'I'm your National Anthem, Boy put your hands up, Give me a standing ovation' SCUSATE, dovevo.

Oui, alors. Questa storia è nata mesi e mesi fa, perché amo con tutta me stessa Lana e non le avevo mai dedicato qualcosa (purtroppo per lei, il momento è arrivato). In origine doveva essere una one-shot, ma poi ho deciso di spezzarla. Credo durerà sui tre capitoli a dir tanto... o forse due. Forse alzerò il rating, forse no... in ogni caso, credo si presagisca già cosa succederà – in linea di massima.
Ah, e il titolo si riferisce sia a 'Lolita' di Nabokov che alla canzone di Lana. 


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